Precisazioni sull’Islam

Siccome non ne posso più di sentire stupidaggini sull’Islam, ripropongo una breve intervista al sottoscritto, di ben diciotto anni fa, che credo possa essere d’una qualche utilità per chi ancora ha le idee molto confuse al riguardo. La inserii in «Islamofobia. Attori, tattiche, finalità», pubblicato nel 2008.
Per quanto riguarda il passaggio in cui parlo del turismo nei Paesi arabi ed islamici, nel 2005 non avevo ancora cominciato a curare dei viaggi in prima persona. Avevo solo svolto la funzione di accompagnatore per alcuni operatori turistici, nei quali la mia funzione era piuttosto marginale. E, soprattutto, non avevo alcuna voce in capitolo sulla ricerca dei partecipanti.
E.G.

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INTERVISTA SULL’ISLÂM (*)

D: Negli ultimi tre anni si è parlato continuamente di “mondo islamico”, tanto che nelle masse si è creata l’illusione di sapere molto, quasi tutto, su questa religione. Ad avviso di chi scrive, questo genere di conoscenza è ancora più pericolosa della totale ignoranza; ti chiedo perciò una cosa molto impegnativa: “Che cosa è l’Islàm”?

R: Già negli anni Novanta esisteva una discreta mole di pubblicistica divulgativa sull’Islâm, sollecitata dal fenomeno dell’immigrazione di aderenti a questa religione (che, cercherò di spiegarlo, è una completa visione del mondo). L’approccio, in quei testi, era generalmente molto rispettoso, talvolta addirittura lusinghiero. E questo, ricordiamolo, quando ad ogni buon analista appariva chiaro che con l’Occidente coalizzatosi nel 1990 contro il “cattivo” Saddam Hussein si preparava lo schema da “scontro di civiltà”. Ma ancora il lavoro dei vari “pensatoi” (i think tank…) non aveva scavato a fondo nelle coscienze, e l’islamofobia manifesta rimaneva un fatto di nicchia, appannaggio di coloro che l’hanno da sempre coltivata sognando le Crociate e Lepanto. Non era, insomma, un fenomeno di massa, anche se, ad onor del vero, “il Turco”, “il Saraceno”, “il Maomettano” sono incubi che abitano nel profondo della “psicologia collettiva” europea, in specie quella meridionale, e che perciò, facilmente, possono sempre essere riportati in superficie. Ad un livello, appunto, di “psicologia collettiva”, con l’11 settembre è stata effettuata un’operazione di riattivazione di questo “materiale psichico” sedimentatosi nel corso dei secoli (non solo a causa di pregiudizi, per carità, perché le scorrerie dei corsari barbareschi sulle coste italiane sono un fatto, anche se questo argomento è complesso e non c’è lo spazio per svilupparlo qui).
Questa premessa per dire che in tutto il parlare che dopo l’11 settembre occupa intere serate d’intrattenimento e nella valanga di instant book, opuscoli e dossier sull’Islâm nei quali si sono cimentati un po’ tutti spesso traspare l’intento (compiacendo i relativi committenti…) di nuocere all’Islâm e ai musulmani. Non si tratta ad ogni modo di un serio tentativo di conoscenza, ma, come di norma accade, di una scorciatoia per “farsi un’idea”. Ora, questo non è detto che porti inevitabilmente a risultati negativi: dipende sempre dall’intenzione che muove chi scrive e chi legge. Per di più, ovviamente, non possiamo conoscere tutto, e difatti non si conosce mai completamente niente di tutto ciò che appartiene al mondo fenomenico. Io stesso, all’inizio dei miei corsi all’Università, dico sempre “qui ci facciamo un’idea sull’Islâm”, e non “alla fine del corso conoscerete l’Islâm”. Siccome però mi chiedi “che cosa è l’Islâm”, ti risponderò partendo dall’etimologia. Le parole arabe hanno quasi sempre una radice triconsonantica che nel caso del termine “Islâm” è sîn-lâm-mîm (s-l-m), le cui forme verbali veicolano i seguenti significati: essere sano, in buona salute, consegnare, consegnarsi, arrendersi. Tra queste forme verbali, quella da cui deriva il nome “Islâm” è una di quelle che esprime un atteggiamento attivo, per cui, ricorrendo ad una perifrasi, si potrebbe definire l’Islâm un “consegnarsi volontariamente al volere divino (espresso a chiare lettere nel Corano)”. Spesso si leggono delle spiegazioni approssimative: “salâm” (pace) ha certo la stessa radice di “Islâm”, ma “Salâm” e “Islâm” non sono la stessa cosa, né ha senso dire che l’Islâm è “la religione della pace”. La Pace (con la P maiuscola) è una conseguenza dell’Islâm, e as-Salâm (“la Pace”) è uno dei 99 Nomi divini “più belli”. Per non parlare della “sottomissione (a Dio)”, che dà l’idea di un credente tiranneggiato da un dispotico Signore.
In estrema sintesi, è musulmano colui che riconosce l’Unità e l’Unicità di Dio (tawhîd) espresse nella shahâda, la testimonianza di fede che recita: “Non c’è divinità se non Iddio, e Muhammad è l’Inviato d’Iddio”. A questo punto, il credente (al-mu’min; Îmân = fede), colui che crede in Dio, nei Suoi Angeli, nei Suoi Libri, nei Suoi Inviati, nell’Ultimo Giorno (il “Giorno del Giudizio”), esprime il suo Islâm nella pratica dei cosiddetti cinque “pilastri dell’Islâm”, che sono, dopo la shahâda: la salât, la preghiera canonica rituale cinque volte al dì; la zakât, una vera e propria tassa esatta dallo Stato per conto della comunità secondo precise indicazioni a seconda dei beni (tipologia, minimo imponibile, aliquota) e ridistribuita a beneficio di precise categorie di aventi diritto; sawm Ramadân, ovvero l’astinenza (piuttosto che “digiuno”) durante il mese di Ramadân (il 9° del calendario lunare islamico), dall’alba al tramonto di ogni giorno; il hajj, il Pellegrinaggio alla Casa Santa (il “Centro del mondo”, il “santuario” di Mecca che contiene anche la Ka‘ba con la Pietra Nera) in precisi giorni dell’anno, almeno una volta nella vita.

D: Pensi che gli opinion makers abbiano in fin dei conti evidenziato cose giuste o pensi che abbiano solo fatto confusione?

R: Se si riflette sul significato di “opinion makers”, “fabbricanti di opinioni”, in pratica ci si è già dati una risposta. Questi personaggi, in numero tutto sommato esiguo, onnipresenti e presentati come degli autentici oracoli (anche grazie al fatto che li si sottrae ad ogni autentico contraddittorio), svolgono alla perfezione il compito cui sono stati delegati, ovvero la fornitura di un ‘corredo’ intellettuale, una sorta di sapere prêt à porter funzionale alle esigenze politiche dei loro committenti. Che difatti li pagano profumatamente… Non si tratta perciò d’interrogarsi in merito a quel che propongono di volta in volta ad un pubblico in massima parte sprovveduto e che li considera la necessaria ‘porta’ per ottenere delle informazioni sul mondo arabo-islamico. I loro argomenti alla fin fine ruotano sempre attorno ad un’unica esigenza: creare allarmismo attorno all’Islâm, ponendolo al centro della scena dicendo: “il problema, oggi, è l’Islâm”, quando invece gli italiani – e non solo – avrebbero ben altri bersagli cui indirizzare le loro preoccupazioni di carattere politico, sociale ed economico.

D: La conoscenza diretta del variegato mondo islamico è quasi interamente affidata ai canali del turismo di massa. Non credi che anche un genere di contatto simile non faccia altro che alimentare luoghi comuni e pregiudizi?

R: Il turismo di massa è una parodia dell’incontro tra culture e genti diverse. Per esperienza diretta, avendo avuto occasione di accompagnare dei gruppi di turisti nel Vicino Oriente, posso affermare che sebbene i partecipanti a questo tipo di viaggi siano generalmente discretamente motivati e posseggano un livello di “cultura” piuttosto elevato, queste fugaci esperienze in loco non li ‘vaccinano’ dal contagio da “scontro di civiltà”, magari a loro stessa insaputa. Mi spiego: avendo apprezzato il valore dell’arte islamica e la straordinaria profondità delle culture dei Paesi visitati, provano sincera indignazione alla notizia della distruzione di un importante museo sotto le bombe americane, ma si dimostrano completamente vulnerabili sul piano della propaganda di tipo politico essendo pronti a condannare qualsiasi resistenza armata all’invasore, come se questi popoli – i reali popoli arabi e islamici, e non quelli dei libri e dei musei – non fossero capaci di scegliere l’opzione politica che più si confà al loro sentire e alla loro cultura, e perciò degni di rispetto per le scelte che fanno in quello che ritengono essere il loro interesse.
Anche in questo si riflette una grave incapacità a concepire l’Altro da sé. Più di vent’anni fa Pascal Bruckner – di certo non un “progressista” – scriveva ne Il singhiozzo dell’uomo bianco che “l’indigeno è accettato solo se bisognoso (di carità missionaria) o rivoluzionario (marxista-leninista)”, e la situazione è senz’altro peggiorata perché ciò significava che almeno entro certi schemi gli si riconosceva il diritto di ribellarsi!
Il turista, sebbene armato delle migliori intenzioni, cerca inoltre una realtà contraffatta, imbevuta d’esotismo, nella quale il rapporto con la gente del posto si limita ad una serie ritualizzata di situazioni-tipo, qual è ad esempio la tipica scorribanda in un sûq. Oppure, che dire di quell’autentica “barbarie del comfort” che caratterizza questi costosissimi viaggi? Il turista mangia razioni doppie o triple di cibo rispetto alle gente del posto, vive in ambienti dove si pulisce sul pulito, è causa – con la complicità di affaristi locali legati a catene multinazionali – dello scempio di molti paradisi naturali. Per di più, agli occhi dei locali, tutto questo sfarzo alimenta il pregiudizio per cui noi “occidentali” siamo tutti dei piccoli Paperon de’ Paperoni, con buona pace dei bei discorsi sulla comprensione reciproca di cui s’ammanta l’industria turistica… .

D: È innegabile che nella religione musulmana si sia innestata una componente guerresca. Non sto a sindacare se questa componente sia comprensibile o meno, tuttavia mi chiedevo se tali caratteristiche non siano un prodotto di una certa “colonizzazione di ritorno”. Quale che sia il nostro giudizio su Bin Laden, non pensi che sia difficile ritrovare in lui un reale atto di rivolta, vista la sua profonda appartenenza ai miti dell’Occidente?

R: L’Islâm parte da una base realistica, e non descrive il mondo così come ci piacerebbe che fosse, con gli agnellini accarezzati da belve feroci, tipo l’iconografia di certe chiese statunitensi. La vita contempla anche il combattimento, la lotta, e chiunque lo sperimenta ogni giorno. La guerra fa parte della vita degli uomini e delle comunità. Ma l’importante è stabilire delle regole che assicurino il rispetto di alcune garanzie fondamentali e, soprattutto, contribuiscano a ristabilire al più presto le condizioni per una pace con giustizia e quindi duratura .
Dunque, per evitare fraintendimenti, bisogna spiegare che cosa è il jihâd, nel 99% dei casi tradotto con “guerra santa” senza aggiungere altro, senz’altro in malafede quando si tratta di inviati che da anni stanno al Cairo o a Gerusalemme (senza sapere l’arabo!). Di nuovo, dobbiamo rivolgerci all’etimologia. La radice triconsonantica jîm-hâ’-dâl (j-h-d) veicola i significati di “sforzo”, “impegno”, “assiduità”, “applicazione con zelo”. La forma verbale jâhada significa “combattere qn.”, ma al-jihâd fî sabîl Allâh è “il combattimento sulla Via di Dio”, un “sacro sforzo” per avvicinarsi a Lui. Qui l’Islâm distingue due tipi di jihâd: il “grande jihâd”, che è quello contro le proprie passioni, contro l’anima concupiscente dispersa nella molteplicità, ed un “piccolo jihâd”, quello da svolgere con le armi in difesa della comunità. Quest’ultimo, come è scritto nel Corano, non ha niente a che vedere con la guerra indiscriminata o “totale” moderna, dove le prime vittime sono le popolazioni civili proprio perché non esiste più la distinzione tra militari e non, essendoci un solo soggetto che svolge operazioni di “polizia internazionale” a caccia di ‘fuorilegge’ (e i popoli lo sono nella misura in cui sostengono i “dittatori”: per questo c’è l’embargo…), come nella migliore tradizione western. Tutto nel jihâd è sottoposto a regolamentazione: dal trattamento del prigioniero, alla spartizione del bottino eventualmente preso al nemico. Ma, ribadisco, il jihâd interiore deve prevalere su quello esteriore, anche mentre si svolge quest’ultimo, il che – s’intuisce – preserva il combattente dal commettere inutili efferatezze.
Purtroppo – e qui è evidente un processo degenerativo influenzato dall’importazione di una prassi politica non islamica – molti movimenti islamisti (lo studioso, invece, è un “islamologo”) assolutizzano il concetto di “piccolo jihâd” e ne fanno il jihâd tout court: in ciò sono assimilabili ai gruppi rivoluzionari laici, con l’unica differenza che cercano una legittimazione di tipo religioso. Detto questo, non vuol dire che i vari Bin Laden s’inventino dei problemi dal nulla: è semmai il tipo di risposta che danno che andrebbe sostituita con altre più genuinamente islamiche, ma non certo far finta che tutto vada bene e limitarsi a conformistiche e rituali pubbliche condanne, comprese quelle di “musulmani moderati” talvolta davvero patetici nel loro goffo tentativo d’ingraziarsi i nemici dell’Islâm. Già che ci sono, “musulmano moderato” non significa niente, se non “musulmano funzionale”, poiché l’Islâm ricerca sempre la moderazione, la “via mediana”, rifuggendo le esagerazioni.

D: Quello che sta accadendo è da molti considerato uno “scontro di civiltà”. A mio avviso questa è una idea perniciosa, ma quello che desideravo comprendere è se ritieni che categorie risorgimentali come i concetti di “destra” e “sinistra” siano in qualche modo utili per districarsi nei conflitti in atto.

R: Onestamente, devo ammettere di non aver ancora capito cosa sia questo famoso “scontro di civiltà”. La questione è stata posta all’ordine del giorno per il tramite di un superpagato “analista” solo perché l’Occidente (e quando scrivo “Occidente” parlo dell’azione solidale di tre gruppi: l’élite WASP anglo-americana a capo delle grandi multinazionali, una componente ebraico-sionista che controlla la cultura e i media ed ha forti influenze in campo finanziario, la componente clerico-massonica – forte sia in Europa che in Sud America – che mediante l’Opus Dei ha messo il suo universalismo al servizio del progetto mondialista) nel progetto di espansione planetaria del suo dominio si trova tra i piedi l’Islâm, sia dal punto di vista ‘ideologico’ (e qui il discorso si amplierebbe a considerazioni su quella che Guénon indicava come la “contro-iniziazione”) sia da quello geopolitico . In tutto questo, i popoli europei (ed alcuni loro esponenti politici), che sono i naturali vicini di casa dei popoli arabo-islamici, vengono allarmati, ricattati, abbindolati con questa favola dello “scontro di civiltà”, la cui presa è facilitata dall’aumentato afflusso d’immigrati di religione islamica, che pone inevitabilmente dei problemi (ma va osservato che i problemi li pone un’immigrazione eccessiva, e non una “immigrazione islamica”). Per di più, lo “scontro di civiltà” non descrive una situazione di fatto, oggettiva, ma solo uno stato di tensione indotto permanentemente finché farà comodo, poiché chiunque recandosi in un paese arabo-islamico può constatare come i popoli che li abitano, in specie quelli vicino-orientali, siano tra le persone più aperte e cordiali del mondo, né è sostenibile che un qualsivoglia paese arabo-islamico intenda conquistarci o sottometterci. Sfido chiunque a provare con argomenti razionali che è il mondo arabo-islamico a voler sottomettere l’Occidente – nel quale, ripeto, l’Europa sta a far da comparsa – e non, come sta avvenendo, il contrario.
Detto questo, va da sé che “destra” e “sinistra” non offrono alcuno strumento utile per orientarsi nella situazione attuale. Basti osservare l’indecoroso atteggiamento di entrambi gli schieramenti-fotocopia: quando uno grida “guerra”, l’altro risponde “pace”, ma se il primo ha un ripensamento, il secondo non lo asseconda come ci sarebbe da aspettarsi: si arrampica sugli specchi pur di fare il bastian contrario. Probabilmente i tifosi calcistici sono più obiettivi! A parte gli scherzi, come avviene negli Usa – e spiega magistralmente John Kleeves -, la “destra” è il capitalismo arrivato, soddisfatto, la “sinistra” quello insoddisfatto, che rappresenta i ceti emergenti , ragion per cui il “lavoro sporco” – qual è stato ad esempio l’attacco a Belgrado del 1999 – lo compie la “sinistra”, ed il “popolo” – che in pratica non c’è più, ma esiste, come scrive Costanzo Preve, una “classe media globale” – è così disposto ad accettare quel che mai accetterebbe se promosso dalla “destra”. Se nel 2003 si sono viste milioni di persone nelle strade per manifestare il loro dissenso (col riflusso attuale che la dice lunga sulla solidità delle loro posizioni, vagamente “pacifiste” ma refrattarie a riconoscere che resistere ad un’aggressione è giusto e sacrosanto), nel 1999, quando la guerra venne portata in Europa con la sinistra al governo, furono veramente pochi quelli che manifestarono contro quella guerra.

D: Una domanda più metafisica: da studioso immagino che proverai una forte fascinazione per il portato religioso musulmano.

R: Naturalmente, altrimenti sarei certamente passato ad altro. In effetti, non capisco come si possa dedicare una vita di studio a qualcosa che si detesta o, nel migliore dei casi, ci rimane indifferente. Il mio accostamento allo studio di quella che potremmo definire una “visione del mondo direttamente dettata da Dio” va di pari passo con l’approfondimento della conoscenza della lingua araba, lingua nella quale, lo ricordo, è scritto il Corano – da Qur’ân, “recitazione (salmodiata)” – essendo stata la lingua della Rivelazione. È perciò una lingua sacra, che ha inoltre la peculiarità d’essere una lingua viva, parlata in una ventina di Stati e ovunque si trovano comunità d’emigrati arabofoni.

D: Quale corrente dell’Islam ti affascina di più? Quale è il tuo giudizio sul Sufismo?

R: La corrente alla quale più mi sento vicino è quella sunnita “ortodossa”, quella mediana sistematizzata da al-Ghazâlî definita della ahl as-sunna [l’insieme delle tradizioni profetiche] wa l-jamâ‘a (“la gente della sunna e della comunità”), con ciò stabilendo che l’autorità risiede nell’interpretazione comunitaria dei dati della Rivelazione con l’ausilio dei dotti versati nelle scienze religiose (coloro che compiono l’ijtihâd, dalla stessa radice di jihâd), e non in qualche personaggio carismatico magari dotato di chissà quali poteri… In questo modo, l’unità della comunità è salva, e si evita il frazionamento in mille sette, tanto più ingiustificate se si pensa che nell’Islâm si ripete sovente che fî l-ikhtilâf rahma (“nella differenza c’è una misericordia”). Il sufismo (at-tasawwuf), non è invece una “corrente” dell’Islâm, ma ne costituisce piuttosto l’essenza, il nocciolo, la via lungo la quale ci si può incamminare per raggiungere, grazie ad un’iniziazione, una dottrina e un metodo sotto la guida di un maestro (shaykh) di una tarîqa (lett. “via”, tradotto spesso con “confraternita”) ortodossa, un grado di conoscenza più intimo della Rivelazione della cui luce comunque il credente partecipa attenendosi alla pratica dei cinque pilastri summenzionati e all’osservanza della sunna del Profeta. Difatti, dev’essere chiaro che non è pensabile seguire il Sufismo e non essere musulmani, poiché il Sufismo è l’approfondimento della “testimonianza di fede” (“Non c’è divinità se non Iddio, e Muhammad è l’Inviato d’Iddio”), per estinguere il sé individuale ed identificarsi col Sé universale. In pratica il sufi per questo mondo è già morto, sebbene sia ancora in vita, non avendo altra preoccupazione che la contemplazione e la glorificazione di Dio, il cui nome (Allâh) ricorda incessantemente col dhikr (“menzione”). In una pubblicazione islamica integralista-modernista (i due punti di vista sono apparentemente antitetici) ho letto una volta che “il sufismo non è Islâm”: si deve invece affermare che il Sufismo ortodosso, quello cioè trasmesso attraverso catene iniziatiche ininterrotte che partono dal Profeta, e che conta ancora numerosi aderenti in tutto il mondo islamico alla ricerca di un sincero percorso di rigenerazione spirituale, è non solo genuinamente islamico, ma è il miglior antidoto contro qualsiasi forma d’estremismo.

(*) Intervista a cura di Antonello Cresti, pubblicata col titolo «Che cosa è l’Islam? Discutiamone con Enrico Galoppini», “Guide Controcultura di Supereva”, 5 aprile 2005. Ripubblicato su “Eurasia-rivista.org”, 8 aprile 2005; “Aljazira.it”, 10 aprile 2005; “Italicum”, marzo-aprile 2005.

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