La presente assenza
Piccola storia d’un “graffito” in Siria e alcune conseguenti riflessioni
di Loris B. Emanuel
Ho visto una fotografia, qualche giorno fa, in casa di un amico. L’autore, il suocero del mio compare, ne è gelosissimo, cara “vittima” d’un sacrosanto copyright interiore e quindi, nonostante abbia mandato il più che illustre e accreditato ambasciatore presso la sua corte intima, il permesso di riprodurla mi è stato negato. Vi dovrà bastare la descrizione che tenterò di farvi. L’immagine è semplice, tra le più semplici, e proprio per questo difficilissima da dire. Siamo da qualche parte in Siria. La pellicola immortala un muro d’una moschea, su cui qualche anima grande tracciò niente meno che un “graffito”. Chissà se con le bombolette a spruzzo oppure con secchio e pennello, poco conta. È assai grande, tre volte in altezza quella d’un essere umano e in estensione largo quattro o cinque, forse più. È solo in nero, l’annullamento di tutti i colori, la negazione della manifestazione, la luminosissima oscurità primordiale, e traccia due lettere, naturalmente nella lingua sacra, con un’eleganza e un’essenzialità da privare per un istante il pensiero d’ogni pensiero. Sono una ha e una waw, due consonanti, che si pronunciano iniziando dal fondo della laringe e terminando con l’estremità delle labbra. Sono l’alfa e l’omega del respiro, dell’atman, il soffio della vita e si recitano Huwa. Scritto in maiuscolo, in questo solo caso, perché la parola è tutto, è Lui, ovvero Egli. Huwa è grammaticalmente il pronome di terza persona singolare per indicare un assente, che per il solo fatto d’essere nominato indirettamente e proprio perché solo nominato è il massimamente presente. Applicando però questo essenziale elemento della grammatica al divino siamo al cospetto dell’Invisibile Presenza. Nel sufismo, da Ibn ‘Arabi in giù, sono scritte parole brucianti, inaudite sulla terra attorno a questa singola, corta, brevissima ma infinita parola bisillaba. E questa penna trema alla sola idea di dirne oltre. E così, pensando a molto non comunicabile per pudore, penso pure a una manciata di cosette, ai graffitari di casa nostra, per esempio, che imbrattano, oltre agli orribili vagoni dei treni, anche monumenti, muri vari, beni pubblici in genere, con scritte insulsissime, inutili, passeggere (grazie a Dio) come distratti singhiozzi, e si firmano pure, finiscono sui giornali per varie ragioni, nei musei, nei cataloghi d’arte, nei manuali per studenti, i vari Bansky & C., di cui tra qualche annetto non rimarrà, ancora grazie a Dio, memoria alcuna, perché l’arte di quel (de)genere è transeunte più dell’impermanente, senza un’iniziale intenzione nobile bensì solo sovversiva, autoaffermativa e per soprammercato è d’orribile bruttezza. E penso poi subito a quell’altro graffito, laggiù nella violata Siria, che da noi ricordano, se va bene, per l’utilissimo sapone di Aleppo, Syriana con George Clooney, le odíssee menzogne su Assad e partigiani resistenti e non certo, per dire, perché lì si parla il più bell’arabo del mondo e vi son sepolti sufi e molto altro.
Chi ha avuto il privilegio di vedere quest’immagine dal vivo si farà custode d’una meraviglia: con la guerra di fitna – che in italiano si traduce con «sedizione» e nella lingua sacra dell’arabo ha implicazioni davvero fatali e che il Nemico e una buona dose d’imbecillità hanno suscitato in quell’incantevole Paese – quel gioiello architettonico infatti non esiste più, se non in questa foto che ora ho davanti agli occhi, privilegiato postmoderno che sono. E nessuno conoscerà mai chi ha tracciato quelle due sillabe sacre perché al suo autore non importava esser conosciuto e riconosciuto, perché non c’è autorialità là dove l’esigenza tutta impersonale è quella di dire l’Unico esistente. Colui che ha tracciato l’Huwa pensava soli Deo gloria e non a se stesso, ad affermare il proprio asinesco “io-io-io”, ma solo Egli-Egli-Egli.
Ecco le differenze tra i tanti, troppi graffitari di casa nostra e quelli pochi, rarissimi di certi luoghi, di certe mentalità, di certi cuori. E abbatteranno, guerre e tempo, i muri, cancellando per sempre e questi e quei graffiti, e dei primi idea e forma non resteranno neppure per sbaglio in nessun luogo mentre il concetto tracciato, testimoniato in quell’altro graffito resterà sempre vivo, da sé sussistente. Come diceva Simone Weil: «L’assenza apparente di Dio in questo mondo è la realtà di Dio. Il contatto con le creature ci è dato tramite il senso della presenza. Il contatto con Dio ci è dato tramite quello dell’assenza. In confronto a questa assenza la presenza diviene più assente dell’assenza».