Il Fascismo italiano come esempio tipico di rivoluzione sistemica
di James A. Gregor
Il primo esempio di tale rivoluzione globale si manifestò nella penisola italiana più di mezzo secolo fa. Non siamo riusciti a comprendere l’importanza degli avvenimenti di quel periodo soprattutto perché il Fascismo è stato sostanzialmente travisato come fatto storico, socioeconomico e politico complesso. Il Fascismo italiano è forse il meno compreso dei fenomeni storici del ventesimo secolo. Esiste ben poco nel campo degli studi seri che possa definirsi una interpretazione attendibile del suo avvento, delle sue intenzioni, della sua funzione storica. Soltanto recentemente è stato compiuto qualche tentativo di obiettivo e competente esame della sua politica economica e delle sue conseguenze sociali. Soltanto recentemente, ad esempio, Otto-Ernst Schueddekopf si è azzardato a definire il Fascismo un’Entwicklungsdiktatur, una dittatura di sviluppo. Soltanto nell’immediato passato Rosario Romeo ha proposto di porre tutta la vicenda in relazione sistematica con le circostanze che accompagnano lo sviluppo di una società industriale.
Il fatto che il rapporto tra ammodernamento e Fascismo sia stato raramente percepito è una stranezza difficile a capirsi. Fin dall’inizio, il Fascismo italiano si proclamò movimento politico che si batteva per la rapida industrializzazione della penisola. Prima della fondazione del movimento che divenne infine il Fascismo storico, il giovane Mussolini individuò nell’aumento della produzione e nell’espansione della industrializzazione i problemi critici che l’Italia avrebbe dovuto affrontare durante la prima metà del ventesimo secolo. Quando il movimento si organizzò, le correnti politiche che aveva incorporato, il nazionalsindacalismo, il futurismo ed il nazionalismo, resero ancor più rilevante l’impegno verso la rapida industrializzazione. Prima della sua prematura morte nel corso della Grande Guerra, Filippo Corridoni, ad esempio, nella sua qualità di portavoce del sindacalismo nazionale, auspicava una «frequenza accelerata di crescita industriale» per la penisola italiana. Egli parlava non soltanto di effettiva integrazione della nazione italiana, come preambolo programmatico, ma anche di incentivi alle iniziative innovatrici che favorissero le capacità industriali e commerciali della nazione stessa.
I futuristi di F.T. Marinetti, che avrebbero fornito molti gerarchi al movimento fascista, erano stati a lungo fautori dell’ammodernamento dell’Italia. Essi parlavano di elettrificazione e di miglioramento tecnico, di grandi imprese industriali e di «città geometriche». Parlavano di una «religione della velocità e della macchina», in sostanza, cioè, di una massiccia ed estesa industrializzazione.
Ugualmente i nazionalisti, che avrebbero costituito i quadri fondamentali del Fascismo, sostenevano che ciò che serviva all’Italia, per fronteggiare la sfida del ventesimo secolo, era un programma di ampio ammodernamento ed industrializzazione. Già nel 1914, Alfredo Rocco sosteneva che l’Italia era una nazione sottosviluppata, il cui problema fondamentale non era quello della distribuzione del benessere, tema fondamentale del socialismo ortodosso di quel periodo, ma piuttosto quello della produzione. Rocco auspicava un veloce incremento della industrializzazione come scopo fondamentale che doveva porsi l’Italia nel primo quarto del ventesimo secolo.
Proprio queste convinzioni, unite a quelle di intellettuali indipendenti come Giuseppe Prezzolini e Giovanni Papini, diedero al Fascismo la sostanza intellettuale di movimento che si proponeva la rapida industrializzazione ed il rapido ammodernamento. Quando il Fascismo arrivò al potere, era ormai universalmente riconosciuto che era ispirato da un’«apoteosi dello sviluppo industriale del Paese…».
Tutti i comportamenti successivi del regime rivoluzionario, lo sviluppo di un sistema statale autoritario che sistematicamente si arrogava sempre maggiori responsabilità per lo sviluppo dell’economia, che sistematicamente controllava i livelli di consumo, che favoriva l’accumulo e l’investimento dei capitali, che favoriva l’introduzione di sistemi razionali di produzione e che, in ultima analisi, nel 1937-’38 portò l’Italia a livello di comunità industriale, fanno risaltare le intenzioni ammodernatrici e industrializzatrici della rivoluzione.
Nel corso di questo processo, il regime indirizzò il lavoro, il capitale e le scarse risorse materiali al servizio del proprio scopo secolare. Persino i marxisti attuali hanno riconosciuto al regime questo carattere. Recentemente, Karin Priester ha posto l’accento sul carattere «produttivistico» della strategia sociale e politica del Fascismo. Un altro teorico marxista è arrivato al punto di pensare che il Fascismo abbia rappresentato 1’«unica soluzione progressista» al problema del ritardo industriale italiano.
Alcuni marxisti non ortodossi, occorre ammetterlo, avevano sostenuto una tesi simile più di trent’anni orsono. Nel 1933, Franz Borkenau richiamava l’attenzione sul fatto che il Fascismo aveva avuto la sua massima influenza nelle nazioni caratterizzate da uno sviluppo industriale ritardato. Borkenau sosteneva che il Fascismo creava le condizioni per un ampio sviluppo industriale: «Il Fascismo ha adempiuto ai compiti assegnatigli dalla storia. La produzione industriale si è moltiplicata. Si è dato mano all’elettrificazione e così, la mancanza di carburante fossile è stata in parte superata. L’Italia ha dato vita ad almeno due industrie che vengono annoverate tra le maggiori del mondo: l’industria dell’automobile e quella dei tessili artificiali. Le tendenze preindustriali della popolazione sono state vinte. Il sistema bancario è stato accentrato e l’isolamento delle banche meridionali è scomparso. L’agricoltura è stata ampiamente ammodernata, mentre la provincialità feudale del meridione è stata intaccata dal sistema stradale vastissimo e dalla riabilitazione della terra. Il Fascismo ha garantito il necessario tasso di incremento continuo dell’accumulo di capitale… Un governo accentrato ha imposto il suo pugno di ferro su un Paese che fino ad allora era stato caratterizzato dal settarismo regionale… ».
Il boom economico italiano del secondo dopoguerra fu costruito sulla base delle fondamenta industriali che erano il prodotto del periodo fascista. Gli studiosi sia marxisti sia non marxisti concordano in questo giudizio. Il Fascismo, infatti, ha fatto marciare l’Italia dai primi stadi dello sviluppo economico fino alla piena maturità industriale. Il regime ha mobilitato le risorse, ha salvato le industrie essenziali, anche se non concorrenziali, ha governato i consumi per attuare l’accumulo del capitale ed ha organizzato un sistema creditizio e finanziario adatto alle esigenze di una crescita economica che avveniva nella più difficile delle situazioni (l’alta densità di popolazione della penisola, la scarsità di risorse, l’antiquato sistema agricolo e la frammentarietà della rete di comunicazioni).
Così, mentre i bolscevichi si consideravano impegnati in un «socialismo» fondato sulla preoccupazione per la «distribuzione imparziale» e sul controllo comunitario e «democratico» degli strumenti di produzione, i fascisti articolarono un’ideologia chiaramente adatta al rapido sviluppo di un sistema economico ritardato. Mentre i bolscevichi parlavano di «internazionalismo» e di lotta di classe interna, i fascisti considerarono il Fascismo un nazionalismo integrale di rigenerazione e rinnovamento, disposto a guidare tutti i ceti e tutti gli elementi della popolazione verso uno sviluppo vasto ed intenso della base produttiva della vita della comunità. Mentre i bolscevichi si dedicarono, almeno inizialmente, a progetti che superavano le loro intenzioni, i fascisti si dedicarono coscientemente all’ammodernamento della penisola italiana. Mentre il «marxismo» di Stalin aiuta ben poco a comprendere il comportamento del governo sovietico, l’ideologia produttivistica del Fascismo era la palese dichiarazione delle intenzioni rivoluzionarie.
Alla fine, naturalmente, anche il Bolscevismo fu costretto a soccombere alle pressioni delle esigenze del ventesimo secolo. Non si parlò più di «scomparsa dello Stato» e Stalin approvò la costruzione della più formidabile ed elaborata struttura statale della storia. I bolscevichi furono costretti a comprendere la «borghesia tecnica» nella categoria del «popolo». Da «dittatura del proletariato», il potere sovietico si trasformò in «dittatura sul proletariato». Il sindacato perse la propria autonomia e la capacita di autodifesa e divenne un ente addomesticato del governo centrale. I consumi furono drasticamente limitati, al servizio del «primo accumulo socialista». In sostanza, il «socialismo» si trasformò da rivoluzione intesa a «liberare l’umanità dagli ostacoli del capitalismo» in un sistema dirigistico per la rapida industrializzazione della Russia. Comparve il capo «carismatico»; il flusso delle informazioni venne rigidamente controllato; la possibilità di spostamento venne ridotta e le risorse furono distribuite secondo le limitazioni imposte da un ente centrale autoritario e gerarchico. A parere di Peter Drucker, che scrisse ciò più di trent’anni orsono, la Russia sovietica, fu costretta, dalla situazione stessa in cui si trovava, «ad adottare un principio fascista e puramente totalitario dopo l’altro…».
La trasformazione del regime sovietico, dovuta alle esigenze dell’industrializzazione, in un regime simile a quello fascista, fu riconosciuta anche da alcuni teorici fascisti. Pur riconoscendo le differenze che distinguevano i due sistemi, i fascisti riconoscevano con egual chiarezza le rassomiglianze. Nel 1934, ad esempio, Mirko Ardemagni sosteneva che «nel corso della rivoluzione russa si denotano di giorno in giorno dei sintomi premonitori di una radicale rinuncia a postulati marxisti e di una graduale, sebbene non confessata, accettazione di alcuni principi politici fondamentali che caratterizzano il Fascismo». Nel 1937, Agostino Nasti scriveva che «il comunismo ormai assolve la funzione di una ‘formula politica’ che galvanizza il popolo russo e lo spinge sulla strada di un potenziamento industriale-economico a fini nazionalisti… ».
Ben pochi fascisti ben informati non si accorsero di quanto stava avvenendo. La Russia sovietica si era spogliata di un sistema fideistico mal adatto alle esigenze di uno sviluppo industriale ritardato. Il sistema che inconsciamente stava edificando rappresentava l’analogo funzionale di quel sistema statale che veniva coscientemente concepito ed edificato nella penisola italiana. Negli anni successivi, un socialista disilluso scriveva con rimpianto: «quello che il fascismo cercava coscientemente, noi — socialisti — lo si costruiva senza volerlo».
La realtà dei nostri tempi è che le condizioni che si accompagnano al tardivo sviluppo industriale tendono a favorire l’edificazione di uno Stato autoritario, egemonico, animato da un’ideologia di mobilitazione delle masse e caratterizzato da una disciplina militare e da un’etica di lavoro e di sacrificio. Il capo «carismatico» garantisce alla popolazione, sottoposta ad uno sforzo intenso e imposto dall’alto, il necessario senso di sicurezza. Il partito unico, totalitario, tiene unito il capillare sistema di controllo.
In sostanza, la Rivoluzione fascista, anche se meno drammatica e meno distruttrice, ebbe un’importanza critica maggiore della Rivoluzione russa, cinese o cubana se si vuol tentare di comprendere ciò che avviene in termini di rivoluzione sistemica del ventesimo secolo. Il fatto è che l’Unione Sovietica ha gradualmente costruito un sistema statale che si avvicina a quello costruito coscientemente dall’Italia fascista, e proprio questo sistema, dopo la Seconda guerra mondiale, venne esteso all’esterno ed adottato da alcune delle più importanti economie in fase di sviluppo del mondo non europeo. Imposto dalle armi sovietiche nell’Europa orientale, lo stesso sistema si affermò autonomamente in Asia e in alcune parti dell’Africa. In svariate combinazioni, il capo «carismatico», il partito unico autoritario, le strategie di mobilitazione di massa, l’economia del consumo controllato, della rapida industrializzazione e del controllo delle risorse, le invocazioni nazionalistiche sono spontaneamente venute in superficie in tutti i Paesi in fase di sviluppo dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina.
Questi sviluppi non furono non previsti dai teorici fascisti prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale. Essi parlavano regolarmente di una nuova era di collettivismo autoritario e gerarchico, di nazionalismo, di guida carismatica e di statalismo. Mentre i marxisti di tutte le convinzioni, varietà e fazioni continuavano a parlare dell’«abolizione dello Stato», di «democrazia» e di «internazionalismo», i fascisti anticipavano chiaramente le grandi linee del sistema statale che ormai domina in ampie zone del mondo. I marxisti, naturalmente, parlano ancora talvolta col linguaggio di un marxismo da lungo tempo screditato dagli avvenimenti Ma gli studiosi non marxisti hanno, tardivamente, cominciato a capire che cosa sia avvenuto.
I movimenti rivoluzionari moderni nelle società sottosviluppate ed in fase di transizione, col loro attivismo, il loro volontarismo, i loro sistemi di governo della popolazione, il loro irriducibile nazionalismo, l’elitismo gerarchico e le aspirazioni ammodernatrici non hanno letteralmente nulla a che fare col marxismo, nel quale molti hanno riposto la speranza della «rivoluzione liberatrice». Stuart Schram ci ha ricordato che «quando si considerino le svariate teorie che si autodefiniscono marxismo e le realtà del mondo di oggi, sembrerebbe che l’unica possibilità di scelta sia tra un marxismo scolastico che non ha nulla a che fare con la rivoluzione ed una rivoluzione che non ha nulla in comune col marxismo».
Molto più convincente del tentativo di costringere gli avvenimenti politici contemporanei nel letto di Procuste della «rivoluzione marxista», è la proposta recentemente avanzata da Ludovico Garruccio, secondo cui «…tentando di costruire un modello politico autoctono, i leaders carismatici dei Paesi in via di sviluppo ricalcano un modello occidentale, quello fascista… Rispetto ai tanti falsi esempi che l’Occidente può offrire ai Paesi in via d’industrializzazione fa eccezione forse il caso dell’Italia. Posta fra il mondo europeo ed il mondo mediterraneo, ultima delle grandi potenze e prima delle medie, all’epoca delle superpotenze l’ultimo dei grandi Paesi industrializzati ma nel contempo con vaste nebulose di arretratezza, l’Italia offre nel suo sviluppo un paradigma interpretativo assai utile».
Come già detto, le situazioni storiche, le tradizioni, i problemi demografici, la vitalità delle aristocrazie pre-rivoluzionarie e delle strutture di comando, i rapporti internazionali, la disponibilità di risorse umane e materiali, tutto ciò, naturalmente, influenza il corso rivoluzionario e la successiva edificazione della nuova forma di Stato. Ma le rassomiglianze tra i più importanti movimenti rivoluzionari del ventesimo secolo sono tante che diventa sempre più difficile non riconoscervi i tratti caratteristici di una rivoluzione sistemica. Nel secolo ventesimo, lo Stato autoritario, gerarchico ed integralista diviene il veicolo della rigenerazione nazionale e dello sviluppo. I soliti accessori di tale sistema di Stato compaiono regolarmente: il partito unico, l’ideologia formale, l’orchestrazione e la guida della popolazione, il capo personalista e carismatico. Se sono distinguibili tutti questi tratti della rivoluzione sistematica, ciò che non è frequentemente ammesso è il fatto che una tale rivoluzione di sistemi ha il suo epicentro non a Mosca, ma a Roma.
(Estratto da A. James Gregor, Lo Stato totalitario, in «Linee per uno Stato moderno», Volpe, 1975, pp. 89-98. Le note al testo sono state omesse).
Se il fascismo, se non nei fatti, nelle intenzioni, ebbe, a mio avviso, un merito , fu quello, di unificare gli italiani ( quegli italiani che , secondo il d’Azeglio, “fatta” l’Italia, erano ancora da ” fare”) al di là di tutte le contrapposizioni ( di ceto sociale, geografiche, regionali, ideologiche, culturali ) che li dividevano, costringendoli appunto in ” fascio” , sia per amore ( a ciò furono funzionali i miti della ” vittoria mutilata”, dell’impero romano e della sua possibile rinascita, e una storiografia – ho in mente un libro come ” La storia degli italiani e dell’Italia” del Volpe, Treves Editori – pensata avendo come finalità più che una oggettività rappresentativa, il perseguimento di questa unità ); sia per forza ( donde l’imposizione di una disciplina a tutto un popolo , in primis alle sue classi dirigenti che dovevano dare l’esempio, una sua certa qual militarizzazione con il culto della divisa, delle grandi adunate, col ” libro e il moschetto” , ed anche con le leggi ” fascistissime” che misero fuori legge i partiti politici , con i loro interessi di fazione e le loro ideologie, che si ponevano naturalmente contro la ricercata unità, fomentando – specie i partiti banditori dell'”odio di classe ” e della rivoluzione- contrasti e divisione ).
Ancorché gli italiani avessero nella stragrande maggioranza risposto positivamente all’appello unitario del fascismo ( ricordo un Benedetto Croce che, pur avversario del Regime, al tempo dell’oro alla Patria, donò la sua medaglietta d’oro di senatore del Regno ) , la sconfitta militare rovinò poi tutto , segnando fra gli italiani divisioni non più rimarginate, che durano tutt’oggi , per cui trovo persino problematico potere ancora parlare oggigiorno di unità italiana , se si astrae dalla pur esistente entità statale che è altra cosa rispetto a tale unità ( e pure essa alquanto frammentaria).