Tra Terra e Mare (prefazione a “Il Trattato Transatlantico”, di A. De Benoist)

Per gentile concessione di Arianna Editrice, pubblichiamo la prefazione di Eduardo Zarelli al libro di Alain De Benoist Il Trattato Transatlantico. L’accordo commerciale Usa-Ue che condizionerà le nostre vite (ed. it. 2015).

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“Quando i governanti si ritengono mandatari dell’intera umanità, il terrore è alle porte”

Nicolás Gómez Dávila

 

il-trattato-transatlanticoLe ragioni di questo volume si colgono nella lettura degli argomenti portati autorevolmente da Alain de Benoist. Per noi, con quest’ultima pubblicazione, si porta a compimento una triade di titoli – Sull’orlo del baratro, La fine della sovranità e il libro in essere – che ha percorso l’intero svolgimento dell’attuale crisi economica e sociale, unita alla torsione epocale della globalizzazione e dell’occidentalizzazione del mondo. Il trattato sul commercio transatlantico, tema qui affrontato, non è la scontata conseguenza dell’ampliamento del libero mercato su scala mondiale, quale metastasi nella fibra più profonda delle società; questi accordi, di fatto, vedranno il venire meno della sovranità degli Stati a favore delle multinazionali e delle corporation internazionali. Il potere di citare in giudizio l’autorità statuale fino a rovesciarne le leggi sovrane che regolamentano questioni di primaria importanza – come le relazioni nel mondo del lavoro, l’inquinamento, la sicurezza agroalimentare, gli organismi geneticamente modificati – renderanno norma la mercificazione dell’esistente. Non è un caso, che i contenuti del mercato unico transatlantico e le sue motivazioni restino privi di trasparenza e discussione pubblica. Le tecnocrazie sulle due sponde dell’Atlantico, in simbiosi con le lobby del profitto, stanno codificando un modello di società a uso e consumo dell’avidità della speculazione finanziaria, nella connivenza della servile rappresentanza politica e della deliberata privazione della partecipazione e legittimazione popolare.

In realtà, molteplici voci si stanno alzando in controtendenza; in comune, hanno una dichiarata volontà di cambiamento, che per alcuni significa una fuga dal presente, che spaventa, per un ritorno a un passato in cui si vagheggia di ritrovare sicurezza e benessere, e per altri la trasformazione di una società divenuta sempre più ingiusta, mettendo al centro la giustizia sociale, la solidarietà, il rifiuto del profitto come unico metro di valutazione. Il fatto è che ciò contro cui si concentrano gli oppositori costituisce gli effetti, e non la causa, della situazione in cui versa l’Europa intera; la crisi economica e sociale ne ha solo inasprito le conseguenze, che prima erano velate da un benessere effimero o dalle aspettative di raggiungerlo; il non comprenderlo condanna alla sterilità e a un sostanziale fallimento ogni tentativo di mutare le cose.

de_benoistL’analisi di Alain de Benoist spicca su tutte le comuni argomentazioni in merito, in quanto colloca le dinamiche in atto in una prospettiva più profonda, cogliendo la modalità stessa della forma capitale e dell’economicismo, come epifenomeno nichilista della modernità. Vi sono, cioè, tre livelli che caratterizzano l’uniformità indotta del mercato occidentale.

Il primo attiene all’inverarsi di un’economia priva del suo oggetto. Non declinandosi al sostentamento comunitario, viene meno nella sostenibilità ambientale e nel suo mandato sociale di giustizia e dignità nel lavoro; sconquassa gli equilibri naturali e ci precipita nel dominio dell’autoreferenzialità tecno-scientifica, ragione per cui una crescita illimitata concretizza la distopia della “notte del Mondo” – come direbbe Martin Heidegger – ossia la ridondanza dei mezzi, in una completa assenza di fini.

Il secondo livello si esplica nel venire meno del senso del politico, sussunto dall’autoreferenzialità amministrativa giuridico-economica dell’esistente. L’inanità e l’acquiescenza della classe dirigente ai processi in atto sono un tutt’uno con il divorzio tra idee e politica, tra giustizia e appartenenza comunitaria, tra Popolo e sovranità.

Il terzo e ultimo livello attiene all’elemento che tutto racchiude, l’affermarsi di un modello unilaterale e indifferenziato di umanità edonistica, tanto più consumista quanto più disposta all’esito totalitario indotto dal moderno: l’uniformità.

Carl-SchmittÈ noto che Carl Schmitt legge la storia dell’Europa moderna alla luce dell’opposizione fra Landmächte e Seemächte, ossia tra potenze basate sul primato della funzione politica e potenze basate sul primato della funzione economica. In effetti, come ben coglie Fabio Falchi ne “Lo spazio interiore del mondo” (Anteo Edizioni), anche se la modernità, rispetto alla “tradizionale” civiltà europea classica e cristiana, si caratterizza per una serie di “soluzioni di continuità”– quali, ad esempio, la rivoluzione spaziale del XVI secolo, la Riforma, la scienza galileiana, la rivoluzione inglese, l’Illuminismo, la Rivoluzione francese e soprattutto la rivoluzione industriale – non solo è rilevante, dal punto di vista geopolitico, la (relativa) continuità fra le tre talassocrazie moderne (in ordine cronologico, quella olandese, quella inglese e quella americana). Lo scontro tra potenze continentali e talassocrazie – a prescindere dalla natura ideologica dei conflitti del Novecento, un secolo di ferro e di fuoco, contrassegnato da aberrazioni e violenze di ogni genere – sembra allora essere anche indice di un modo di abitare la Terra incompatibile con quello dell’homo oeconomicus e con l’american way of life. E proprio la salvaguardia di questa “radice terranea” antica quanto l’uomo stesso, sarà con ogni probabilità la posta in gioco nel nostro secolo, in cui tutto procede talmente rapidamente da fare apparire il mondo occidentale di oggi totalmente diverso da quello di trent’anni fa, mentre si tratta dello stesso mondo, con la differenza che non vi è più alcun “katechon geopolitico” in grado di contrastarlo. Simone Weil, elogiando con grazia filosofica il radicamento, denunciò inequivocabilmente la scomparsa simultanea dell’ideale e del reale nel nichilismo, la perdita del senso concreto e del metafisico come malattia dell’Europa, che coincide con la perdita del passato: «la perdita del passato è proprio la caduta nella servitù coloniale».

nazemroaya_natoSenza volere andare troppo indietro nel tempo, l’Europa come oggi la conosciamo ha le sue radici nella occasione persa nel 1989 per miope egoismo e pusillanime asservimento. Allora, alla fine della Guerra Fredda, si rese possibile la nascita di un soggetto politico europeo neutralista, non allineato, affrancato da condizionamenti e sudditanze esterne. Con lo sgretolamento dell’Unione Sovietica, la scomparsa del ricatto nucleare rendeva inutile la NATO e toglieva ogni ragion d’essere della subalternità all’egemonia statunitense e a un modello unilaterale degli equilibri mondiali. La fine della “giustificazione” di tale sudditanza avrebbe potuto dare una spinta significativa a quell’aggregazione, costituendo una massa critica tale da non temere condizionamenti da alcuno e amalgamando non solo l’Europa orientale, ma anche tutto il bacino del Mediterraneo e oltre. Ciò che accadde dopo è sotto gli occhi di tutti: l’Euro si è dimostrato una valuta senza sovranità, funzionale alla colonizzazione economica del Continente, di cui il trattato transatlantico è il suggello ultimo. Washington, che aveva visto con apprensione la scomparsa della ragion d’essere della NATO e della sua tutela geopolitica, ha pilotato un’aggregazione economico-militare, che si dilata a dismisura inglobando Paesi su Paesi in un’irragionevole conquista dell’Est, da cui l’innaturale accerchiamento strategico della Russia, di contro all’Europa stessa e alla sua ragion d’essere. Quando Berlino, sulla spinta della riunificazione, proiettò la sua sfera d’influenza sui Paesi dell’Est, creando una partnership strategica con Mosca, Washington intervenne con tutti i mezzi disponibili, leciti e illeciti, per bloccare ogni afflato di indipendenza: la maturazione di un simile scenario, da cui sarebbe stata tagliata fuori, avrebbe fatto sorgere una complementarietà economica e commerciale continentale, che avrebbe inevitabilmente assunto connotazioni politiche alternative alle potenze transatlantiche anglosassoni, che assoggettano il Pianeta a un unilateralismo egemonico di fatto “imperialistico”.

de_benoistLa crisi che abbiamo importato da oltre Atlantico ha messo a nudo, d’altro canto, i limiti e l’inadeguatezza del sistema liberalcapitalista: un gruppo di Paesi diversissimi, ingabbiati in meccanismi funzionali alla speculazione finanziaria internazionale e uniformati con drammatici costi culturali, ambientali, economici e sociali. Il resto è storia tanto nota quanto recente: la sanguinosa crisi ucraina, le sanzioni che nuocciono agli europei ancor più che ai russi, in economie già provate da una crisi interminabile indotta dal debito. Per cambiare radicalmente questa Europa, non basta dunque criticarla per ciò che è divenuta, attaccarne semplicemente le regole economiche e, meno che mai, pensare di tornare indietro, a un passato superato e ormai lontano anni luce dalle dinamiche economiche e sociali postmoderne. È, prima d’ogni cosa, necessario porre fine al condizionamento proveniente da oltre Atlantico, a una sudditanza che impedisce ogni vera dinamica politica, economica e sociale alternativa. Solo riacquistando un’indipendenza reale, si potrà dare un’anima politica all’Europa, riunendo i Paesi attorno a un progetto di sostenibilità economica, di federalismo e di sussidiarietà comunitarista, che oltrepassi i singoli egoismi. Indicare strade diverse, che non mettono al centro questo presupposto geopolitico culturale, è solo velleitarismo, è condannare alla sterilità i moti di insofferenza della società reale.

Ciascuno dei tre livelli della critica di sostanza al trattato transatlantico si giustifica, se in coerenza con gli altri. Limitarsi alle rivendicazioni in forma di diritti individuali, privi di un’appartenenza comunitaria, e quindi di una sovranità politica, non metterà in grado di scardinare l’inerzia del meccanismo autoreferenziale della forma capitale. Il mutamento richiesto deve essere di paradigma e rimandare all’appropriatezza dell’essere e alla virtù del limite naturale contro la dissipazione di un modello di sviluppo tanto vorace quanto smisurato. Terra e mare, quindi: la polarità in gioco è tra la sobrietà del radicamento e la protervia dell’uniforme – del “medesimo”, per dirla con Alain de Benoist – tra l’armonia politeistica degli Dei e la protervia prometeica dell’avidità. Le categorie metapolitiche, quali Terra, Mare, Eurasia, Occidente, talassocrazia o “grande spazio”, rimandano al nostro “Essere-nel-Mondo” e vanno interpretate in chiave non solo geofilosofica, ma anche storico-geopolitica, se è vero che è destino degli usa-ue-italiauomini “Essere-insieme”; il che equivale a dire che l’uomo è innanzitutto un animale politico e un essere simbolico. Una connessione così stretta che “pax americana” e barbarie occidentale appaiono ormai come le due facce della medesima medaglia, a cui contrapporre la forma politica nel suo principio metafisico: l’Imperium, come dominio interiore. Un impero inteso cioè come grande spazio (nel senso attribuito a questo sintagma da Carl Schmitt), in cui possono convivere genti diverse, ma unite da principi e valori comuni, e in cui i confini non separano, ma uniscono distinguendo, come membrana della vita cellulare di un organismo integro, non essendovi posto per l’etnocentrismo, il razzismo o la xenofobia, giacché la sovranità si configura in primo luogo come difesa del bene comune e dei legami comunitari. L’impero, perciò, non solo è un tutto diverso dalle parti che lo compongono (di modo che, per certi versi, non può che essere superiore ad esse), ma è anche un grande spazio in cui i singoli individui, in virtù del senso di appartenenza a un determinato gruppo sociale e culturale, si possono riconoscere reciprocamente come persone con determinati diritti e doveri. Nondimeno, una volta riconosciuta la differenza tra un grande spazio continentale e il cosiddetto “impero americano”, non essendo appunto quest’ultimo un autentico impero ma una talassocrazia che non riconosce alcun confine né altre “misure” oltre a quelle stabilite dalla propria “il-limitata” mercantile volontà di potenza, sarà possibile il riconoscimento della diversità nell’universale, di contro all’universalismo che disintegra ogni appartenenza. Un libro indispensabile, quindi, nel rivolgimento epocale indotto dalla globalizzazione, che prometteva quiete, ma semina tragicamente tempesta.

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