Arturo Reghini tra Fascismo e Tradizione (seconda parte)
di Roberto Sestito
6. Nel quadro di una puntigliosa analisi della situazione italiana pre-fascista, Reghini attacca il sistema tirannico dei partiti i quali, entrati in una “folle competizione per meglio servire il signor proletario”, hanno finito per fare “comprendere alla stessa massa il carattere necessario e fatale di un regime gerarchico”.
La situazione era arrivata ad un punto tale che “la scelta non era tra regime democratico e regime gerarchico, ma tra la dittatura comunista, la dittatura di don Sturzo e quella di Mussolini. La coscienza degli italiani non poteva esitare ed è stato l’istinto collettivo, assistito dall’intuizione di quelli che erano coscienti, che ha dato la vittoria al fascismo”. (idem, 1923).
La sua intuizione lo induce ad affermare che “le delizie della libertà hanno fatto liberamente desiderare un regime fortemente gerarchico” e basandosi sulle sue conoscenze giunge a stabilire il seguente confronto: “Come Dante, aspettando il Veltro, invocava e accettava Arrigo, così si può augurare il benvenuto a Mussolini…”. In poche parole Mussolini avrebbe dovuto aprire la strada al profetato Veltro, “l’uomo divino che, data la costituzione del mondo, deve fatalmente manifestarsi presto o tardi”. (Il Veltro, 1923).
Verso la fine dell’articolo Reghini, anticipando le vedute del fascismo, afferma che la corrispondenza tra la concezione del Santo Impero e quella di Dante aveva operato in una direzione ben precisa e si era manifestata fin dal 1911 dentro il Rito Filosofico Italiano di cui Reghini stesso era stato uno degli esponenti più prestigiosi.
La conclusione è eloquente e la dice lunga sui contenuti metafisici della politica reghiniana: “Non bisogna dimenticare che esiste un’arte regia, fondata su conoscenze ignorate dai profani. Il meccanismo pensante dell’uomo lo rende sensibile alle correnti del pensiero, e i saggi hanno dunque sempre la possibilità di farsi ascoltare e di esercitare la loro influenza. In ultima analisi al disopra degli uomini e degli iniziati, ci sono i grandi fati, destini superiori agli stessi dei; gli iniziati non possono che augurarsi di conoscerli e collaborare coscientemente e intelligentemente alla loro manifestazione nel mondo dei mortali”.
In un articolo dello stesso anno, nel parlare di Mussolini a cui aveva dato un appoggio sincero e disinteressato, ricorda, lodandolo, il sociologo Vilfredo Pareto che era stato maestro di Mussolini all’Università di Losanna.
Pareto aveva pubblicato un articolo sulla rivista “Gerarchia” diretta da Mussolini e Reghini dopo averne esaltato i meriti di pensatore nella demolizione degli errori e dei pregiudizi come la critica dell’umanitarismo e del cristianesimo, dei miti del progresso, della libertà e della morale protestante, dell’ideologia hegeliana, dei positivisti e della follie comuniste, rileva che nell’articolo intitolato “Libertà” Pareto se la prende soprattutto col feticcio della libertà e con le ideologie che vi si riferiscono.
Si sofferma soprattutto sulla parte dell’articolo in cui Pareto mette in guardia contro alcune rivendicazioni esagerate del partito cattolico che potrebbero produrre effetti negativi analoghi ai movimenti clericali in Francia sotto la restaurazione.
Nello stesso tempo si indigna per la campagna subdola condotta dai massoni cosiddetti democratici contro i massoni che appoggiano Mussolini, e chiarisce: “Non possiamo tacciare Mussolini di gesuitismo perché segue una politica conciliante. Comprendiamo bene che Mussolini si ponga di fronte alla chiesa cattolica in posizione diversa da quella tenuta da una associazione come la Massoneria. Egli è un uomo di Stato e dal punto di vista della scienza o dell’empirismo politico deve tenere nel debito conto, per il bene della nazione, che la religione cattolica ha tutt’ora una grande importanza in Italia”.
L’articolo “L’intolleranza cattolica e lo Stato” del 1923 è un attestato di fiducia nei confronti dell’uomo di Stato alle prese con un’eredità geopolitica complessa e pericolosa, aperta a differenti sviluppi e imprevisti.
Questa fiducia è ribadita nel brano che segue: “Bastano dunque delle considerazioni sociali e patriottiche per giustificare il proposito di Mussolini di vivificare i valori spirituali, capaci di rinsaldare la compagine sociale e di aumentare la forza morale nazionale. E il nostro Ordine (RFI, ndc) che ha per base la conoscenza spiritualistica iniziatica e il sentimento patriottico, è tratto per la sua stessa natura a favorire ogni intendimento di questo genere”.
Le cose andarono diversamente perché “Mussolini agì spinto dai grandi fati”, e cedendo sul terreno umano e patriottico fu spinto a sottoscrivere un accordo politico con gli antichi nemici dell’impero e della nazione italiana.
7. Reghini aveva fatto del suo meglio per aprire gli occhi a Mussolini e nello stesso articolo gli ricordava che occorre tenere conto dell’esistenza in Italia di una “tradizione spirituale indigena, pura, pitagorica, romana, non esotica per origine e per carattere. È una gloriosa catena spirituale che da Pitagora, Virgilio, Ovidio, Boezio, Dante, Bruno, Campanella, sino al Caporali, si perpetua ancor oggi”.
E poco dopo aggiunge: “L’Impero per essere degno del nome, per essere giustamente erede e continuatore dell’Impero Romano, occorre che si riallacci coscientemente a tutta quella vita imperiale, pagana, profondamente spirituale che, sommersa sedici secoli or sono dalla barbarie nordica e dalla democrazia ebraica, ancora permane nell’intimo della stirpe”.
La via quindi era tracciata, l’Italia avrebbe dovuto tenersi lontana da modelli di vita estranei alla sua stirpe e alla sua tradizione, avrebbe dovuto creare un corpo di leggi ed un’organizzazione sociale su basi proprie, autonome, e nell’appoggiare ed incoraggiare liberamente Mussolini che ha fibra di costruttore, conclude additando l’esempio di Napoleone il quale “sentiva e sapeva servendosi del Concordato”.
8. Il 20 settembre 1925, anniversario della breccia di Porta Pia, festa nazionale, Reghini pronuncia un discorso solenne pubblicato su “Era Nuova”.
Esaltando la concezione imperiale dantesca e più generalmente la concezione gerarchica tradizionale, Reghini afferma che essa “si basa sulla concezione monistica iniziatica dell’universo. Alla monade pitagorica corrispondono, sul piano politico, l’unicità e l’unità della più alta autorità governativa, cioè la monarchia nel senso etimologico del termine, che si ritrova anche in Oriente con la concezione islamica (Califfato), indù (il Cakravartin), e l’idea imperiale presso cinesi e giapponesi”.
In un’analisi molto interessante Reghini fa un confronto tra l’idea imperiale romana e la concezione del Santo Impero propria ad organizzazioni iniziatiche più o meno leggendarie come i Templari e i Rosa Croce. Ritorna quindi a parlare dell’italiano Napoleone il quale ”ricostituendo l’Impero, piegando l’autorità del papa alla sua, dando a suo figlio il nome augurale di Re di Roma, facendo celebrare nel 1813 l’anniversario della distruzione del Tempio, mostrò tutta la sua comprensione del dovere da compiere e sembrò quasi ispirarsi alla tradizione imperiale dantesca quando al momento dell’incoronazione, con un gesto studiato, tolse dalle mani del prete officiante la corona di ferro e se la posò sulla testa con le sue mani affermando così che Dio (e non una qualunque autorità) gliela aveva data”.
Torna a parlare nuovamente di Giuseppe Garibaldi e di Giuseppe Mazzini, infiammati di amore ardente per la patria e ribadisce da parte sua la ferma volontà di non voler sacrificare in nessun modo e per nessuna ragione ad alcuna autorità il suo dovere nei confronti della patria.
Ribattendo le accuse che gli erano state rivolte di vagheggiare la venuta di un imprecisato Santo Impero di obbedienza massonica afferma che la sua aspirazione tradizionale ed iniziatica non ha niente a che vedere con le correnti profane internazionaliste del bolscevismo, del pangermanismo, dei “Saggi anziani di Sion” e dell’universalismo cattolico.
9. “L’Imperatore, quello auspicato da Dante, il Veltro, non si nutrirà né di terra né di peltro, ma di Sapienza, di Amore e di Virtù[1]”.
Subito dopo, nello stesso articolo dedicato al Veltro, fa un paragone lusinghiero e trasparente tra la marcia su Roma di Cesare e quella che ha portato al potere il Fascismo. E così conclude: “Oggi l’Italia sta per ristabilirsi. Le virtù antiche riaffiorano. Il sacro suolo della Patria esprime le superbe legioni fasciste che amava Augusto; le masse stanno per guarire dal morbo asiatico. Roma locuta est… E in verità il popolo saprà vivere in modo austero, virtuoso, se il Duce ha fede e reverenza romane per gli Dei della Patria; ci sia permesso, in questo anniversario del giorno Natale di Roma, di leggere i segni, secondo i costumi dei nostri Padri, e di dichiarare augurali i presagi”.
Ma quando il Duce perse la fede negli dei della patria incominciarono i guai. “…Certi pezzi grossi della sua molto profana gerarchia, dovevano produrre i frutti che i nostri lettori conoscono in parte e che sono culminati nella tragedia di Matteotti…”.
Quel che è accaduto dopo è noto ed è nelle pagine di storia.
10. Infine, come risposta all’ostracismo che gli era stato dato dai tanti nemici della “Scuola Italica” dopo la firma dei Patti Lateranensi nel 1929, scrisse il saggio sul fascio littorio premiato dall’Accademia d’Italia nel 1936.
Ultima testimonianza della sua fedeltà a Roma formulata in questi termini: “Felicissimo di vedere il fascio littorio riannodarsi alla gloria, fascio che noi veneriamo profondamente, con cuore pagano, esente da infezioni esotiche, gli auguriamo sorte favorevole; auguriamo un ritorno sempre più cosciente e profondo alla romanità, in tutto e per tutto, senza submittere fasces a influenze avverse o diverse”.
11. Riassumendo e concludendo: da queste poche pagine l’intento di Reghini appare chiaro, egli mirava a dotare Mussolini e il fascismo di alcuni strumenti sacrali, tradizionali, spirituali, di origine prettamente italiana e di cui il giovane Fascismo aveva assolutamente bisogno.
Naturalmente, il suo era un intento più che ambizioso: occorrevano uomini, mezzi, scuole, laboratori e quanto di meglio un paese può offrire in termini culturali e sociali per la realizzazione di un programma come questo.
Quel sogno, realizzabile o meno che fosse, fu interrotto dalle leggi speciali contro le società segrete del 1925, concepite ufficialmente per mettere fuori legge la Massoneria, mentre nella realtà stroncarono sul nascere il rinascente spiritualismo italiano.
Ciò che fu lasciato sopravvivere e vivacchiare, dopo quel terremoto, in termini di tradizione e di tradizionalismo non doveva dispiacere alla religione di Stato e agli alleati politici del Fascismo. E nell’immediato secondo dopoguerra si è mostrato utile e funzionale al ruolo atlantico di un determinato schieramento politico di destra.
La massoneria, dopo la sconfitta dell’Italia, è ritornata più forte di prima e manda avanti i propri affari con l’appoggio interessato delle “fratellanze” internazionali.
Sul Vaticano non faccio commenti, perché la sua presenza invadente e invasiva nella politica italiana è ben nota e si commenta da sola.
E quindi? Non resta che il progetto di Reghini a cui ricollegarsi per un altro rinascimento italiano. Il fascismo della prima e dell’ultima ora ha lasciato una grande eredità storica e morale. Ma se i fati prima e gli dei poi lo vorranno, è alla tradizione italica e romana che occorre tornare per nutrire un briciolo di speranza e ricominciare da dove il lavoro è stato interrotto.
Note:
[1] La stessa “triade” di cui parla Campanella nella Città del Sole.
Di Arturo Reghini , per completezza di informazione, va aggiunto che era Massone , la Massoneria essendo stata per lui la forma – e l’unica forma – di partecipazione alla tradizione iniziatica, praticata prima, durante ( al riguardo incappò anche in guai giudiziari, da cui lo trasse – poi egli raccontò – la ” bravura degli avvocati “) e dopo il Fascismo ( quando morì nel 1946 era quotizzante ed attivo in una loggia del GOI di Bologna ).