Il Fascismo e l’acqua sporca

di Giovanni Di Martino

Giuseppe Bottai - 1954

Giuseppe Bottai – 1954

Nel 1959 l’opinione pubblica italiana si indigna (ma fino ad un certo punto) per un fatto riportato distrattamente dagli articoli di cronaca: al funerale dell’ex gerarca fascista Giuseppe Bottai sono presenti numerose personalità politiche in carica, capitanate dal ministro della pubblica istruzione Aldo Moro.

È vero che Bottai è stato uno dei cospiratori dell’affossamento di Mussolini al golpe del 25 luglio (addirittura estensore del famoso ordine del giorno). È vero che Bottai è stato assolto da ogni “crimine” connesso col fascismo per avere espiato combattendo per quattro anni nella Legione Straniera Francese. Ed è vero anche che Moro è lì presente perché figlio di un vecchio funzionario del ministero retto da Bottai (così come anni più tardi Aldo Fabrizi sarà presente al funerale di Almirante perché amico di famiglia dei suoi zii attori). Però Bottai è stato un gerarca di primissimo piano, sindaco di Roma e di Addis Abeba, ministro dell’Educazione nazionale per quasi dieci anni, primo firmatario della Carta del lavoro e della Carta della scuola, nonché dei Manifesti razzisti del 1938 (malgrado le remote origini ebraiche). Eppure a molti esponenti della Prima Repubblica, quella nata dall’antifascismo e dalla Resistenza, sembra doveroso e normale rendere l’estremo saluto al massimo esponente della cultura del Ventennio.

Questo episodio, presto dimenticato e quasi seppellito, potrebbe essere lo spunto per una valutazione della effettiva differenza tra i due principali cambi di regime italiani del Novecento, quello del 1945 tra il Fascismo e la Prima Repubblica, e quello del 1992-93 tra la Prima Repubblica e la Seconda. Apparentemente burrascoso il primo, arrivato dopo cinque anni di guerra e due di guerra civile, ed apparentemente più lieve il secondo, arrivato dopo una serie di procedimenti giudiziari contro i principali esponenti di quasi tutti i partiti politici.

In realtà i due cambi di regime sono l’opposto di quanto sembra e di quanto viene raccontato. Il passaggio dal Fascismo alla Prima Repubblica antifascista non è stato per nulla traumatico, perché, vinta la guerra al Fascismo, gli esponenti della Resistenza (De Gasperi, Togliatti, Parri, Nenni eccetera), prendono una decisione molto intelligente: non buttare via tutto quanto di buono per l’Italia il Fascismo ha fatto (e – si badi – avrebbero potuto, dal momento che nell’Italia impazzita del 1945 i vincitori avrebbero potuto far casa_italianipassare ogni cosa). Vengono ripristinate le elezioni ogni anno, vengono abolite le usanze di costume fascista (quasi tutte), ma non vengono toccate istituzioni nate sotto l’ala del regime che possono risultare utili alla ricostruzione ed al miglioramento del paese che la classe dirigente antifascista si appresta a guidare, quali l’IRI, l’Agip, l’IN(F)AIL, l’INPS eccetera. Non viene toccata la scuola gentiliana, e il sistema sanitario pubblico fascista viene esteso gradualmente anche alle zone non metropolitane. La base per la ricostruzione, il boom economico ed il decollo industriale dell’Italia (che alla vigilia degli anni Ottanta è il terzo paese industrializzato d’Europa e il sesto nel mondo) sta proprio nell’avere mantenuto e potenziato quelle strutture fasciste che alla fine della guerra avrebbero potuto essere bollate come inutili carrozzoni clientelari ed essere chiuse.

Analogo discorso viene fatto per le epurazioni, che toccano una fascia ristrettissima della popolazione (in concreto i più collusi, oltre ai gerarchi ovviamente), perché si pensa che se un funzionario amministrativo svolgesse bene il suo mestiere in camicia nera, potrebbe fare altrettanto in camicia bianca. E viene mantenuto anche il criterio della competenza nell’assegnazione dei ministeri: insegnanti alla Pubblica istruzione, giuristi ed avvocati alla Giustizia, ingegneri alle Infrastrutture, altro che governi tecnici…

La mancata epurazione viene irrisa da Leo Longanesi che ammonisce i suoi lettori a non lasciarsi scappare con nessuno la domanda: “Ma noi dove ci siamo già visti?“. Il tutto però è indice del fatto che gli italiani, subito dopo la guerra, non hanno sbagliato a fare i conti con il proprio passato. La Resistenza è stata combattuta da 120.000 uomini (cifra gonfiata nel 1947 a 250.000), dei quali nemmeno la metà è stata antifascista durante tutto il Ventennio. Troppo pochi per coprire tutti gli incarichi, e troppo preparati per non sapere che il Fascismo non è stato solo olio di ricino e campi di concentramento, e forse conviene a tutti assorbire e fare proprio quello che di buono il Ventennio ha prodotto, per evitare che la gente indulga a facili nostalgie.

Locandina_britanniaIl passaggio dalla Prima Repubblica alla Seconda è invece molto più traumatico di quello che appare. Nemmeno un morto in combattimento (solo una quarantina tra suicidi in carcere e malattie fulminanti dovute alla tensione improvvisa), le monetine tirate a Craxi, le bave di Forlani in tribunale, e l’espressione di Martelli che sembra chiedersi “cosa stavo dicendo già?“. Il “regime democristiano” (così come proprio Longanesi lo definisce cinquant’anni prima) viene tirato giù in diretta televisiva. Solo reati patrimoniali: corruzione, concussione, nessun grosso crimine. Addirittura qui il riciclo dei funzionari non parte dalle seconde linee, ma dalle prime, perché a parte gli imputati del mitico “processo Cusani” tutti gli altri politici sono passati indenni dalla Prima Repubblica alla Seconda. Prodi ed Andreatta sono stati ministri negli anni Ottanta, Amato è stato vice di Craxi, Berlusconi il suo compare d’anello, Scalfaro il suo ministro dell’interno, Ciampi governatore della Banca d’Italia, eccetera.

Anche se a ben vedere un grosso (anzi grossissimo) crimine si configura, quello di Alto Tradimento. Il crimine più grave di tutti, perché va contro gli interessi dello stato pregiudicandone l’avvenire. Come infatti è accaduto. E come solo adesso finalmente sta emergendo con maggiore chiarezza.

Il Fascismo è stato passo dell’oca e socialità, e i politici della Prima Repubblica, che all’Italia ci tengono, buttano via il passo dell’oca e si tengono stretta la socialità.

La Prima Repubblica è stata corruzione e sviluppo economico, e i politici della Seconda Repubblica, che prendono ordini dall’estero, buttano via il bambino con l’acqua sporca. Lungi dall’essere il semplice adempimento dei doveri connessi al potere giudiziario, Tangentopoli è stato un golpe, che fingendo di togliere di mezzo la corruzione (che oggi è ancora più bella e più superba che pria) ha spazzato via lo sviluppo economico (il vero obiettivo del nuovo regime) e con esso chissà quante generazioni.

Gli articoli de Il Discrimine possono essere ripubblicati, integralmente e senza modifiche (compreso il titolo), citando la fonte originale.

There are 8 comments for this article
  1. Antonio Messina at 9:51 am

    Non sono d’accordo con la tesi qui esposta. A mio avviso il passaggio dall’Italia fascista all’Italia democratica – suggellato da una guerra civile durata due anni – segna uno “spartiacque” profondo, sia in termini politico-ideologici che giuridico-istituzionali. Sul piano della filosofia politica abbiamo un totale stravolgimento di valori che permeano il sistema. Sul piano istituzionale la continuità fu solo fittizia, perché di fatto le istituzioni fasciste sopravvissute furono svuotate del loro effettivo significato e di fatto trasformate in qualcosa di completamente diverso. Il sistema corporativo fu smantellato, l’assistenzialismo passò dalle mani del partito totalitario (capillarmente radicato su tutto il territorio nazionale) a quelle dello Stato democratico, con tutte le diversità che la cosa comporta.
    E’ vero che l’IRI sopravvisse, ma mentre durante il Fascismo esso era uno strumento utile alla disciplina della produzione e alla subordinazione del capitale allo Stato, in vista di un rapido sviluppo economico della nazione, nel dopoguerra si limitò solo ad assolvere alla sua funzione economica. E’ vero che la scuola gentiliana sopravvisse al Fascismo, ma mentre prima era alle dipendenze del “Ministero dell’Educazione” successivamente fu posta sotto l’egida del “Ministero dell’Istruzione”, una piccola osservazione che da sola credo basti a far comprendere la profonda differenza tra la scuola fascista e la scuola democratica (la prima doveva creare ed educare l’uomo nuovo fascista, la seconda si limita ad istruire ed insegnare nozioni).

  2. Giovanni Di Martino at 1:18 am

    Rispondo molto volentieri ai rilievi formulati.

    – la guerra civile c’è stata, ma è stata nel complesso poca cosa (per esempio se confrontata con quella di Spagna di pochi anni prima): 120.000 partigiani da una parte e 800.000 uomini delle forze armate della Repubblica Sociale dall’altra (senza prendere in considerazione le forze del Regio Esercito che combatterono poco contro gli italiani della RSI), ed oltre trenta milioni di italiani in passiva/apatica attesa della fine delle ostilità (la cui scelta è stata peraltro legittima, dal momento che un fatto grave come l’otto settembre ha sciolto tutti dai propri vincoli e legittimato qualunque presa di posizione);

    – lo spartiacque tra Ventennio e Prima Repubblica dal punto di vista teorico c’è indubbiamente stato. Quello che mi premeva sottolineare nell’articolo è che la classe dirigente antifascista avrebbe potuto buttare tutte le conquiste sociali del Fascismo, e ai nostri nuovi padroni questo sarebbe piaciuto assai, ma ha deciso di non farlo. Questo fatto impone che il giudizio negativo su De Gasperi che cede agli americani la nostra sovranità vada un po’ attenuato, dal momento che molta scelta non gli è stata lasciata e che la decisione finale sia stata quella di cedere parte e non tutta la sovranità stessa. Insomma ci poteva andare veramente peggio (e il passaggio del 1992 – 93 lo ha dimostrato);

    – lo stravolgimento dei valori sul piano della filosofia politica ovviamente c’è stato ed è difficile negarlo;

    – la “continuità fittizia” sul piano istituzionale però no. I quattro codici per esempio (due del 1930 e due del 1942) hanno dimostrato la propria solidità fino alla soglia degli anni novanta. E nessun giurista democratico si è osato riformarli (fatta eccezione per la riforma del diritto di famiglia del 1975). Le istituzioni fasciste sopravvissute non furono affatto “svuotate del loro effettivo significato”, anzi. L’INPS ha ampliato i benefici per i lavoratori in malattia e dato a milioni di pensionati della Prima Repubblica la possibilità di godersi la pensione per venti o trenta anni. L’IN(F)AIL ha ingrandito la protezione degli infortuni sul lavoro e in itinere. L’AGIP è diventata una costola dell’ENI, che ha quasi rischiato di garantirci l’indipendenza energetica. Non penso che l’ “effettivo significato” che le voleva dare Mussolini quando le ha create fosse diverso dal benessere per il popolo;

    – l’azienda di stato (ancorché corrotta e clientelare, ma lo era anche il PNF dai…) è stata il fiore all’occhiello dello sviluppo economico del paese (basti pensare al primato dei progetti Alfa Romeo – gestione IRI – rispetto a quelli delle case automobilistiche tedesche). Il Fascismo, nel complesso, allo sviluppo industriale ci pensava e non ci pensava, dal momento che l’uomo nuovo lo voleva rurale (non che fosse un errore). E comunque il capitale era subordinato allo Stato anche nella Prima Repubblica, dal momento che proprio questo è stato il motivo del suo abbattimento (non volevano più che i politici rompessero i coglioni agli industriali e ai finanzieri, che volevano essere liberi di utilizzare i profitti per comprarsi i titoli più redditizi, anziché essere costretti a reinvestirli in azienda per progetti di produzione a lungo termine);

    – il corporativismo fu smantellato, ma stiamo parlando di una cosa che non è mai entrata in funzione. Poi in termini teorici e generali avrebbe anche funzionato, ma i frutti effettivi non si sono visti per ragioni contingenti: quando l’apparato corporativo era pronto ad entrare in funzione (le ultime due legislature del Ventennio, quella del 1934 e quella del 1939) il governo a suon di decreti legge aveva già imposto dall’alto una serie di migliorie epocali per i lavoratori (l’obbligo delle mense aziendali, la giornata lavorativa di otto ore, e gli istituti previdenziali). Lo stesso TFR, istituito nel 1942, fu calato dall’alto dal governo e non frutto di una trattativa in sede camerale tra corporazioni. Quanto alle migliorie dei contadini (ai quali lo Stato regalava la terra e la casa con la luce elettrica pure nel bagno), anch’esse vennero fatte coi decreti ministeriali dai vari ministri dell’agricoltura (Rossoni prima, Tassinari e Pareschi poi);

    – sulla scuola gentiliana ha ragione Messina. Ha continuato a funzionare solo fino ai primi anni sessanta. Poi riforma dopo riforma (a cominciare dalla scuola media unica al posto dell’avviamento al lavoro) è stata affossata. Il che non le ha impedito di funzionare, seppur sempre peggio, fino almeno a trent’anni fa. Poi il peso delle riforme l’ha stravolta ed uccisa.

    In conclusione la tesi dell’articolo è che se sul Fascismo si è abbattuta una damnatio memoriae, ormai difficile da sanare, la storia della Prima Repubblica rischia di fare la stessa fine, e neanche lei lo merita.

  3. Antonio Messina at 5:48 pm

    A mio avviso la domanda fondamentale su cui bisogna riflettere è: qual era la logica che informava le istituzioni fasciste? E qual è la logica che informa o ha informato le istituzioni dell’Italia post-fascista?
    Indubbiamente le istituzioni create dal regime fascista hanno funzionato bene anche nel dopoguerra, ma il fascismo aveva assegnato ad esse degli obiettivi politici ben precisi che, per ovvie ragioni, sono poi stati rinnegati dall’esperienza successiva. Questi obiettivi non si limitavano alla ricerca di un vago “benessere” per il popolo italiano, di un benessere fine a se stesso. Questo in quanto il fascismo era profondamente anti-edonista ed antimaterialista, e perciò non concepiva l’ideale di una “società del benessere” così come è intesa oggi (ideale che sarà alla base delle istituzioni della Prima e della Seconda Repubblica).
    Un teorico fascista di primissimo piano come Carlo Curcio scriveva: “In questo suo stato il popolo fascista non vede un distributore di beni materiali, ma un valore ben più alto e sublime: una manifestazione dello spirito, un assoluto di volontà e di potenza, il portatore della civiltà del secolo nuovo”.
    Questo è il punto fondamentale che ci permette di parlare di una rottura anche istituzionale con l’Italia post-fascista, proprio perché alla base delle istituzioni vi erano non solo una filosofia, ma degli obiettivi politici ben diversi. Prendiamo il caso dell’IRI. Essa fu creata dal regime mussoliniano non soltanto per salvare le imprese e le banche a rischio fallimento, ma soprattutto per esercitare un controllo diretto e/o indiretto sull’intera economia nazionale da parte dello Stato. Ed è così che dopo l’Unione Sovietica, l’Italia fascista fu la nazione con più controlli sulla sua economia rispetto a qualsiasi altra nazione in Europa. A sua volta questo forte controllo sull’economia era funzionale a Mussolini per i suoi obiettivi imperiali e nazionali.
    E’ difficile poi negare l’influenza che gli interessi capitalistici hanno esercitato sull’Italia postfascista, tenendo conto che uno dei primi decreti del CLN riguardava la soppressione dei “consigli di gestione” creati dal fascismo repubblicano. E tenendo anche conto che l’Italia era (ed è) economicamente, politicamente e militarmente subordinata agli Stati Uniti, paese capitalista per eccellenza.

    • Giovanni Di Martino at 4:01 pm

      La filosofia che ha ispirato le istituzioni era diversa, ma gli obiettivi non del tutto, tant’è che a porli fu una classe dirigente nata e cresciuta in seno ai GUF, che la famosa amnistia di Togliatti del 1947 (lungi dal pacificare) servì proprio ad assorbire.
      Dal punto di vista teorico i progetti politici fascisti non avevano un fine edonistico, questo è vero, ma in concreto quello che politicamente (intendendo per “politica” l’accezione niccolaiana in senso stretto di “fare qualcosa per gli altri”) andava fatto ed è stato fatto è stato proprio il togliere la gente dalla miseria medioevale in cui stava e darle una condizione di vita a misura d’uomo per poter crescere socialmente, progredire, e poi apprezzare i frutti della rinascita nazionale.
      Le barriere che hanno consentito a tutti di abbandonarci alle gioie del capitalismo assoluto sono saltate nel 92, non nel 45, malgrado certi pruriti, tipo la socializzazione, siano stati subito messi nel congelatore e chiusi a chiave.

  4. Danilo Fabbroni at 10:00 am

    Del resto un brevissimo scorcio della biografia della più importante spia statunitense a Roma durante la Seconda Guerra Mondiale – Peter Tompkins – porta di nuovo acqua a questa tesi, anche e soprattutto sul fronte dell’instaurarsi del fascismo.
    Difatti il Tompkins sostiene che la Comunione Massonica di Piazza del Gesù sia pesantemente intervenuta negli atti fondativi del fascismo tanto che la sala convegni di Piazza San Sepolcro a Milano sia stata messa a disposizione del nascente movimento fascista – i Fasci di Combattimento – dal massone ebreo Cesare Goldman. Alla stessa stregua il quotidiano “Il Popolo d’Italia” fu ‘creato’ grazie ai finanziamenti del massone, brasseur d’affaires, Filippo Naldi. Del resto è noto che i caporioni della Marcia su Roma erano ben irreggimentati nella Comunione Massonica di Piazza del Gesù, compreso importanti gerarchi come Roberto Farinacci. Tompkins sostiene che alla vigilia della Marcia su Roma lo stesso Mussolini si incontrò con Raoul Palermi, Gran Maestro della massoneria di Piazza del Gesù.

  5. Danilo Fabbroni at 10:01 am

    Non solo la Comunione Massonica… : «Alessandro Contini […] fa avere a Mussolini un cospicuo prestito dall’America attraverso il finanziere Samuel Kress […]», ed ancora: «Sir Samuel Hoare del MI5 (la V divisione della Military Intelligence britannica) tratta direttamente con Mussolini un versamento di cento sterline settimanali, perché “Il Popolo d’Italia” insista sulla belligeranza», La storia di Igor Markeviĉ, op. cit., p. 131, 174.

    • il discrimine Author at 11:45 am

      La questione delle sterline per il “Popolo d’Italia” salta fuori anche in “Colonia Italia”, di Fasanella e Cereghino. Ma come ha osservato Maurizio Barozzi, il problema non è quello dei “soldi”, ma quello di che cosa ci si fa con i soldi. Insomma, Mussolini non c’è andato a donne o alla bisca: ci ha finanziato il giornale, che serviva a coagulare un progetto politico. Ma detto questo, tutto ciò non ha molto a che vedere col tema dell’articolo, che era quello della “continuità istituzionale” tra Fascismo e Prima Repubblica (“antifascista e nata dalla Resistenza”!). Oppure con questi due commenti voleva sottolineare addirittura un elemento di continuità tra l’Italia prefascista, massonica e liberale, e quella Fascista?

      • Giovanni Di Martino at 4:09 pm

        Però anche se non attinenti sono interessanti, proprio perché, come hai detto Tu, Mussolini coi soldi ci fa quello che vuole lui. E questo è il punto chiave per capire un uomo che rischiava di stravincere fregando tutti. Che Il Popolo d’Italia fosse nato con le sterline, con i franchi, con le lire dei massoni o con quelli de Il Resto del Carlino, se ne son sentite tante, sta di fatto che Il Popolo d’Italia andò dritto all’obiettivo. Mussolini non butta via la corte che gli fanno stranieri, ebrei, massoni, confindustriali, cardinali, popolari, liberali, generali, proprietari terrieri…e anzi a due anni dalla fondazione del movimento lo riorienta del tutto segando le gambe ai fascisti di sinistra. Ma quando è al potere fa quello che vuole lui e che probabilmente aveva in testa fin dall’inizio…tipo Putin…e a migliorare non sono di certo le condizioni di quelli che lo hanno corteggiato e finanziato.

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