Per la morte di Piero Buscaroli. In memoriam. Un ricordo personale
di Luca Bistolfi
In occasione della stampa di Dalla parte dei vinti comparì sul quotidiano «Linea» (2010) un mio contributo a mezzo tra la recensione e il diario personale. Lo ripropongo qui tal quale, ivi compresa la cronologia “datata” e ablato dalle allora parti di circostanza editoriale e da qualche ora eccessivo “ciuffo”, non già in funzione di “coccodrillo” ex ante bensì, al contrario, di onesta memoria. Perché, ricordava Voltaire, «ai vivi si deve il rispetto, ai morti si deve solo la verità». Ringrazio «Il Discrimine» per l’ospitalità.
[…] Son circa quindici anni che un giorno, aprendo «il Giornale» in un ristorante del cuneese, mi si rivelarono in un sol colpo due geni del Novecento: Piero Buscaroli firmava un’intera paginata su Wilhelm Futrwängler, scrittore di musica, compositore e direttore d’orchestra.
Di Buscaroli avevo già udito il nome in privati cenacoli, sebbene non ricordassi d’aver mai letto i suoi interventi su quella testata. Ricordavo solo una mezza pagina, con foto d’archivio, che trattava della polemica tra lui e un libraio torinese, a proposito di alcuni avvenimenti romani, che poi si trascinarono in una disfida giudiziaria dalla vasta eco. Coraggioso, mi dissi, non meno che intelligente. Lo percepii come qualcuno di evidentemente non solo elevato dalla massa, ma qualche cosa di più. Poi me ne dimenticai, sinché non mi imbattei nella pagina musicale. Da allora ne seguii le tracce sul «Giornale» – come si poteva, ché la sua firma non era già più frequente – e nelle librerie. Non me ne liberai mai più, e mi augurai un giorno di poterlo incontrare, senza grandi speranze. Che però anni dopo si schiusero in maniera improvvisa e inaspettata.
Il principio fu nella primavera del 2004, con l’uscita del Beethoven (Rizzoli), la monumentale e definitiva biografia, di mille e quattrocento pagine, che fa seguito al tempio del Bach (Mondadori 1985) e alla Morte di Mozart (Rizzoli 1996), componendo una serie magistrale. Un libro al decennio, punti fermi, anzi fermissimi, irrinunciabili del revisionismo musicografico, di un’inversione radicale di rotta nella storia di quest’arte negli ultimi lustri. Un trittico esplosivo, per chi abbia il coraggio di voler far saltare menzogne e incrostazioni, a cui fecero seguito nel 2006 Piero Buscaroli svela l’imbroglio del Requiem (Zecchini) e Al servizio dell’Imperatore (Marietti), ambedue sull’Amadé, corollario ad una ricerca decennale.
Venni a sapere, da comuni conoscenze con l’autore, dell’uscita del Beethoven mesi prima che facesse la sua apparizione ufficiale. Ne avevo addirittura visto due pagine di bozze. Alla notizia fece seguito un’attesa carica di ansie e di dense aspettative, le quali si rivelarono al di sotto del risultato finale. Ricordo che addirittura “obbligai” un amico libraio a scapicollarsi dal distributore la mattina stessa dell’uscita. Cavai fuori i soldi, che per le mie tasche erano allora una discreta cifra, 45 euro, ma non fui mai così felice d’una simile spesa per un libro. Che feci mio in qualche mese: giusto in tempo per l’incontro con l’autore.
Vi entrai in contatto grazie allo scrittore Anacleto Verrecchia, anche lui ex collaboratore del «Borghese», col quale allora avevo saldato una gradevole frequentazione.
Il padre del Beethoven mi sorprese ancora. Mi aspettavo un’accoglienza fredda o al massimo cordiale, che potesse esaurirsi nel volgere di qualche minuto di chiacchiere al telefono. E invece mi invitò a trascorrere qualche giorno in campagna da lui, appunto a Monteleone, accogliendomi come un discepolo il maestro.
Avanti di quel novembre, le telefonate, sue e mie, furono cinque o sei. Lunghe, anzi lunghissime, torrenziali. Parlava quasi sempre solo lui, e io a fargli domande. «Bistolfino», mi vezzeggiava, raccontandomi aneddoti, dandomi raccomandazioni, non risparmiandomi rimproveri, facendomi alla sua volta domande. Non so ben dire che cosa mi provocò quell’uomo, col suo rude affetto, con quel darmi confidenza e fiducia. Mi sentivo trasportato verso zone di dignità umana mai fino ad allora provate. Un giorno, dopo una telefonata di quasi due ore, mia madre venne a cercarmi. Mi trovò in piedi alla finestra, telefonata conclusa, in lacrime, tanto ero scosso da quella persona così gigantesca. Per l’ignara e candida donna, inavvertita della persona con la quale suo figlio andava intrattenendo rapporti, Buscaroli era semplicemente «quel signore di Bologna». E invece era uno dei massimi scrittori del Novecento. «Potrebbe essere Beethoven stesso», così come egli stesso lo aveva descritto, pensai quel giorno.
A Monteleone trascorsi tre giorni densissimi, portandomi a casa libri, carte e informazioni, istruzioni, ricordi personali inestinguibili. Mi sentivo un privilegiato, tant’era l’ammirazione incondizionata per l’uomo e lo scrittore, ricambiata da affetto e premure (una notte si alzò per alzare il riscaldamento, «temevo potessi avere freddo»). Lo avevo trovato come lo leggevo, ma innalzato al massimo grado di «grande», con annessi e connessi pregi e difetti, contraddizioni e spinosità.
Ci salutammo con baci e abbracci nel cortile della casa. Me ne andai via direi esaltato, con un bagaglio, materiale e interiore, raddoppiato rispetto all’andata. «Scrivimi, ritorna», si raccomandò prima di congedarmi e poi consegnarmi al suo meccanico per condurmi alla stazione di Cesena.
Accecato dall’ammirazione e dalla giovane età non fui però in grado di soppesare e valutare un possibile futuro, quale che potesse essere. E infatti.
Nelle settimane successive ci furono telefonate e scambi di lettere. Buscaroli era ancora prodigo di consigli, ma aveva mutato i toni. Si esprimeva ora in modo oltremodo affrettato, approssimativo, leggendo la realtà con filtri a me ignoti. Mi pareva d’intravedere, dietro i toni e le pose, un moto di fastidio e delusione, ma non personale, quanto, piuttosto, generalizzato. Qualche umore che atteneva più all’età, che non a reali fatti. Il «presagio funesto», per dirla con Manrico del Trovatore, si rivelò prestissimo in tutta la sua veridicità e assurdità, ancorché cercassi di sperderlo nell’ammirazione che ancora nutrivo per quella figura.
Il 6 gennaio 2005, mi mandò una lettera bomba, che conservo ancora insieme al resto della nostra corrispondenza e a molt’altro materiale, persino raro e prezioso, con dediche al «nuovo adepto», quale egli mi considerava, e scrisse di suo proprio pugno. Tutto datomi, carte e attestazioni, dalla sua volontà.
In quella pagina scarsa dattiloscritta rompe con me, con toni sgarbati perentori e ingiusti, valicando i normali confini dell’educazione e del buon senso. Facevo cenno sopra al temperamento litigioso: ne ebbi anch’io contezza, e come, in tutta la sua violenta assurdità e scompostezza. Capii allora molte cose. Stava edificando il suo procedere su di un humus arrogante e arrabbiato con questo mondo, di chi cerca bersagli e li trova anche se non ci sono, e pure li sbaglia clamorosamente.
A caldo avrei voluto rispondergli come si sarebbe meritato. Una parte di me, ferita, lo chiedeva; ma un’altra, più che vulnerata nell’ego, era scorata, sconfitta direi persino: suprema era la delusione tra le mani. Vedevo con chiarezza la misura sbagliata che avevo preso dell’uomo, imprevedibile.
Negli anni ho più volte riletto quelle parole, e le rileggo ora in un momento particolare della mia esistenza, e torno ogni volta a chiedermi se fosse il caso di tutta quell’acrimonia, di quella – diciamolo pure – isteria, di quella girandola di disgraziati insulti. Senza contare che la sua “saggezza” di allora settantaquattrenne poteva supplire all’inesperienza di quasi cinquant’anni in meno. Sino a poco prima c’erano stati maestro e allievo, e ora il primo girava le spalle al secondo senza motivo, dimostrandosi maestro in molte discipline, sì, ma non in quella di educatore.
Gli risposi mesi dopo, calibrando parole e argomentazioni, dopo decisionismi e ripensamenti, ma non ricevetti risposta. Allora lasciai perdere, e non mossi ulteriore passo, anche se talvolta me ne prende il desiderio. A che possa servire, mi chiedo. A niente, mi rispondo. So di ex sodali di Buscaroli che, dopo anni, sono stati costretti – sì, costretti – a rompere. Miccia e scaturigine è sempre lui. Si trova in «territorio nemico», come abbiamo visto più sopra, ma io aggiungerei anche in terra bruciata, voluta, cercata. E mai verità più grande uscì dalla sua bocca: «Non è il mondo che mi ha allontanato, sono io che l’ho messo da parte», mi disse una mattina all’alba nella cucina di Monteleone. Ma non solo il mondo ostile, politicamente nemico – penso oggi – ma anche quello composto da amici e allievi.
Ma in fondo è così che deve andare, inutile opporsi a un certo destino. Amicizie e apprendistati nascono e muoiono, possono durare a lungo o consumarsi in brevissimo tempo, interrompersi repentinamente, per decisioni di cui molte volte noi stessi non siamo responsabili, se non in minima parte. Ci son fantasmi più grandi di noi, compresi meschinità individuali e caratteri non armonizzabili. La cedevolezza val meglio e più d’ottuse ostinazioni, che rischiano di menare alfine in deprecabili comportamenti. Resti tutto così allora: in piedi il grande scrittore, il punto fermo del Novecento come anche l’ultimo libro dimostra, e le rovine dell’uomo in terra, così come son crollate due anni e mezzo fa. Se altro contatto ci fosse stato, quelle rovine forse si sarebbero sgretolate ancor di più.
Purtroppo tutto passa. Di Buscaroli l’ultimo suo libro lo possiedo autografato. Conosco Buscaroli fin dal Ginnasio quando leggevo i suoi articoli sul ” Borghese” e poi come “Piero Santerno” sul “Giornale”. Condividevo con lui il pessimismo nei confronti del genere umano ( quanto meno nella sua versione attuale ) e la passione per i libri.
E’ ad una sua recensione di molti anni fa che devo la conoscenza di un testo pochissimo conosciuto di Alessandro Manzoni : ” La Rivoluzione Francese del 1789 e la Rivoluzione Italiana del 1859 ” , che è un vero manifesto antirivoluzionario e conservatore che la ” destra” ( sempre che una ” destra” esista ancora ) dovrebbe conoscere e divulgare ( per questo – ed anche per il servizio che pubblicò su “Il Giornale” sulla guerra di Vandea – ritengo che classificare B. semplicemente come ” fascista” sia alquanto riduttivo e non gli renda del tutto giustizia )
Bravo Buscaroli, la sua è una vera perdita.
Il quasi silenzio sotto cui tv e media hanno fatto passare la scomparsa di uno scrittore e giornalista come Buscaroli (autore di gran vaglia e poligrafo, punto di riferimento sul ” Borghese” per i giovani di prima, come ero io, che bigiavo la scuola il giorno in cui c’era il “tema” sulla “Resistenza”, per non ritrovarmi poi contro, per quello che avrei scritto, la prof. di lettere), contrasta col gran rumore che gli stessi “media” stanno facendo per la scomparsa di Umberto Eco, la cui produzione letteraria (almeno quella più conosciuta dal grande pubblico e che, personalmente, ho sempre trovato noiosissima) pare avere avuto un unico scopo, quello di banalizzare l’esoterismo, presentarlo come una scatola vuota, un qualcosa verso cui una persona con i piedi ben piantati per terra non potrebbe che diffidare, svelandone caso mai il doppio fondo immancabilmente politico-sociale, di gruppi e ceti dominanti e di gruppi e ceti dominati, e l'”esoterismo” un mezzo di dominazione (ed è appunto lui ad aprirlo e mostrare a tutti com’è fatto e a che cosa davvero serva il giocattolo).
E’ noto al riguardo un suo trafiletto, non ricordo dove pubblicato, mi pare che l’intitolazione fosse la “Bustina di Minerva”, una trovata volgare per ridicolizzare di fronte al gran pubblico (è sempre lì che si torna) l’esoterismo nonché la figura e l’opera di René Guénon.
Ieri, a Lucca, ho visto una libreria del centro ricordare con un cartello esposto in vetrina l’incitamento di Eco a dedicarsi alla lettura, perché uno che legge – diceva – quando giunge ai settant’anni è come se ne avesse vissuti cinquemila, realizzando così l'”immortalità all’indietro”, il che è manifestamente la negazione di qualsivoglia insegnamento vuoi exoterico che esoterico, in cui l'”immortalità “, comunque la si intenda, è in avanti, non indietro, consistendo nella attualizzazione di possibilità che l’essere individuale porta in sé.
La misconoscenza di un Buscaroli, l’enfatizzazione di un Eco, non mi sembrano in effetti un segno di gran tempi.