Un eccidio dimenticato: Grosseto, Pasquetta del 1943

di Bennato Bennati

Blaise-monlucBlaise de Monluc, generalissimo francese che diresse la difesa di Siena (e della libertà senese) contro i mediceo-imperiali in occasione della “Guerra di Siena” (1554-1559), racconta nelle sue “Memorie” (che, considerate un capolavoro della lingua francese, si trovano pubblicate da Gallimard nella prestigiosa collana de “la Pléiade”), che, ad un certo punto, i senesi, stretti da severo assedio, privi di viveri, dopo avere mangiato persino gli animali domestici, si risolsero a fare evacuare da Porta Camollia, le “bocche inutili”, cioè non idonee alla difesa della città, vecchi, donne, malati, bambini; ma che il Marchese di Marignano, che comandava  gli assedianti  mediceo-imperiali, desiderando, per opposte ragioni, che costoro non lasciassero Siena, ordinò aprirsi il fuoco sulla colonna dei fuoriusciti che così si trovarono stretti fra le mura della città e le bocche da fuoco nemiche  (non è chiaro se gli assediati a quel punto li facessero rientrare in città).

Se il Monluc fosse vissuto ai nostri giorni in cui la propaganda, l’induzione psicologica sono importanti quanto e forse più delle stesse armi, avrebbe avuto buon giuoco a tassare gli avversari di inumanità, barbarie, “crimini di guerra” ecc.; ma siccome viveva in un’epoca in cui queste finezze ancora non erano conosciute, in un certo senso più onesta di questa, nelle sue “Memorie”, il primo ad assolverli è proprio lui, dicendo che i militari si trovano talvolta di fronte a certe situazioni, per cui o  prendono determinati rimedi per quanto dolorosi essi possano essere, ovvero non ne vengono a capo (lui stesso, successivamente, inviato dal Re di Francia a combattere, a sostegno della  parte cattolica, gli ugonotti nelle guerre di religione – 1562-1570 -, ne menò grande strage, come da istruzioni ricevute).

Contrariamente all’opinione del grande generale d’oltralpe, ritengo (e fermamente ritengo) che non ci siano situazioni di alcun tipo, nemmeno della più grande eccezionalità, né convenzioni internazionali (se ve ne sono), né usanze belliche di sorta che giustifichino le rappresaglie effettuate dai soldati tedeschi nei confronti delle popolazioni italiane, per vendetta e/o per ammonimento in relazione agli attacchi subiti da gruppi di individui senza nome e senza divisa, o con divise raccogliticce, non catalogati né catalogabili in nessuno degli eserciti in lotta, ritirantisi dopo gli attacchi stessi nei boschi, sui monti, o nelle loro stesse abitazioni poste nelle località, o ad esse prossime, che poi subivano la rappresaglia.

La responsabilità, in base a principi elementari di giustizia e civiltà è comunque personale e non estensibile alla comunità, familiare o sociale a cui il responsabile appartiene, né la difficoltà od anche l’impossibilità di identificarlo e di “venirne a capo”, giustifica punizioni, vendette ecc. nei confronti del suo contorno, onde è certo che la condotta tenuta in tali circostanze dai soldati tedeschi deve essere assolutamente riprovata e, ove  giuridicamente consentito, perseguita e punita.

Parlo di “soldati tedeschi”“ e non, come d’uso, di “nazisti” (o tanto meno di “nazifascisti”, categoria di conio assolutamente propagandistico e polemico, dal momento che alcun “nazifascismo” è mai esistito, né lo stesso termine avrebbe mai visto la luce, se Mussolini, il dieci giugno 1940, ritenendo il conflitto prossimo a conclusione con la vittoria della Germania – che abbaglio, povero lui e poveri noi! – non fosse entrato in guerra a fianco di essa, per sedersi a breve e a buon mercato da vincitore al tavolo della pace), in quanto il rivalersi sulle popolazioni per attacchi subiti da civili rimasti non identificati, era pratica usata dall’esercito tedesco (non so se anche da altri eserciti) già nella prima guerra mondiale (quando Hitler e Mussolini, erano  solo due semplici “caporali” dei rispettivi eserciti), come tutti abbiamo avuto occasione di leggere nelle rievocazioni di quest’anno dedicate al centenario dello scoppio del primo grande conflitto, cui, a comprova, aggiungo questo ulteriore aneddoto del quale casualmente sono venuto a conoscenza.

leon-vouauxInteressato, qualche anno fa, all’approfondimento  delle fonti neotestamentarie apocrife, acquistai a mezzo di internet il volume (edito nel 1922)  “Les actes de Pierre” (“Gli atti di Pietro”) con introduzione, testi, traduzione e commentari di Leon Vouaux.

Quando il volume pervenne, vidi che sulla copertina sotto il nome del curatore, compariva la legenda “mort pour la France!”, morto per la Francia, per  cui incuriosito, andai subito a leggere la prefazione per saperne di più.

Ebbene questo Leon Vouaux era un prete, più precisamente un abate, ed era anche  professore universitario di scienze naturali, particolarmente un entomologo, tant’é che il maggiore trattato esistente all’epoca sulle farfalle era proprio il suo!

Avendo l’abate un fratello più giovane, anche lui sacerdote, parroco di una cittadina nel nord est della Francia, prossima alla frontiera tedesca, ed essendo stato richiamato alle armi, fu lui a sostituirlo nella conduzione della parrocchia.

Essendo stata la cittadina occupata dai tedeschi, ed essendo un loro soldato stato ucciso non in un’operazione bellica, ma (essi dissero) da un civile o da civili  francesi rimasti sconosciuti, i crucchi (sì, i crucchi, in circostanze così non saprei proprio come altrimenti definirli) arrestarono il parroco, facendo avviso alla popolazione che se nelle ventiquattr’ore il responsabile o i responsabili non si presentavano loro, avrebbero fucilato il povero abate, cosa che il giorno dopo, nessuno avendo rivendicato la paternità dell’attentato, puntualmente fecero, sottraendo alla Francia e al mondo un innocente e un uomo di scienza di prim’ordine.

Tanto (doverosamente) premesso e ritenuto, va aggiunto che secondo il giornalista (e musicologo) Piero Buscaroli (“Dalla parte dei vinti”, Mondadori, 2010) a fronte delle circa 6.500 vittime civili delle rappresaglie tedesche, le vittime civili dei bombardamenti terroristici angloamericani sarebbero state dieci volte tante, circa 65.000, ma non ci sono pubbliche autorità, “media” giornalistici o televisivi, occasioni celebrative di sorta in cui esse vengano ricordate (migliaia di vittime furono fatte a Bologna, Boves, Ancona, Firenze, Chieti,  Terni, Cervo, Sulmona, Pistoia,Viterbo, Grosseto, Varazze, Albenga,Teramo, Sant’Egidio, Giulianova, Pineto, Pescara, Pesaro, Torino, Genova, Ventimiglia, Lamporecchio, Recco,Varazze, Pontassieve, Prato,Trecase, San Benedetto del Tronto, Foligno, Chiusi,Civitanova, Pietrasanta, Rimini, Cisterna, Arezzo, Padova, Zara, Roma eccetera).

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Quanto a Grosseto, si è ancora in attesa di una targa commemorativa che senza infingimenti o giri di parole (tipo la “tragicità della guerra” ed altre consimili banalità) ricordi, indicandone chiaramente gli autori, ed indicandoli alla riprovazione dei posteri, la strage effettuata il giorno di Pasquetta del 1943, dagli aerei americani, scesi a bassa quota a mitragliare  passanti e una giostra carica di bambini, nel quadro del “moral bombing” programmato per piegare l’Italia (al riguardo ho appreso da RAI Storia che all’epoca la principessa Maria José, moglie di Umberto di Savoia, conduceva, a mezzo di personalità a lei vicine, una sua sorta di diplomazia privata nella neutrale Lisbona, facendo sapere agli Alleati angloamericani che il popolo italiano sarebbe stato stanco della guerra in corso, che non ne poteva più, eccetera, donde, potremmo pensare, i bombardamenti massicci sulla popolazione civile, per vieppiù esasperarla, piegarla, “venirne a capo”, insomma).

Né le passate amministrazioni comuniste, né quelle berlusconiane, né quelle attuali del c.d. “centrosinistra”, hanno mai posto un ricordo lapideo del genere, vuoi forse perché (è da ritenersi) quella strage (e le altre simili effettuate in tutta Italia) sono considerate (anche se ciò non viene esplicitato in chiaro) come il prezzo che andava pagato per rovesciare il regime fascista; vuoi per non irritare l'”alleato” americano (per la verità durante l’amministrazione di centro-destra, presso il Cassero del Sale,  prossimo a Piazza De Maria, dove avvenne il mitragliamento della giostra, fu messa un statua a ricordo, con iscrizione che chiamava le cose con il loro nome, ma poi la statua è sparita e non so la fine che abbia fatto).

Churchill_RooseveltA personale commemorazione e ricordo del ben triste episodio, di seguito  riporto l’articolo che comparve sul “Telegrafo” di Livorno del 2 Maggio 1943, riprodotto dal quotidiano “il Tirreno” – nuova denominazione della stessa testata giornalistica – in una serie di fotografie dedicata negli anni Novanta agli “anni di guerra” (sul retro della fotografia leggesi tuttavia questo piuttosto stupefacente avviso ai lettori: «“Come la barbarie anglosassone si è abbattuta sugli inermi di Grosseto”. Così il “Telegrafo”   del 2 Maggio 1943 titolava con linguaggio chiaramente propagandistico un pezzo in prima pagina, dedicato al bombardamento della città”».

L’articolo, ovviamente fu all’insegna della retorica ed evitò accuratamente qualsiasi accenno alla inefficienza delle difese antiaeree, come se il giusto sdegno del cronista, che sembrerebbe essere stato pure testimone oculare dell’evento, fosse “retorica”, e come se la responsabilità dell’evento stesso non fosse da attribuirsi ai “Liberators”, ai “liberatori” americani, ma alla inettitudine della locale difesa antiaerea – che comunque almeno un aereo avversario riuscì a buttarlo giù!); nonché il ricordo di un’infermiera anch’essa testimone dei fatti riportato nell’“Album di Medici del Novecento della Provincia di Grosseto – L’eredità di un Camice Bianco”, di Umberto Carini, Fabrizio Viggiani. Sergio Bovenga, Editrice Innocenti, 2008.

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IL TELEGRAFO, Domenica 2 Maggio 1943, ANNO XXI

COME LA BARBARIE ANGLOSASSONE  SI È ABBATTUTA SUGLI INERMI DI GROSSETO

Episodi che confermano la  premeditazione dei gangesters dell’aria

Grosseto, Aprile

liberatori018Il nemico nel suo cuore reo “dove germoglia una selva di barbarie” aveva  giurato per gli Italiani una Pasqua di sangue; l’aveva promessa alla radio con la sfacciata minaccia di chi ha dimenticato e mai posseduto i più elementari principi della civiltà, e l’ha mantenuta, e la Pasqua di sangue è scesa tragica su noi tutti, fredda raccapricciante, sconvolgente la nostra logica e pestando il cuore di noi uomini avvezzi alle leggi umane della civiltà e della ragione.

La Pasqua di sangue c’è stata e si abbattuta tremenda oltre ogni dire e intendere su di una delle nostre più tranquille e laboriose città. Grosseto, il silenzioso e affascinante capoluogo della Maremma, è stata la vittima  prescelta dai piani malvagi escogitati sui tavoli dove il nemico cinicamente decide le sue vantate aggressioni. E il vanto questa volta gli torna a tutto merito. Non credo infatti che nella storia delle aggressioni, quando si farà, se ne possa trovare, quanto a barbarie, una più riuscita di questa consumata contro l’aperto centro agricolo della Maremma. E i nemici se ne possono davvero gloriare, perché in eterno, davanti a Dio e agli uomini, gliene resterà il primato.

A chi ha vissuto gli indescrivibili momenti di questa aggressione operata a sorpresa come una imboscata, dai mitragliatori e gli  spezzonatori nord-americani, resta ancora nell’animo, a distanza di giorni, un tumulto di impressioni e di immagini, e su tutto l’essere, come un intenso incubo di dolore.

“Noi bombarderemo i porti, noi bombarderemo le città. Allontanatevi dai porti, allontanatevi dalle officine”, raccomandavano gli ipocriti e beffardi  manifestini lanciati dal nemico, invece la rabbia selvaggia degli americani  si è riversata su donne e bambini.

Questo il delitto mostruosamente operato dal nemico.

A girare la città in lungo e in largo, a ripercorrere l’itinerario del dolore seguito in questo tragico lunedì di Pasqua dagli apparecchi nemici, a vedere lo straziante spettacolo della lunga teoria di morti allineati nelle stanze mortuarie, quello che rimaneva di mostruosamente inconcepibile e inspiegabile era perché tanti bambini – tanti – fossero state le vittime volutamente mietute dal nemico. Bambini e ragazzi, innocenti e felici, ignari della guerra, che altro non sognavano che di consumare la tradizionale merenda pasquale sulle rive del Diversivo o per le campagne Rosellane o per i prati di questa bella pianura baciata dalla primavera e che sono stati rincorsi con gli apparecchi e freddati dalle raffiche delle mitraglie.

operazione-uovo-di-pasqua-grosseto-26-aprile-1943Questo è il delitto supremo, fuori da tutte le leggi, anche le più barbare, della guerra; questo il delitto che ha trafitto ogni cuore, rivolgendolo alla ferma speranza di un ineluttabile e superiore castigo.

Una vera e propria “caccia all’uomo” bisogna ammettere nel nemico per spiegarsi – e solo  così ce lo spieghiamo –  la terribilità del mitragliamento e lo spezzonamento grossetano.

Una vera caccia all’uomo esercitata con pervicace e feroce preferenza esecrata ai bambini e alle donne. La serie dei particolari bestiali e feroci  che sono ormai ricordo indelebile di tutti i cittadini che li hanno vissuti o che li hanno appresi con orrore da chi ha visto, giovano e riprovano la immane bestialità di chi li ha dettati e travolti in atto.

Bambini sono stati falciati mentre giocavano spensierati si prati e sulle strade; bambini sono stati mitragliati sulle giostre del Parco dei divertimenti, mentre cavalcavano allegri i cavallucci di legno o guidavano le metalliche automobiline; bambini sono stati trucidati dalle pallottole nemiche a pochi passi dalle madri straziate…

Alle ore 2,10 circa del pomeriggio, 24 quadrimotori americani “Liberator” (il nome mai come oggi suona così tragicamente beffardo) arrivavano improvvisamente, con l’aiuto dell’alta quota e del mare, su Grosseto, e sganciavano bombe e spezzoni, la maggior parte delle quali cadevano sull’abitato, fra cui l’Ospedale della Croce Rossa e l’Asilo Nido; poi si abbassavano fulmineamente sulla città e a volo rasente i tetti, mitragliavano la popolazione sulle strade e sulle piazze. Attaccavano il villaggio popolare Costanzo Ciano, creato di recente dal regime per le famiglie prolifiche, uccidendo quei parecchi ragazzi che giocavano   all’aperto sui prati. Attaccavano la Piazza delle Catene, il Corso, e le vie periferiche della città, dove appunto specie molte donne e ragazzi si avviavano alla campagna per la merenda.

strage_gorla_201044Morti e morti sono caduti su pozze di sangue; e chi accorreva per prestare aiuto – madri disperate o passanti – sono caduti anch’essi falciati dalle micidiali raffiche.

Due bimbi che inseguivano in un campo un branco di oche sono stati inseguiti e trucidati uno dopo l’altro. La sete di sangue giovane era inestinguibile nel nemico che pareva avere giurato un infanticidio a dispetto di Cristo, proprio il giorno della sua Resurrezione.

Pieno di strazio e di dolore immenso questo episodio che narrerò e col quale chiuderò queste note travolte da una emozione incessante.

Ci balza ancora dinanzi agli occhi la scena avvenuta alla Cattedrale.

Una bambina che colpita, è caduta in una pozza di sangue e la madre e il parroco della Cattedrale con altri passanti che accorrono, la prendono, la conducono moribonda sotto i vecchi portici, ma ecco tornare l’apparecchio micidiale assetato ancora di sangue. La bambina spira; il parroco fa inginocchiare la madre e gli altri e dà loro l’assoluzione e prega Iddio, aspettando la morte.

La raffica scende ma il miracolo è compiuto; gli uomini e gli altri si alzano incolumi, pronti per dare aiuto agli altri.

La  bambina morta faceva le elementari e proprio sul muro di queste scuole, il giorno dopo, sono state trovate scritte in gesso queste parole: “Questa scuola del popolo piange i suoi fanciulli trucidati dal feroce nemico, gridando Viva l’Italia”. In questa iscrizione sentiamo ancora oggi e per sempre, espresso il chiuso dolore e l’angosciato sdegno di tutta questa città così disumanamente provata al dolore e allo scempio della barbarie. M.A.

***

leredita-di-un-camice-biancoCosì ricorda il fatto una infermiera che prestò nella circostanza la propria opera professionale di assistenza ai feriti: “(…) l’arrivo della primavera aveva trasmesso a tutti una gioiosa energia, che sembrava attutire le sofferenze per quella guerra che vivevamo nel nostro quotidiano da circa tre anni (…).Era il lunedì di Pasqua (…). Verso le 14 di quel giorno non udimmo sirene di allarme ma subito un frastuono ripetuto per schiocchi secchi continuati, una grandinata, poi gli aerei che si allontanano e poi ritornano per percorrere Piazza della Vasca, Via Oberdan, sino a Roselle. Infine silenzio per qualche minuto, subito iniziarono ad alzarsi urla  strazianti di dolore e rabbia. Con il poco personale presente, mi ritrovai al pronto soccorso (…) . Il primo ad arrivare fu proprio un bambino ferito alle giostre, portato da un fiaccheraio in condizioni critiche; iniziarono poi a giungere i feriti, ala spicciolata, moltissimi in condizioni disperate,dapprima pochi, poi sempre più numerosi, finché l’ingresso dell’ospedale e il corridoio non furono completamente pieni. Adagiate scompostamente, sanguinanti, tante erano le persone che conoscevo. Le ferite erano profonde, gli arti erano mancanti; ricordo che in breve tempo i miei sandali, quelli bianchi che insieme al camice ed alla cuffia costituivano la mia divisa, si tinsero di rosso, per lo strato di sangue sul pavimento (…). Tutti i medici, gli infermieri, le suore e i volontari  restarono attivi tutta la notte. I pochi congiunti dei ricoverati avevano già qualcuno da piangere; ricordo lo strazio di chi si era trovato la famiglia distrutta in quei pochi attimi e quello di chi, nelle situazioni più disperate, si aggrappava ad un filo di speranza per i familiari (…). Molti erano i bambini, molte le famiglie distrutte (…). Le stime ufficiali parlano di 150 morti e di 300 feriti; i politraumi e la mancanza di antibiotici (…) avranno elevato la mortalità in modo gravissimo fra i feriti.

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