Enrica Perucchietti, Utero in affitto, Revoluzione Edizioni, Orbassano (TO) 2016

di Enrico Galoppini

Il controllo del linguaggio, e di conseguenza quello delle idee, ha sempre avuto un peso fondamentale nella pratica dei dominanti finalizzata al mantenimento di determinati assetti di potere e rapporti di forza.

Se andiamo indietro nei secoli – e senza alcun intento polemico verso il Cristianesimo, sia chiaro – troviamo il caso di numerose parole ed espressioni latine che, una volta portato l’attacco mortale alla religione romana, vennero letteralmente stravolte da coloro che museo_della_civilta_romanaproducevano una cultura atta a sostenere la diffusione dell’ideale cristiano. Sono noti gli esempi delle parole “ozio” e “fanatico”: il primo, per il romano, non era un “dolce far niente”, bensì un’attività “ri-creativa” finalizzata alla “edificazione” di sé, mentre chi andava ancora al tempio (fanum) si ritrovò ad esser bollato, da un certo punto in poi, come un unilaterale violento, e da qui il nostro “fanatico” che ha solo un’accezione negativa. Così com’è stato per “pagano” per secoli e secoli di cultura ufficiale cristiana (fino all’emersione di un cosiddetto “neopaganesimo”), quando in fondo l’unico scopo dell’operazione culturale era quello di far credere che i contadini, fedeli alle loro tradizioni, non fossero altro che dei “superstiziosi” recalcitranti di fronte alla religione vittoriosa a partire dalle città.

Gli esempi che si potrebbero fare sono innumerevoli, come per esempio la riduzione ad una sola “anima” di quel ricco e sfaccettato linguaggio dei romani che considerava la presenza anche dell’animus, perché l’uomo è molto più complesso di come lo si vuol immaginare secondo la banale dicotomia tra “anima” (tutta rivolta all’“ultraterreno”) e il “corpo”, svilito e ricondotto alla sola dimensione “terrestre”.

mappa_impero_romanoMa ancora, sebbene la “guerra delle parole” fosse una pratica ben conosciuta, ci si trovava in un’era nella quale l’ipocrisia non occupava, nelle vicende umane, un posto di prim’ordine. I romani, infatti, ti facevano la guerra per il dichiarato scopo, per essi dettato da un “destino”, di fondare e reggere un Impero: era un principio d’ordine, una categoria spirituale, che andava imposta alla genti per forza o per amore, mentre oggigiorno – con le scuse più insostenibili – si riducono regioni sempre più vaste del pianeta a campi di battaglia per il puro gusto di rovinare la vita agli altri, nell’ottica della “guerra preventiva” (per prevenire, appunto, l’emersione di altre superpotenze globali competitive) e con la regolare copertura ipocrita e melensa della “esportazione della democrazia” e dei “diritti umani”.

I romani, da questo punto di vista erano alieni da ogni ipocrisia. Erano schietti e lineari, ancorché brutali e spicci quando serviva. Ma dopo arrivavano i benefici della civiltà per tutti in nome della Giustizia. Avevano, insomma, le idee chiare su come si sta al mondo, e questo è evidente dalle numerosissime perle di saggezza che ci hanno tramandato.

Tra queste vi è quella, lapalissiana, per la quale la madre è sempre certa (mater semper certa est), mentre il padre no. Il figlio è di chi se l’è portato in grembo, no?

La Vergine MariaPer i cristiani, venuti dopo, il discorso era ovviamente il medesimo (si pensi a Maria Vergine, madre di Gesù, con la figura di Giuseppe che diventa “problematica” o addirittura “imbarazzante” solo per la mentalità moderna, la quale non concepisce il mito e l’intervento del divino – familiare agli antichi – nella nascita di uomini superiori, con una missione dall’Alto). Il discorso – dicevamo – era fondamentalmente lo stesso, con un elemento di “rinforzo” per quanto riguarda la sacralità della famiglia, ovverosia l’indissolubilità del matrimonio.

Figli e famiglia, in poche parole, finché in Europa la civiltà (romana o cristiana) ha retto, sono stati concetti e un campo d’azione dove i mestatori non trovavano modo di mescolare le carte. L’iconografia della Madonna col bambino (talvolta raffigurata nell’atto di allattare il piccolo) è di un’eloquenza che non lascia adito a dubbi.

allah__s_name_wallpaper_050_by_almubdi-d38qo4dLa civiltà arabo-musulmana – essendo la Tradizione una – non si discosta, nella sostanza, da questa linea, che è sempre stata la stessa da quando esiste il mondo. Con dei distinguo, certo. In quel contesto il matrimonio non è indissolubile, ma il divorzio è, agli occhi del Profeta – secondo un hadîth ricordato sovente – “la cosa più odiosa” che un musulmano possa fare, mentre la metà della sua “sottomissione [al volere divino]”, e cioè l’Islâm, egli la raggiunge proprio grazie al matrimonio, che è una “palestra” per esercitare virtù fondamentali come la dedizione e la pazienza. Non parliamo poi dei figli, persino protetti dai tre mesi di regolari mestruazioni che devono essere attesi – onde accertarsi di un’eventuale gravidanza – prima della definitiva interruzione del rapporto coniugale. Il Corano, inoltre, esorta a proseguire l’allattamento al seno per due anni, necessari per trasmettere al bambino tutti i nutrimenti e gli anticorpi necessari.

Quanta attenzione ai figli e alla famiglia ha riservato, in tutte le ere che hanno preceduto quella moderna, la visione del mondo condivisa dai diversi popoli!

Anche con le adozioni ci si è sempre andati cauti, il che non significa che i nostri predecessori fossero degli “insensibili”. Secondo la giurisprudenza islamica, non è possibile “adottare” un figlio così come noi intendiamo generalmente la cosa, nel senso che il bambino bisognoso, accolto nella nuova famiglia, non prende il nome di quella ma mantiene il suo, in primis come segno di rispetto per la sua origine.

sviluppo-embrionaleLe civiltà precedenti alla cosiddetta “modernità” erano fondamentalmente ispirate da un principio realistico, per il quale non aveva senso proclamare che è bene allattare solo sei mesi (o anche meno) o che mandare una famiglia a scatafascio al primo tirar di brezza fosse una manifestazione di “libertà”. Ci si doveva comportare con dignità, nel rispetto della Natura (istituita da Dio), mentre l’ego, quell’insignificante e tirannica “maschera” che si nasconde continuamente dietro pretese “convinzioni” personali, doveva in ogni modo essere tenuto a bada per “risolverlo” in qualcosa di “universale”.

L’epoca attuale, al contrario, non è altro che il risultato della ribellione contro l’ordine naturale delle cose. Per questo, ai suoi albori (mentre ancora teneva fermo l’essenziale), la prima rivolta è stata condotta contro Dio, per poi passare alla radice etnica, ed infine (non necessariamente in sequenza, ma anche in concomitanza) all’identità sessuale. Si ripensi alla tradizionale triade Dio-Patria-Famiglia, dileggiata da generazioni di “rivoltosi” e arruffapopoli, e si avrà chiaro il disegno sovversivo perseguito, sempre più tenacemente e smaccatamente, nel corso degli ultimi anni da ambienti i più disparati ma convergenti e solidali.

perucchietti_utero_affittoOra, queste cose sono molto chiare all’autrice del libro intitolato Utero in affitto, Enrica Perucchietti, co-autrice (con Gianluca Marletta) di un libro che ha preparato la strada a quello che stiamo segnalando. In effetti, se non si capisce la follia dell’Unisex e della cosiddetta “teoria del genere” (finalizzata a definire il sesso, pardon, il “genere”, una “opzione culturale”) non ci si può dare conto di come con l’utero in affitto, e dunque la compravendita di bambini e la riduzione a schiave della gravidanza per conto terzi di poveracce adescate qua e là soprattutto nei paesi più immiseriti, si arrivi al fondo (per ora!) della dilagante follia imputabile all’applicazione dogmatica e sistematica dell’unica vera legge del satanismo: “Fa ciò che vuoi!”.

Se ciascuno può fare ciò che vuole, è evidente che anche l’acquisto di un figlio, persino da parte di una coppia di omosessuali, è una cosa reputata “normale”. Ma questo è solo l’inizio di una deviazione puntellata dallo stravolgimento dei concetti e dalla diffusione di termini e definizioni coniate solo per intorbidare le acque, come quella, rassicurante, della “maternità surrogata”, per non parlare dell’idea stessa di “madre”, che secondo alcuni “intellettuali” coerenti con la loro “missione”, sarebbe un “concetto antropologico”!

Non è più dunque questione di ipocrisia, ma di un crimine puro e semplice che il titolo di questo libro, nella sua aderenza alla realtà dei fatti, denuncia come meglio non si potrebbe, al di là di un particolare punto di vista “confessionale” ed in nome di un’adesione a quei princìpi che hanno da sempre dato forma alla civiltà universale.

Tutto il resto, spiegato e raccontato con dovizia di particolari dall’Autrice, è una conseguenza di questo vulnus portato a quell’ultimo caposaldo che ancora ci mantiene “umani”, prima che in un domani dai contorni terrificanti si possa affermare, senza tema di smentite, che la madre è “sempre incerta”…

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