L’Italia in coma nelle memorie e nei giudizi di un testimone d’eccellenza, Piero Buscaroli

di Loris B. Emanuel

Una recensione, o qualcosa di più, su di un libro di qualche anno fa, anche se non molti, che però non ha avuto la ventura d’esser mai pubblicata, non per volontà dell’autore bensì in omaggio al buon senso, ovvero senso comune, che alligna un po’ ovunque. Ma habent sua fata libelli: il presente contributo doveva trovare qui la collocazione naturale.

buscaroliBuscaroli ad alzo zero. Ce n’è (di piombo) per quasi tutti, e non ce n’è (di pietà e di ammirazione) per quasi nessuno, ché, «dal 1793» or son «due secoli», come recitano i frammenti del sottotitolo, hanno ridotto l’Italia a esser Una nazione in coma, come dichiara invece il titolo di questa cavalcata su carrarmato, l’ultima impresa del poligrafo bolognese (e non italiano, ché egli nell’ex patria non si riconosce più, e da tempo). È l’editore Minerva questa volta a farsi carico d’ospitare tra i suoi autori il nome del famigerato fascista Buscaroli, il revisionista totale, dall’arte alla musica, dalla storia d’Europa a quella mondiale. Questo libro, come il precedente Dalla parte dei vinti (Mondadori 2010), è un’antologia, integrata e allargata, di saggi, articoli e contributi i più caleidoscopici che il solitario prosatore – non mi va di chiamarlo giornalista: non sono uso alle offese – ha composto lungo l’arco d’oltre un cinquantennio, dedicandosi con tutto se stesso alla causa principe degli sconfitti, dei vinti irrimediabilmente di quella seconda guerra mondiale, prima e, di poi, del dopoguerra e delle memoria collettiva.

Le oltre cinquecento pagine, con apparato fotografico fuori testo, si schiudono con men di dieci per fissare subito i termini dell’impresa e dell’intendimento. Dopo un incontro deludente e nauseabondo con tal Gaetano Pieracci nel 1946, sindaco di Firenze e parente di Buscaroli per parte di madre, il Piero allora sedicenne ebbe questo colloquio col nobile Giorgio Falorsi, altro zio materno ma d’altra pasta, il quale gli disse: «“È stato il tuoincontro con la democrazia… Coraggio, Pierino, ti ci vorrà d’averne, ma tieni duro”. Glielo promisi, tenni duro… Tenni duro mezzo secolo, fino a questa vecchiaia».

buscaroli2E per mettere sin dapprincipio in chiaro qual è il metodo, Buscaroli dedica un lungo saggio a «Charette, l’eroe proibito», un illustre negletto dalla storiografia ufficiale perché chiave di lettura e comprensione sott’altri rispetto e luce di quell’infame Révolution che squassò la Francia e in seguito l’Europa tutta, le cui nefaste conseguenze ancor oggi scontiamo e viviamo, ma altresì d’eventi e sorti d’Italia. L’abisso in cui giace oggi l’ex patria è la conseguenza di quella ideologia furente e satanica. Nascondendone gli efferati e inutili crimini – i fatti di Vandea, sfondo della vicenda di Charette, sono il culmine dell’effusione di sangue – ed esaltandone i principi ideologici, tutto il derivato è salvo, sui campi di battaglia, nelle cancellerie e nei testi di storia, scolastici e non, quelli che ci appestano da plurimi decenni ormai. E all’interno del saggio troviamo una rivelazione che rovescia, ossia rimette in piedi e al loro posto, tutte le storiografie pseudo-revisioniste novecentesche, quelle che vogliono sullo stesso piano fascismi, reali o falsi, e comunismi nell’esercizio della morte, salvando invece la liberaldemocrazia, terzo scaltrissimo gaudente tra i due scemi litiganti. Nel Dusystème de Dépopulation, ou la vie et les crimes de Carrier, Gracchus Babeuf smentisce «dal principio l’immagine redentrice della Révolution», narrandone le efferatezze, un testo che «gli storici liberali e radicali, massoni e comunisti, avevano intenzionalmente lasciato nell’ombra». Poi Buscaroli seguita: «Ne denunciava il meccanismo intimo, di cui il Terrore era il solo esito possibile, coi caratteri che si mantennero nel passaggio dal giacobinismo liberale e democratico ai furori anarchici e bolscevichi». Attenzione, adesso. Buscaroli trova che il comunismo variamente declinato abbia mantenuto i caratteri della Révolution, quanto a ideologia macellaia. Parleremmo però più volentieri d’ispirazione e di responsabilità prima, ecco il punto revisionista centrale. Se tanto dobbiamo indulgere alle classifiche quantitative e cronologiche, vale che si dicano parole chiare: i primi ad allestire macellerie di massa per motivi ideologici, giustificando (ma poi neppur troppo) il furore assassino con la persuasione di bontà, furono i liberaldemoratici, i comunisti “solo” espandendo, con il sostegno della téchne, spettro e profondità d’azione. Nella Révolution troviamo tutte le parole chiave e tutti i metodi che saranno del comunismo, non meno che delle stesse liberaldemocrazie (Dresda docet e tutto lo squartamento a seguire negli anni a noi recentissimi, Libia, Iraq, Palestina, Siria, etcoetera, da decenni).

vandea_babeuf«I robesperriani che a Parigi inventavano il “popolicidio”, e Carrier, che l’applicava a Nantes, si erano persuasi che, “a conti fatti, la popolazione francese eccedeva le risorse del suolo” e siccome s’era deciso di ridurre il numero, conveniva cominciare con questi cristiani recidivi e realisti incorreggibili». Sostituite il contesto e innestate il concetto in Urss negli anni Trenta o in Cambogia nei Sessanta e i macabri conti torneranno. «L’avo patriarcale dei nostri comunisti poteva ben farci la figura del santone, perché i manovratori del terrore erano i “patrioti” liberali. Ma i clienti di quegl’istituti di rieducazione democratica che poi si chiamarono ufficialmente Glavnoe Upravlenie Legereje familiarmente Gulag, non faticarono a riconoscere il profumo delle origini quando il glorioso bicentenario si mise in moto. Lo disse Aleksandr Solgenitsin, chiamato a inaugurare il Mémorial de Vandée». Questo, e tutto il resto che qui non possiamo condensare, fanno del saggio su Charette pagine da leggersi e rileggersi e da divulgare, come da riprodurre e diffondere sono «La storia che scotta» e «Misera giovinezza di un misero Stato». La prima è una «Lettera a Francesca», una delle figlie di Buscaroli (l’altra femmina è Beatrice, la nota studiosa d’arte), quand’era una piccola scolara. È una lettera aperta in cui Buscaroli, schifato per l’«orgia di menzogne» contenuta nel sussidiario della figliola (ve ne è una discreta stomachevole antologia), risistema a dovere i contenuti laceri di una storiografia gaglioffa e collaborazionista. Un capolavoro di lettera, frammento di rettitudine e amore per un’Italia già rovinata e per una figlia che voleva proteggere dal tanfo. Il secondo documento data agli anni Settanta, ma sarebbe valido anche oggi: i giovani “italiani” dell’Italia democratica e liberata sono estratti dalle notizie di cronaca, nudi e crudi, a tratteggiare la gioventù nuova a fronte di quella vituperata del vituperato Ventennio. «Per recensire l’ultimo film uscito dai ricordi truccati e dalle digestioni pesanti di Fellini, Natalia Ginzburg ha scritto che la sua generazione, “di quelli che sono cresciuti nel fascismo, è una generazione di malinconici… il fascismo era sordido, miserabile, atroce… Tutta l’Italia era allora simile a una provincia”. Stiamo a vedere che cosa verrà fuori da questa Italia, nuova, cosmopolita, sprovincializzata, dal tono festoso e fiducioso delle generazioni nuove. Noi abbiamo l’amaro diritto di opporre a questi ricordi ritoccati e intrisi nel veleno dell’odio, la cui falsità può essere riscontrata da qualunque italiano sopra i cinquant’anni, l’eloquente panorama della nostra gioventù d’oggi, figlia di questo regime. Questa gioventù, allevata nella discriminazione faziosa, nel dileggio sui sacrifici e le speranze delle generazioni precedenti; questa gioventù, cui si sono iniettati ogni giorno il culto della mediocrità e della bassezza, l’apologia dell’opportunismo e del tradimento, l’esaltazione del menefreghismo e del carrierismo, l’adorazione forsennata del proprio vantaggio, del denaro e del sesso come soli e supremi valori della vita, è la più disperata e la più spenta che la storia d’Italia ricordi. Quando mai, se non per eccezioni patologiche, bambine e ragazze sotto i vent’anni cedettero alla prepotente vocazione di farsi prostitute in massa? E quando mai si videro legioni di lenoni ventenni? Minoranze, direte. Ma aggiungete le minoranze corrotte dei convitti, traviate dei riformatori, i giovani delinquenti, a spasso, i drogati, i violenti politici, e avrete un quadro spaventoso. Abbiamo il diritto di chiedere: che cosa avete fatto, o scellerati, che cosa fate dei nostri figli?». E giù con un’antologia da brivido, da cui togliamo: «A Montepulciano, basta che ci si imbatta, durante una lettura in classe, nella parola “circoncisione” perché l’insegnante (ripugna davvero usare questa parola) si precipiti alla lavagna a disegnare organi sessuali davanti a una scolaresca di tredicenni allibiti. I libri che questo sporcaccione di Stato consigliava agli scolari avevano titoli come La lotta sessuale dei giovani, Il diritto di aborto, La parte delle bambine, ecc. Un caso isolato? Non tanto. Prodotto del regime, costui preparava a sua volta le nuove leve per il futuro. All’Università Cattolica di Milano, le ragazze allestiscono una mostra sull’aborto e gli antifecondativi. Un manifesto impreca contro il peso della maternità, mostrando una donna incinta, con al piede la palla di ferro dei galeotti. Una studentessa annuncia che “le ragazze della Cattolica abortiscono molto di più di quelle della Statale”, aggiungendo che “questo è il sintomo della disperazione totale”».

Vi è poi una sezione dedicata a «Maestri, amici», una galleria di ritratti unici: Ardengo Soffici e Leo Longanesi (in cui si chiarisce in via definitiva la leggenda del celebre schiaffo a Toscanini), Vincenzo Cardarelli, il giurista Giovanni de Vergottini e lo scultore Francesco Messina, il latinista Ettore Paratore e Jacques Benoist-Méchin. Superba è poi la sezione dedicata alla «Dalmazia uccisa e perduta». E poi tanto altro, un affresco in chiaroscuro di questi lunghi decenni, l’epicedio per un’Italia amata e ora vissuta solo nei ricordi, nei libri, nei capolavori dell’arte, della letteratura, della musica. C’è persino una presa di posizione, netta e coraggiosa, sulla «macellazione statale dei corpi umani», ovverossia l’espianto-trapianto d’organi. In pubblico gli unici due a prendere posizione contro quest’infame orrore in Italia sono stati, inascoltati, Buscaroli e Ida Magli, e lo scrivente.

BenedettoCroce2Per chi invece volesse sapere di più su fascismo e dopoguerra, due sono i saggi da ben studiarsi: «Fascismo misterioso e incompiuto. A cinquant’anni dal 28 Ottobre 1922» è una summa teorica essenziale dell’invenzione di Benito Mussolini, che i maggiormente avveduti non stenteranno a riconoscere tra le più pertinenti e chiare uscite dalla penna di un osservatore di quel periodo. I liberali e gli antifascisti d’ogni risma invece meditino a fondo «Chi ha ucciso l’Italia», ove Buscaroli riporta ampi stralci, e li commenta, del discorso che Benedetto Croce tenne, il 24 luglio 1947 all’Assemblea Costituente, sulla ratifica del Trattato di pace, che umiliava il nostro Paese. Poche volte, in quell’aula sorda e grigia, si eran udite simili parole, che non si udranno mai più, e per giunta pronunziate da un nemico del fascismo, ma non dell’Italia, come invece erano, e sono, tutti gli altri nati dalla “resistenza”.

E proprio per ciò ci domandiamo il perché Buscaroli abbia scelto quel titolo di «nazione».Una nazione è un’entità politico-geografica autonoma e sovrana, una realtà esistente in sé e per sé, con capacità decisionali, in ogni dominio di azione e pensiero, non sottomessa a giogo straniero. Croce stesso lo rilevò, e lo vediamo noi da settant’anni che l’Italia non è piùquesto, e nemmeno un risveglio dal coma la rivedrebbe nazione. Meglio s’attaglian a descriver questa propaggine dell’Unione europea i versi di Dante: «Ahi serva Italia, di dolore ostello,/nave sanza nocchiere in gran tempesta,/non donna di provincie ma bordello». E Buscaroli e pochi altri fuori, distanti, altro. Ben fuori, ben distanti, ben altro.

Piero Buscaroli, Una nazione in coma. Dal 1793, due secoli, Minerva Edizioni, Bologna 2013

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