I falsi miti dell’antiamericanismo “di sinistra”

di Enrico Galoppini

marce_vietnamIn Italia, in Europa, in Occidente, essere bollati come “antiamericani” comporta l’esclusione dal consesso delle “persone rispettabili”, se non addirittura una vera morte civile. Eppure c’è stata un’epoca, che culminò con la guerra nel Vietnam, nella quale essere “antiamericani” costituiva addirittura un vezzo, una moda ‘ribellistica’.

A quella generazione di “contestatori” delle “marce per la pace” e “per i diritti” (nate negli stessi Usa e poi esportate in Europa!), ha fatto seguito quella del “riflusso”, del “ritiro nel privato”, dove spopolano i “benpensanti”, tra cui non pochi sono quelli affluiti dai ranghi dei “delusi del Sessantotto”. Ma le porcherie commesse in giro dall’America non sono affatto terminate con la fine della devastazione del Vietnam, perciò un atteggiamento ostile verso l’America e i suoi comportamenti è fisiologico e si ripresenta attuale ad ogni generazione.

Per questo, a gestire tale sentimento provocato essenzialmente dall’azione nefanda degli Stati Uniti stessi, è stato incoraggiato un ‘monopolio del dissenso’, in mano ad alcuni ‘guru’ d’orientamento “radical” che si esprimono e pubblicano in inglese, cosicché in Italia e in Europa i loro omologhi “di sinistra” sono perlopiù dei diffusori delle elaborazioni, tutt’al più parafrasate, di alcuni “opinion leader alternativi” d’Oltreoceano e d’Oltremanica verso i quali nutrono un particolare timore reverenziale. Insomma, nessun “antiamericanismo” è lecito ai “confini dell’Impero” se non reca il beneplacito di qualche esponente del pensiero “radical”[1]. Ciò è particolarmente chiaro se si osserva la marginalizzazione di quell’“antiamericanismo di destra” che, frutto di una cultura “tradizionalista” e/o di un sentimento filo-fascista, è stato sistematicamente escluso dal novero delle idee “ammesse in società”. Se “tu vò fa l’antiamericano”, parafrasando Carosone, devi essere “libertario”, “radical (chic)”, “di sinistra”, altrimenti non si può!

Eppure, un “antiamericanismo di destra” avrebbe più senso di uno di “sinistra”, se non altro perché la guerra contro l’America l’ha combattuta l’Italia fascista[2], e, soprattutto, perché essendo gli Stati Uniti la “terra promessa” della Democrazia, della Libertà e dei Diritti umani, col relativo tipo umano e il modello di società che vi s’instaura, una critica sensata all’americanismo potrebbe prendere le mosse solo da un punto di vista “tradizionale”, ordinato dall’alto in base ai principi d’ordine spirituale.

Non abbiamo detto volutamente “un punto di vista tradizionalista”, poiché un conto è inserirsi nel solco di una Tradizione regolare, viva e operante, un altro considerarsi “guénoniano”, “evoliano”, “gurdjeffiano” eccetera, leggendo solo libri su libri e per questo autoelevandosi al rango di “uomo differenziato”… Dal punto di vista di una Tradizione regolare come quella islamica, l’America risulta necessariamente un’aberrazione, il punto finale di quella “caduta”, o “regresso”, che l’uomo – sia come individuo che come collettività – deve inesorabilmente esperire prima della “fine dei tempi” e della nuova Età dell’oro che deve far seguito. Questo per puntualizzare che anche un’insistenza su un carattere “di destra” dell’“antiamericanismo” è una forzatura, essendo “destra” e “sinistra” due facce dell’unica medaglia liberal-democratica, o “moderna”.

Ma questo è un punto che eventualmente andrà sviluppato in un altro articolo, qui interessandoci una rapida disamina dei “miti” di un “antiamericanismo di sinistra” che non ha alcun senso se si ama andare al fondo delle cose e non ci si accontenta dell’apparenza, tanto per agitarsi un po’ contro qualcosa o qualcuno.

Innanzitutto va specificato che l’atteggiamento sano è quello di chi è “per” qualcosa, non “contro” qualcosa. Dall’alba del mondo, i grandi costruttori di civiltà si sono sì battuti contro delle storture, delle deviazioni, delle condizioni intollerabili e “innaturali”, ma solo per “raddrizzare” la situazione e riportarla conforme all’ordine naturale delle cose. Si pensi all’opera del Profeta Muhammad, che dovette – all’inizio seguito da uno sparuto manipolo – combattere contro un disordine su tutti i piani, in primis spirituale, addirittura emigrando a Yathrib (poi Medina), tanto erano “invivibili” le condizioni a Mecca.

Con l’”antiamericanismo”, in specie quello “di sinistra”, va detto invece che si è di fronte ad un atteggiamento meramente negativo, non sapendo del resto cosa proporre di realmente “alternativo” all’America e al suo modello di “civiltà”.

Di fronte ad una simile superficialità, l’America stessa ovviamente ringrazia ed offre un seppur minoritario proscenio a dei sedicenti “oppositori”, che comunque, a causa delle loro idee che non mettono a repentaglio l’andazzo generale, i fondamenti della “civiltà moderna”, hanno un loro pubblico che va a vedere i loro film, legge i loro libri, ascolta i loro discorsi eccetera.

Ma questo pubblico “antiamericano di sinistra” fondamentalmente ama l’America, il che al fondo non sarebbe sbagliato – a patto che si “ami” anche tutte le altre “culture” – perché l’odio è un veleno che obnubila la capacità di discernimento e, soprattutto, è quanto di più antispirituale vi possa essere. Tuttavia questo tipo di “opinione pubblica”, privo di un orizzonte tradizionale, protesta contro gli Stati Uniti e l’Occidente a causa delle “ingiustizie” da essi perpetrate, ma, si faccia attenzione, solo certe “ingiustizie” e non altre, ovvero quelle che risultano tali ad un metro di giudizio “democratico”, “egualitario”, “umanitario”.

Questa sorta di “coscienza critica dell’America” s’incarna in un tipo umano lacerato tra amore e odio verso la “Terra dell’Utopia”: un amore di fondo, messo però a dura prova da puntuali e ripetute “delusioni”… Pertanto il desiderio di chi contesta l’America da questa posizione non è quello di vederla sparire, assieme alla sua parodistica “civiltà”, bensì di vederla “migliorare”, d’incoraggiarne quelle tendenze insite nelle roboanti e ipocrite “dichiarazioni di principio” che fanno andare in brodo di giuggiole gli utopisti d’ogni risma.

Per essi gli Stati Uniti, anche se mettono a ferro e fuoco il mondo intero e lo traviano con ogni raggiro ed artificio, alla fine hanno sempre una “missione” da compiere, sono animati fondamentalmente da “buone intenzioni”; così la colpa dei crimini commessi in giro per il mondo è sempre di qualche “cattivo” che pregiudica un’impresa altrimenti “buona”: dai “Padri fondatori” al “Bill of Rights”, dall’ “I have a dream” di Luther King alla “Nuova frontiera” di Kennedy, dalla “clintonite” della sinistra bombardatrice di Belgrado all’obamiano “Yes we can”.

Quest’atteggiamento di voler vedere comunque al fondo dell’impresa americana un qualcosa di perfettibile perché fondamentalmente buono, deriva dal comune approccio utopistico che affratella i sognatori di “mondi migliori possibili”. Per essi la realtà non conta nulla: come vi erano solo “compagni che sbagliano” vale l’assunto per cui l’America compie sempre degli “errori”.

Non deve quindi sorprendere che anche gli “antiamericani di sinistra” alla fine si esaltino per il “vento di libertà” che, a distanza di vent’anni da quello che spirò sui Paesi del blocco sovietico, sta spazzando via le “dittature” del mondo arabo e islamico. Questa sedicente “sinistra antiamericana” stregata dal divo Obama, imbevuta fino al midollo di retorica “libertaria”, è la miglior cassa di risonanza del nuovo ‘verbo’ che accompagna la cosiddetta “primavera araba”, sui abbiamo già detto la nostra[3].

Tornando alla fondamentale subalternità di chi critica l’America da una posizione “democratica”, non può non colpire come da decenni venga assicurato senza un barlume di dubbio che… “l’America è finita”! Di nuovo, l’osservazione della realtà – che fa a cazzotti con le utopie – induce a ben altre considerazioni, poiché l’America non solo si espande militarmente conquistando progressivamente porzioni del pianeta che prima non controllava[4], ma il suo “modello” si allunga a macchia d’olio, addirittura oltre le conquiste dirette, il che rappresenta la vittoria più chiara, nonché un segno di “vitalità”, anche se va detto che è solo la conquista materiale che assicura definitivamente all’americanismo le menti e i cuori.

Così, sulla stessa falsariga onirica, “l’America ha perso in Afghanistan”, “l’America ha perso in Iraq” e via illudendosi, perché non si vorrà certo credere che il “caos” colà vigente non sia un esito voluto da chi ha tutto l’interesse, mentre ogni aspetto della vita dei locali deve diventare impossibile, a costruirsi le sue basi militari per la prossima conquista e a predare il Paese conquistato di ogni sua ricchezza, specialmente mineraria e monetaria (per non parlare del mercato mondiale della droga, che dev’essere sempre controllato). Il sospetto è addirittura che le “perdite americane in Iraq” e altrove che questi “antiamericani” brandiscono con tanto di contatori elettronici sui loro “siti alternativi” siano causate da un misurato e sotterraneo ‘sostegno’ alle forze delle varie “resistenze”, affinché il “caos” frutto delle “violenze” si protragga indefinitamente.

Prima di procedere in questa disamina dell’“antiamericanismo democratico” va anche specificata una cosa: che esso si fa largo nelle convinzioni delle persone in misura differente, a seconda delle rispettive sensibilità. Non è dunque un pacchetto “tutto compreso”. Qui stiamo esaminando i differenti aspetti che, singolarmente o cumulativamente, caratterizzano l’atteggiamento di chi critica l’America da posizioni “democratiche”, “umanitarie”, non tradizionali, ma va da sé che vi è chi si beve un paio di bicchieri di questa propaganda e chi invece si ubriaca del tutto.

Discretamente forte, in questo senso, è il ‘cocktail’ che va sotto il nome di “antimperialismo”. Ma per chiarire con un esempio i diversi livelli di penetrazione di questo sentire “critico” verso l’America e i suoi comportamenti, si consideri che è raro che una stessa persona straveda per Kennedy, Clinton, Obama e si reputi “antimperialista”. L’antimperialismo implica infatti un tipo di avversione all’America di tipo meno edulcorato ed ipocrita, ma non per questo è esente da gravi abbagli, i quali derivano in definitiva dal medesimo errore di base di tutti quanti: la negazione di Dio, del Creatore di tutte le cose al quale tutte sono sottomesse, che ha provvidenzialmente e misericordiosamente comunicato ad ogni forma vivente il modo per riuscire in questa vita e nell’altra. Ma anche questo potrà essere l’argomento di un successivo articolo, perché va chiarito dove sta l’inganno dei continui e plateali appelli a “Dio” da parte dei capi della potenza più antispirituale al mondo (“God bless America!”).

Ciò premesso, a proposito dell’”antimperialismo” va detto che esso presuppone l’individuazione degli “imperialisti”, ovvero di quegli Stati che si espandono ai danni di altri per costruire i loro “imperi”. L’”Antimperialismo” deriva però – come osservato – da una visione del mondo di tipo “laico”, da cui l’equivoco sul termine “Impero”, un istituto i cui fondamenti sono eminentemente spirituali: da tale equivoco nasce il successo delle teorie di Hardt e Negri su un fantasioso “Impero americano” tra i ranghi degli “antiamericani di sinistra”. Ma anche parlare di “Impero inglese” non ha alcun senso, l’Inghilterra essendo stata la punta di lancia della diffusione della “democrazia” e del “parlamentarismo” in società in buona parte “tradizionali” fino all’impatto violento con gli “esportatori di bene”[5]. “Imperi” veri erano invece quello russo, quello austro-ungarico, quello tedesco, quello ottomano, quello giapponese ecc., tutti con sovrani di “diritto divino” e tutti spazzati via da chi li ha sostituiti con la “democrazia” e “l’autodeterminazione dei popoli” (che tanto piace agli “antimperialisti”!).

Inoltre, chi si pone su posizioni “antiamericane” da un punto di vista “antimperialista” è esposto alla possibilità di commettere l’errore madornale di considerare tutte le potenze in grado di avere un peso a livello planetario o regionale parimenti “imperialiste”, senza individuare piuttosto il “nemico principale”. Così troviamo di volta in volta “antimperialisti” (anche “di destra”) che stanno coi tibetani contro “l’imperialismo cinese”, coi ceceni contro “l’imperialismo russo” eccetera. Intendiamoci: non vogliamo dire che l’azione della Cina o della Russia sia esente da ‘peccato’, ma se si vuol “fare politica” come affermano gli “antimperialisti” si deve scegliere una volta per tutte chi è “il nemico principale”, anche perché solo altre potenze possono concretamente opporgli una forza in grado di contrastarlo. Fatto salvo il fatto che non si è ancora capito come gruppuscoli più che marginali possano effettivamente “fare politica”, ovvero incidere sulla realtà, con un qualche costrutto (cosa significa, all’atto pratico, “stare con la Cina”, “stare con la Russia”?). Ma, ripetiamo, è il loro punto di vista “laico” e perciò “antitradizionale” che non fornisce loro gli strumenti interpretativi atti a far comprendere che una “opposizione all’America” in grado d’incidere non può muovere da una denuncia dei suoi “crimini”, bensì da una puntuale messa in discussione dell’americanismo, alla luce di una salda tradizione spirituale[6].

All’interno del panorama degli “antiamericani di sinistra”, a riprova che i riferimenti di fondo, per tutti quanti costoro, sono di tipo “laico”, “democratico” e anti-spirituale, vi sono inoltre quelli che sebbene scorgano chiaramente un “nemico principale”, l’America, auspicano una “modernizzazione” in tutto il mondo, a colpi di “sviluppo”, ed è per questo che leggiamo nelle analisi di costoro critiche feroci al “feudalesimo tibetano”[7]. Non sia mai detto che un popolo si possa governare come meglio crede! Quand’anche ai tibetani piacesse vivere sotto il loro “clero” e non sotto i cinesi “modernizzatori”, non si capisce quale pena dovrebbe dare ciò ad un “antimperialista” comodamente seduto nel suo studiolo zeppo di testi marxisti. È semmai vero – e qui sta la ragione di un timore circa certe “proteste in Tibet” – che vi sono alte probabilità che un Tibet sottratto al controllo cinese in men che non si dica passerebbe armi e bagagli all’America, mettendo a disposizione il suo territorio per l’ennesima enorme base Usa-Nato…

Come si vede, dall’esistenza di “antiamericani” pro-Tibet ed anti-Tibet si deduce che il problema di fondo di tutti quanti è la mancanza di un orientamento spirituale: gli uni sono anticinesi viscerali perché la Cina è “antidemocratica”, una “dittatura” (e anche perché le SS compirono la spedizione in Tibet!); gli altri sono filo-cinesi perché aborriscono il “feudalesimo” e considerano la Cina il miglior esempio di “democrazia (popolare)” e di “progresso” sin qui realizzato (mentre il Tibet rappresenta il “regresso”). La confusione, dunque, regna sovrana.

Gli stessi “antimperialisti”, poi, forse per consolarsi di fronte alla costante avanzata dell’America e dell’americanismo (mentre ripetono che “l’America ha perso”!), hanno elevato alcuni fatti o situazioni a veri e propri “idoli”. Per non girare troppo attorno alla questione e proporre un esempio paradigmatico, citiamo il caso di Cuba. Quest’isola, da decenni, rappresenta meglio del Chiapas del “subcomandante Marcos” o della “resistenza palestinese” (che ormai è in mano agli “islamici”, per cui non piace più tanto ai “laici” di casa nostra)[8], la quintessenza dell’“antimperialismo”.

Il sistema instaurato a Cuba piace agli “antimperialisti”, perché a loro parere esso rappresenta la miglior forma di “democrazia” realizzata, “laica” e “progressista”. Anche con quell’orgoglio “nazionalistico” che, chissà perché, gli stessi “antimperialisti”, e ancor di più i “critici democratici dell’America” più morbidi, non degnano di alcuna considerazione quando si tratta di valutare la triste situazione in casa loro. Anzi, ogni ripresa nazionalistica in patria – e non mi riferisco all’attuale “classe dirigente”! – porterebbe con se delle “derive ”, dei “rigurgiti di fascismo” e simili iatture… Quando con ogni probabilità, un sano “amor di patria”, da trascendere poi in vista di un Impero (altrimenti è fatica sprecata), potrebbe essere l’unica via d’uscita – politica, s’intende – alla dissoluzione di civiltà in atto, se ormai non è “troppo tardi”.

È vero che Cuba ha aiutato alcune realtà del centro e del sud America a smarcarsi dalla opprimente tutela degli “yankee”, ma la sua sussistenza anche oggi che non vi è più lo sponsor sovietico dà da pensare, come la misurata e gestibile “guerriglia” antiamericana in Afghanistan, in Iraq ecc. Anche in questo caso qualche dubbio è lecito: possibile che se gli Stati Uniti e i loro alleati sono in grado di rovesciare Stati di una certa forza e rilevanza in ogni dove, non siano capaci di togliere di mezzo il governo cubano ad essi inviso? O, piuttosto, non è che lo si lascia esistere per poi avere la scusa di affermare che ogni situazione che sfugge di mano nel continente americano è un “complotto di Fidel Castro”? Cuba, insomma, embargata com’è, e perciò “innocua”, usata come “scusa” in un senso o nell’altro: per rovesciare capi di Stato bollati come “comunisti” (Allende, ad esempio) o, nel caso in cui non vi si riesca, per giustificare il fallimento dell’azione sovvertitrice tentata a più riprese (vedasi il caso del Venezuela).

Cuba, probabilmente in un certo senso fa comodo agli Stati Uniti così com’è, come spauracchio, sopravvalutata nella sua forza da chi ne ha fatto un parodistico luogo di pellegrinaggio dai “rivoluzionari in cachemere” d’Occidente, che anelano a “liberazioni” solo ad un elementare livello socio-politico.

A Cuba, per di più, sorge una celebre base militare statunitense, quella di Guantanamo, che gli “antiamericani di sinistra” hanno denunciato senza posa da quando pare essere diventata la “prigione degli islamici”. Eppure c’è qualcosa che non torna: da Guantanamo pare essere transitato il capo dei “ribelli libici”! Non è un po’ strano? E nessuno trova niente da ridire, per primo il governo cubano! Ora, che il governo italiano non fiati sulla presenza di oltre cento basi ed installazioni militari Usa-Nato sul suolo patrio non desta sorpresa, ma che Cuba, simbolo dell’”antimperialismo” e dell’“antiamericanismo”, non profferisca parola su una cosa del genere è in effetti inspiegabile. La nostra impressione è che si sia stabilita una sorta di quieto vivere, che probabilmente ha per oggetto centrale proprio l’esistenza della base di Guantanamo, la quale, più che essere il “cattiverio” in cui rieducare i “mujahidin” acciuffati dallo Zio Sam, sembra un luogo in cui “formare” i quadri militari e logistici per la sovversione del mondo arabo-islamico alla quale assistiamo sotto lo slogan di “Primavera araba”[9].

Inoltre, il “mito di Che Guevara”, e sottolineo il “mito” che ne è stato fatto – ridotto a marchio per il concerto del 1° maggio dove al suono di cantanti larvatamente “antiamericani” va in scena il festival dell’ ‘alternativamente corretto’ – per le sue connotazioni “ribellistiche” ha ben poco a che vedere con il ripristino di un ordine naturale delle cose di cui oggi v’è un estremo bisogno. Come abbiamo già scritto, una “ribellione” che sfocia nel “ribellismo” è foriera solo di ulteriori sciagure[10]. E anche il “ribellismo”, di cui l’icona del “Che” è una delle più venerate, è un atteggiamento, o meglio una condizione esistenziale, messa a disposizione, specialmente tra i giovani, dal “mondo moderno”[11].

Un ultimo elemento va infine citato tra quelli che compongono il quadro di riferimento dell’”antiamericanismo di sinistra”: la valutazione delle “dittature di destra”. Che esse siano state incoraggiate e sostenute dall’America, non v’è dubbio, tuttavia una retorica imbalsamata ripete che la Spagna sotto Franco, i Colonnelli greci, le giunte militari sudamericane eccetera siano state dei meri burattini in mano alla Cia. Che molti di questi personaggi, in varia misura (la Spagna franchista aveva anche degli elementi “in ordine” dal punto di vista tradizionale, e non ospitava basi americane) si siano prestati ad un opera di asservimento della loro nazione ai diktat delle corporation americane, non v’è dubbio, e che essi abbiano fatto sparire in vari modi moltissimi oppositori con la scusa della “lotta al comunismo”, è altrettanto vero. Pertanto, essi non suscitano alcuna particolare simpatia.

Ma queste “dittature militari”, definite “fasciste” dal solito coro di “antiamericani” che assumono acriticamente gli impulsi culturali provenienti da Hollywood[12], sono state però mantenute in piedi fintantoché ha fatto comodo al loro padrone; poi sono state gettate nel cestino e al pubblico ludibrio: si pensi a Pinochet, prima potentissimo, poi ridotto come oggi vediamo l’altrettanto ex potentissimo Mubarak; oppure alla giunta militare argentina, fatta fuori dopo la sconfitta nella guerra della Falkland/Malvinas; oppure a Noriega, altro “dittatore di destra”, che all’improvviso diventa “pazzo”, il che giustifica un massacro statunitense a Panama. Gli esempi di questo tipo possono sprecarsi anche in Africa, ma ci fermiamo qui, perché quel che ci preme è rilevare che alla fine gli Usa e l’Occidente sovente controllano materialmente e, soprattutto, a livello psicologico, sia i “rivoluzionari” che i “conservatori”: i primi illusi circa le magnifiche sorti “progressiste” e del loro Paese e dell’umanità, i secondi ingannati sulla loro indispensabilità nel mantenimento di un “ordine” che in realtà è un vero disordine se valutato alla luce di riferimenti tradizionali autentici, rappresentati dalla Parola divina consegnata nel Libro sacro dell’Islam e dall’esempio virtuoso del Suo Inviato (nonché dalla pratica pia dei Compagni, dei Seguaci e sei Seguaci dei Seguaci, oltre che dall’opera dei Sapienti divinamente ispirati e dai Maestri che provvidenzialmente esistono per indicarci che la Tradizione è una realtà viva ed operante).

La verità è che ogni società ha bisogno, per poter prosperare, sia dei suoi “progressisti” che dei suoi “conservatori”, o meglio di uomini che sappiano essere simultaneamente “progressisti” e “conservatori”, capaci di vivere allo stesso tempo le istanze alla conservazione e al cambiamento senza che la tradizione venga ingessata in ogni minimo dettaglio né stravolta nei suoi assunti fondamentali.

L’America, invece fa piazza pulita di tutto: dove arriva con la sua potenza materiale e la sua forza di persuasione degli animi, alternativamente privilegia gli uni o gli altri, le tendenze dei liberal-democratici “soddisfatti” o “dinamici”, illudendoli di averla vinta sull’odiata controparte sociale e politica; ma alla fine, per gli uni e gli altri, spogliati della loro tradizione e della loro identità, ridotti ad ombre di se stessi, non resta che un’unica grande valle di lacrime che se non potranno certo spengere le fiamme dell’Inferno che li attende basteranno per annegare, qui in terra, in un mare di nichilismo.

NOTE

[1] Il che ricorda un analogo fenomeno, quello delle critiche al Sionismo ammesse solo se recanti l’imprimatur di qualche pensatore ebreo strombazzato dai soliti “media”.

[2] Una versione completamente plagiata dai vincitori della Seconda guerra mondiale ed interiorizzata ben bene dai vinti ripete che “dichiarare guerra all’America fu una pazzia”. Come se il senno di poi non avesse chiarito che gli Stati Uniti – coi loro sodali inglesi e sionisti – mirano sin dalla loro costituzione a dominare il mondo intero: ma per agire ‘indisturbati’ continuano a raccontare – nei documentari ‘storici’ di loro fabbricazione quotidianamente diffusi da canali tematici e non – che altri (i “cattivi” sconfitti) volevano fare quello che in realtà intendono fare loro (“i buoni” vincitori)!

[3] Cfr. “Primavera araba” o “fine dei tempi”?, 6 aprile 2011: http://www.ildiscrimine.com/primavera-araba-dei-tempi/

[4] Tra Ottocento e inizio Novecento è stato asservito il continente americano (e di nuovo negli anni Cinquanta e Sessanta), poi si è passati alla conquista di una parte dell’Europa (1945), dell’ex “Europa Orientale” (a partire dal 1989-1991, con la coda della guerra all’ex Jugoslavia del 1998-99) e del Vicino Oriente (a partire dal 1991: guerra in Iraq), con l’11 settembre 2011 che segna la fase d’avvio della conquista totale – anche e soprattutto sul piano dei valori – del mondo islamico (Afghanistan, Iraq, Libia…).

[5] Si pensi all’India, letteralmente devastata e ridotta alla fame dall’Inghilterra, e, dopo l’indipendenza, amputata con la creazione di Pakistan e Bangladesh allo scopo di aizzare un perpetuo stato di belligeranza tra indù e musulmani.

[6] Ai “crimini” degli uni verranno sempre opposti, dagli avversari, per giunta più forti mediaticamente, i “crimini” degli altri (un razzetto di Hamas, per la maggioranza lobotomizzata, sarà sempre più deprecabile di “Piombo Fuso”!)… Cosicché le denunce degli “antimperialisti”, oltre che non centrare il problema alla radice (cioè l’americanismo, il “mondo moderno”) non riescono nemmeno a raggiungere un pubblico di dimensioni minimamente consistenti su cui, eventualmente, basare una concreta e fattiva azione politica.

[7] Questi stessi autori, nei decenni passati, ci hanno ammorbato con le loro noiosissime e meccanicistiche interpretazioni sulle “resistenze primarie” (quelle di ‘Umar al-Mukhtâr, dell’emiro ‘abd el-Qâder ed altri), seguite da quelle ad essi gradite, guidate da elementi occidentalizzati nella misura in cui, avendo studiato in Europa, si erano convertiti al marxismo e al nazionalismo.

[8] Che questi gruppi “islamici” siano effettivamente rappresentanti di un Islam autenticamente “tradizionale” è un altro paio di maniche…

[9] D’altra parte, non si tratta di nulla di nuovo: anche i tedeschi e gli italiani vennero “rieducati” in gran quantità, così i ‘primi della classe’ furono inquadrati, dopo il 1945, in patria e fuori, nella farsesca “lotta al comunismo”.

[10] Cfr. La via dell’inferno è lastricata di… “proteste”, 6 luglio 2011: http://www.ildiscrimine.com/via-dellinferno-lastricata-proteste/

[11] Sarebbe interessante indagare le origini storiche del “ribellismo” (quelle metastoriche sono insite nell’esistenza stessa dell’essere umano): intanto si noti la nutrita presenza di ebrei staccatisi dalla loro tradizione tra i ranghi del “rivoluzionarismo” moderno, politico e sociale, dei “costumi”, il che ci dà la misura del nesso tra “ribellismo” e antitradizione.

[12] Le “dittature militari” sono diventate un alibi per giustificare il fallimento della “rivoluzione” in tutto il mondo…

 

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