Esiste una specifica missione della donna?

di Francesco Lamendola

Michelangelo's_PietaEsiste una specifica missione della donna nella società e nel mondo? E, se sì, quale; e in che misura la si può pensare realizzabile nelle condizioni proprie della modernità?

Il fatto stesso che ci sia bisogno, oggi, di porre simili domande; e il fatto stesso che suscitino, per lo più, una sorta di divertito imbarazzo, come se si trattasse di questioni assolutamente anacronistiche ed incongrue, dimostra fino a che punto abbiamo smarrito la dimensione più profonda dell’essere e fino a che punto ci siamo persi nel deserto di un falso sapere.

Infatti, domandare se esista una specifica missione della donna equivale a porre sul tappeto, contemporaneamente, un duplice ordine di questioni: primo, se ciascun essere vivente possieda una sua propria missione, ovvero se ognuno viva esclusivamente per se stesso, nell’orizzonte dei propri desideri e delle proprie aspirazioni individuali; secondo, se esista una essenza profonda di genere, il maschile e il femminile, invece che una unità indifferenziata, in cui la specificità di genere si debba considerare come un prodotto culturale.

Il pensiero moderno risponderebbe negativamente ad entrambe le domande, se vi fosse qualcuno che le pone; ma ormai non le pone più nessuno o quasi, per cui ci si risparmia anche la fatica di provarne la fallacia: così come ormai nessun cosmografo si prenderebbe il disturbo di provare la fallacia del modello aristotelico e tolemaico dell’Universo.

La cultura moderna, infatti, risponderebbe che no, non esiste “missione” per alcuno, né individuale,  né collettiva; che ciascuno viene al mondo per caso e che risponde solo di se stesso, lotta solo per se stesso e per i suoi immediati interessi, e deve rendere conto solo e unicamente di se stesso. Non esiste più, infatti, una visione trascendente della vita, e tutto ciò che trascende l’aspetto esteriore ed immediato della vita stessa viene considerato ininfluente, se non addirittura inesistente. Meno ancora esiste una visione finalistica: il finalismo è considerato un approccio infantile alla realtà, da quando la scienza moderna lo ha escluso dal proprio orizzonte epistemologico.

Inoltre, non esiste più una visone olistica: si pensa che ciascun soggetto sia (per dirla con Leibniz) «una monade senza porte e senza finestre» e che la sua vita non sia intrecciata con quella di ogni altro vivente, ma solo con le poche persone con cui viene a contatto; ed anche ciò viene considerato in un’ottica sostanzialmente utilitaristica. Prevale, quindi, un rigoroso riduzionismo: la parte viene considerata prima del tutto, al di fuori del tutto e, in un certo, senso, al di sopra del tutto.

Sono i frutti del materialismo, che raccogliamo dopo quattro secoli di seminagione, ossia a partire dalla cosiddetta Rivoluzione scientifica del XVII secolo.

Inoltre, la cultura moderna risponderebbe che no, non esiste una essenza profonda della donna, così come non esiste una essenza profonda dell’uomo come maschio, e neanche dell’uomo inteso come essere umano in generale. L’uomo non è che una scimmia evoluta e un po’ meno pelosa dei suoi progenitori, dice l’evoluzionismo darwiniano; e le differenze psicologiche fra uomo e donna non sono che il portato di una secolare oppressione maschilista, dicono le femministe e legioni di sociologi politicamente corretti. Fine del discorso.

Non c’è da meravigliarsi se, con un bagaglio spirituale così misero e scadente, la cultura della modernità non offre che dubbi, incertezze, isterismi, nevrosi, crisi di panico e impulsi di autodistruzione: perché, per vivere con la schiena dritta e con lo sguardo rivolto in avanti, ma non troppo fisso a terra, bensì capace di levarsi a contemplare le altezze, è necessario che l’essere umano possieda un’alta opinione di se stesso, del suo destino, delle ragioni del suo esistere e del suo esserci: e ciò indipendentemente dalle sue evidenti debolezze, dalle sue fragilità e dai suoi molteplici e clamorosi errori.

Proviamo, dunque, ad andare controcorrente e a chiederci, restando imperturbabili e fingendo di non vedere i sorrisetti di commiserazione o di scherno di tanti sapientoni della cultura dominante del Pensiero Unico, se esista, dopotutto, una essenza specificamente femminile; e se, di conseguenza, si possa porre anche la questione di una specifica missione della donna nel mondo. Se non altro, sappiamo che uomini della statura intellettuale e morale di Dante lo credevano fermamente; e Dante, forse, era un po’ più intelligente di tanti Soloni della modernità, anche se debitamente progressisti e femministi.

Edith-Stein-1Così, per cominciare, proviamo a chiederlo ad una donna eccezionale, ad una delle menti filosofiche più acute del secolo appena trascorso: a quella Edith Stein (1891-1942) che, a un certo punto della sua vita, si convertì dal’ebraismo al cattolicesimo e fece la scelta radicale di entrare nell’ordine delle Carmelitane scalze, per poi finire la sua intensa e luminosissima esistenza nel campo di concentramento di Auschwitz.

Ella dedicò otto importanti saggi alla questione femminile, che vennero riuniti dall’editore tedesco in un volume apposito dell’Opera Omnia; tra essi ve n’è uno, intitolato «Vita muliebre e vita cristiana»,  nel quale si mette a fuoco la domanda che ci eravamo inizialmente posta, cioè se esista una specifica missione della donna, come conseguenza di una specifica essenza femminile. Ne riportiamo alcuni passaggi significativi per comprendere il pensiero dell’Autrice su tale argomento (da E. Stein, «La donna. Il suo compito secondo la natura e la grazia» (titolo originale: «Die Frau. Ihre Aufgabe nacht Natur und Gnade»; traduzione italiana di Ornella M. Nobile Ventura, Roma, Città Nuova Editrice, 1968):


«Lo sviluppo sociale che, previsto da alcuni, voluto e concretamente programmato da pochi, è arrivato addosso ai più senza che ne avessero la minima preparazione, ha strappato la donna dalla cerchia pacifica e beata della sua casa, e da quei compiti, da quel ritmo di vita che era diventato ovvio per lei; l’ha gettata in mezzo alle relazioni più eterogenee e svariate, l’ha posta all’improvviso di fronte a problemi pratici che non aveva mai sospettato. Siamo state buttate in acqua: dobbiamo nuotare. Ma se le forze minacciano di venirci meno, cerchiamo di aggrapparci alla riva, se non altro per un breve respiro. È vivo il bisogno di riflettere se si debba andare avanti o no; e, in caso affermativo, da che parte si debba cominciare per non venir travolte; si sente l’urgenza di calcolare attentamente la direzione della corrente e la forza delle onde, confrontandole con le nostre forze e la nostra possibilità di movimento. [pp.100-101]

Diventare ciò che si deve essere, far dispiegare e maturare nel modo migliore la propria umanità addormentata, con quella particolare impronta individuale che le è richiesta: farla maturare in quella unione di amore che solo può avvivare questo rigoglioso processo; e insieme eccitare e spingere gli altri alla perfezione e alla maturità. Questo è il bisogno più profondo della donna, bisogno che si manifesta sotto molti aspetti, anche nelle deviazioni e nelle degenerazioni; e ad esso corrisponde, come vedremo meglio in seguito, ciò cui la donna è chiamata per l’eternità. È un bisogno specificamente femminile, non è semplicemente umano; dobbiamo perciò metterlo in confronto con  tratti caratteristici del’uomo maschio. [pp. 108-09]

Mi pare che l’anima della donna viva e sia presente con maggiore intensità in tutte le parti del corpo e, di conseguenza, venga toccata più a fondo da ciò che interessa il corpo. Nell’uomo, invece, il corpo ha più chiaro il carattere di strumento:  serve a lui nel suo operare; fatto, questo, che comporta un certo distacco. Tutto ciò dipende certo dalla vocazione della donna alla maternità. Il compito di accogliere in sé un essere vivente in formazione, di proteggerlo ed allevarlo, esige una certa chiusura in se stessa; il misterioso processo di formazione di un nuovo essere nell’organismo materno è un’unità di corporeo e di spirituale è un’unità così intima, che si capisce bene come questa unità sia un elemento caratteristico di tutta la natura femminile. Ma ciò comporta un particolare pericolo. Perché fra anima e corpo viga l’ordine naturale (cioè l’ordine che corrisponde alla natura incorrotta) è necessario che al corpo venga dato il nutrimento, la cura, l’esercizio richiesti da una piena funzionalità dell’organismo Ma se gli si concede TROPPO – ed è proprio la sua NATURA CORROTTA che pretende il troppo – lo si fa a danno dell’anima, del suo essere spirituale; essa, invece di dominarlo e spiritualizzarlo, vi si sommerge; il corpo, da parte sua, viene così a perdere un po’ della sua caratteristica di corpo umano. Più intimo è il rapporto tra anima e corpo, più grande è il pericolo di questa sommersione (tuttavia più grande è anche la possibilità  che il corpo venga tutto compenetrato dall’anima).


Stein_La_donnaSe consideriamo il rapporto reciproco delle energie spirituali, notiamo che  esse si esigono a vicenda, e nessuna può esistere senza le altre. Una certa conoscenza intellettuale dell’oggetto è necessaria perché l’affettività entri in rapporto con esso e vi si sintonizzi profondamente; i movimenti dell’anima, poi, sono di stimolo alla volontà; d’altra parte è proprio della volontà regolare l’intelletto e la vita affettiva. Ciò dipende evidentemente dal suo orientamento verso l’essere personale. Sono infatti i movimenti e gli stati d’animo (Gemüt) che fanno scoprire all’anima (Seele) il proprio essere, ciò che è come è; con ciò essa afferra anche l’importanza dell’essere altrui per il proprio, come anche la qualità specifica – e il valore ivi connesso – delle cose che sono  al di fuori di lei, delle altre persone e delle realtà impersonali. L’organo che afferra l’essere nella sua completezza e nella sua particolarità è dunque nel centro dell’anima e condiziona il suo sforzo di spiegarsi verso il tutto, ed aiutare gli altri verso questo spiegamento; e ciò, lo abbiamo già provato, è caratteristico del’anima femminile. Perciò la donna è più protetta dell’uomo contro l’impiego e l’esplicazione unilaterali delle sue energie; d’altra parte è meno adatta ad una prestazione elevata in un particolare settore – perché questo comporta sempre la concentrazione unilaterale di tutte le sue energie spirituali – ed è particolarmente pericolosa: lo sviluppo eccessivo dell’affettività.

Abbiamo attribuito una particolare importanza all’animo (Gemüt) nella struttura essenziale dell’anima (Seele). Esso ha infatti una funzione conoscitiva essenziale: è il punto focale in cui il contatto con gli esseri si muta in atteggiamento e attività personali.  Ma non può certo adempiere questo compito senza  la cooperazione del’intelletto e della volontà. Senza il lavoro preparatorio dell’intelletto, l’animo non arriverebbe a conoscere; l’intelletto infatti è la luce che gli illumina la via,  senza la quale esso vaga qua e là; anzi, se esso viene a prevalere sull’intelletto, può offuscarne la luce e condurre alla distorsione dell’immagine sia di tutto il mondo come di singole cose e avvenimenti, inducendo la volontà ad una prassi errata. I suoi movimenti esigono il controllo dell’intelletto e la guida della volontà. Quest’ultima non ha il potere assoluto di eccitare o sopprimere i movimenti del’affettività, perché caratteristica della sua libertà è regolarli fin da loro sorgere: o lasciarli effondere o contrastarli. Ove manca la formazione dell’intelletto e l’educazione della volontà, la vita affettiva (Gemütsleben) viene ad essere un movimento senza direzione. E poiché le è necessario qualche eccitamento, se viene a mancarle  la guida delle potenze spirituali superiori,  cade sotto il dominio della sensibilità. E ciò comporta l’assorbimento della vita spirituale  nella semplice vita istintiva ed animale,  favorita dall’intimo legame tra anima e corpo.

Pertanto l’anima della donna potrà giungere a quella maturità che le è propria, solo se le sue energie vengono formate in modo adeguato. [pp. 110-112]»

Certo, questo linguaggio può apparire duro agli orecchi di quanti non sono disposti a riconoscere che esista un ordine superiore a quello della natura; che quest’ordine si possa definire, in rapporto a quello naturale, con il termine di “grazia”; che, senza la grazia, l’essere umano non sia capace di portare a termine la missione che gli è stata affidata.

Certo, questo è un linguaggio assai duro agli orecchi dei materialisti, dei razionalisti, degli scientisti, i quali oggi si sentono investiti di un’unica “missione”, quella di diffondere e preservare la sacre verità del Pensiero Unico imperante.

edith_steinAncora più duro da accettare è quel passo, da noi non riportato, in cui Edith Stein dice chiaro e tondo che, fondamentalmente, due sono le strade che portano la donna al compimento della propria vocazione: quella della maternità e della famiglia, e quella della consacrazione a Dio (non necessariamente con l’ingresso in un ordine religioso).

Tuttavia, al di là di tale conclusione pratica, resta la domanda: se gli esseri umani sono chiamati a realizzare in una struttura esistenziale le potenzialità della propria anima; e se tali potenzialità non sono identiche nell’uomo e nella donna (sia per il diverso rapporto fra anima e corpo esistente tra essi, specie in ragione della maternità, sia per la diversa “prevalenza” delle tre componenti essenziali: intelletto, affettività e volontà), non è forse vero che la donna dovrebbe puntare ad armonizzare nella propria anima le potenzialità che le sono state date, invece che inseguire – come oggi sta avvenendo – il modello maschile?

Dopo di che, si potrà criticare quanto si vuole sia il linguaggio neotomista della Stein, sia il dualismo implicito nella sua concezione antropologica, il quale, più che tomista, si direbbe cartesiano (il corpo di qua, l’anima di là; come se fosse possibile vederli in contrapposizione reciproca); ma è difficile non provare ammirazione per la solidità del suo modo di procedere e per la chiarezza esemplare del suo argomentare.

La sua analisi delle particolari caratteristiche dell’anima femminile ne evidenzia con raro acume psicologico le grandi potenzialità affettive, ma anche il pericolo di una chiusura nella sfera del materiale e quindi del finito: la sua vocazione alla maternità la porta a vedere nel rapporto con l’altro quasi unicamente l’aspetto personale e soggettivo, allontanandola da una dialettica più ampia e ponderata, più soggetta all’esercizio della volontà.

La sua distinzione, facilitata dalla particolare chiarezza della lingua tedesca, fra animo (Gemüt) ed anima (Seele), le consente di individuare e definire l’animo come il punto di contatto fra l’essere personale e il mondo esterno – persone, cose, situazioni – da cui scaturiscono concrete azioni e specifici atteggiamenti; l’animo, dunque, sarebbe la fucina in cui si modellano i processi evolutivi dell’anima, la struttura profonda e permanente dell’essere umano.

C’è molto su cui riflettere.

Si potrà dissentire da singoli aspetti del pensiero di Edith Stein o anche dalla sua impostazione generale, ma non si possono negarne la compattezza e la lucidità speculative. La sua idea della specifica della missione della donna costituisce un tutto organico con cui bisogna fare i conti, se si è intellettualmente onesti, anche qualora non ci si riconosca nel suo modo di ragionare, tipicamente teologico e spirituale.

C’è da chiedersi, dopo tante ubriacature femministe e pseudo femministe, se non sia giunto il tempo di un più equilibrato riesame dell’intera problematica relativa al ruolo della donna nella società e nel mondo; ma ciò non può essere fatto, a nostro avviso, se non si parte dalla domanda preliminare: esiste una specifica missione della donna? Il che, a sua volta, rinvia a quest’altra domanda: esiste una specifica missione dell’essere umano?

La filosofia di Edith Stein offre delle risposte precise a tali interrogativi.

unisexLa cultura del Pensiero Unico moderno non offre alcuna risposta, perché non tollera neppure le domande: esso dà per scontato l’esistente e cade nella sua idolatria; non serve chiedersi perché, basta studiare il come.

Ma che la donna, allontanandosi sempre più dalla sua missione e dalla sua stessa natura, stia perdendo se medesima, ci sembra sia ormai palese; e la stessa cosa si potrebbe dire per quanto riguarda l’uomo, inteso come maschio.

Oggi si esalta la confusione dei ruoli, come fosse una ricchezza; si blatera di bisessualità, come fosse la naturale vocazione dell’uomo e della donna; si sproloquia di intercambiabilità dei ruoli, giocando deliberatamente sulle ambiguità della lingua.

Quanta povertà speculativa; quanta insulsaggine filosofica; quanta miseria intellettuale.

Verrà il tempo in cui ci renderemo conto che il re è in mutande e che tutta la nostra cultura e la nostra vita spirituale necessitano di un bagno rigeneratore, accettando le sfide del presente, ma anche accogliendo rispettosamente ciò che è vivo della tradizione?

Fonte: “Il Corriere delle Regioni” (per gentile concessione dell’Autore)

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There are 3 comments for this article
  1. BENNATO BENNATI at 6:19 pm

    A proposito della ” Monade “di Leibniz , la confutazione della sua teoria che l’uomo sarebbe un tutto chiuso ed autosufficiente, è contenuta nel saggio del metafisico francese René Guénon intitolato ” I principi del Calcolo infinitesimale” pubblicato in traduzione italiana nella ” piccola biblioteca ” della Adelphi , che i lettori più avvertiti non dovrebbero mancare di leggere, senza farsi spaventare dal titolo , ché il ” calcolo infinitesimale” è solo un punto di partenza di un saggio dal contenuto eminentemente metafisico, illustrante l’assoluta insufficienza dell’immagine che noi abbiamo dell’uomo e più generalmente dell’essere individuale che erroneamente identifichiamo con l’individuo empirico, che è altro non è che un limitato aspetto manifestato dell’individuo vero, dalle possibilità in sé indefinite.

    • il discrimine Author at 12:00 pm

      A completamento dell’informazione, aggiungiamo che di questo studio esiste anche un’altra traduzione italiana (1990), delle edizioni Arktos di Carmagnola, dal titolo “La metafisica del numero. Principi del calcolo infinitesimale”, riproposta dalla stessa casa editrice nel 2006 col titolo lievemente modificato: “La metafisica del numero. Principi di calcolo infinitesimale”.

  2. TERENZIO BOLOGNESI at 1:33 pm

    Purtroppo ( almeno ) l’esemplare da me posseduto delle Edizioni Arktos non è esente da gravi imperfezioni di stampa ed anche quanto alla traduzione…mah che dire ( basti pensare all’intitolazione..) ?

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