L’arma più forte / 3 – Squadrone bianco e la (ri)conquista della Libia

di Giovanni Di Martino

Omar_Mukhtar_arrested_by_Italian_Officials

Omar al-Mukhtar, catturato, mostrato come un trofeo dagli italiani

Il cinema è l’arma più forte perché ha il potere, a volte, di anticipare la storia. Le commedie all’italiana di Risi e Monicelli, per esempio, descrivendo la vera natura degli italiani, ne anticipano di molti decenni le vicende.

L’atteggiamento italiano su Omar al Mukhtar, uno dei capi della resistenza patriottica libica degli anni Venti, ha in questi mesi un epilogo degno dei personaggi interpretati da Sordi, Gassman o Tognazzi nel film I nuovi mostri. E per affrontare degnamente il bellissimo film di propaganda fascista Lo squadrone bianco, occorre ripassare la storia degli italiani in Libia, anzi, magari studiarla da capo, visto che né prima né dopo la guerra nessuno ci ha mai raccontato tutta la verità.

Nessuno in Italia sa chi sia stato Omar al Mukhtar. Il suo nome non figura sui manuali di storia delle scuole medie inferiori e dei licei, e dubito che figuri anche su quelli universitari, ma non avendo mai frequentato corsi universitari di storia contemporanea, non potrei giurarlo. Non figura perché poco si dice pure della guerra che lo vede coinvolto come capo dei combattenti libici contro gli italiani, nella così detta riconquista della Libia, una guerra che è durata quasi dieci anni e della quale la manualistica scolastica corrotta italiana quasi non fa menzione. Una vicenda strana, ma fino ad un certo punto. Perché di Libia si parla molto poco e quasi con fastidio.

Omar al Mukhtar è uno degli ultimi capi libici a capitolare a Badoglio e Graziani, viene impiccato nel 1931 e con la sua morte, essendo egli molto rappresentativo, il capitolo “pacificazione” della quarta sponda può dirsi concluso. Ma nessuno lo sa. Le stesse memorie definitive di Rodolfo Graziani lo nominano due volte e senza ben far comprendere il suo ruolo. Eppure Graziani ha faticato non poco a rincorrerlo, costruire la rete per catturarlo, isolarlo ed infine farlo cadere nella rete. Ma nelle sue memorie non dedica alla vicenda che poche pagine, e lo fa a ragion veduta. L’ultrasessantenne maresciallo ormai senza armate scrive infatti quelle memorie dopo il 1945, quando è sotto processo per crimini di guerra, commessi durante un’altra guerra coloniale, quella per la conquista dell’Etiopia.

Badoglio e Graziani nel 1935, in Africa Orientale

Badoglio e Graziani nel 1935, in Africa Orientale

Perché in Italia, proprio come nei film di Alberto Sordi, le cose vanno in questo modo. Badoglio e Graziani (i due mali militari del Fascismo, secondo le parole di Mussolini) conquistano la Libia e poi vengono trasferiti a conquistare l’Etiopia. Poi, dopo la Seconda Guerra Mondiale, al primo intitolano un insignificante paese dell’astigiano, mentre il secondo viene processato per i massacri, ma stranamente solo per i massacri in Etiopia (dove Graziani combatte e governa dal 1935 al 1937). Della Libia (dove Graziani combatte dal 1920 al 1934) nessuno parla. È normale quindi che Graziani dedichi il grosso delle pagine di quel memoriale conclusivo a ciò da cui deve difendersi.

Sulla Libia cala il silenzio e Graziani passa alla storia come il massacratore degli abissini. L’Italia del dopoguerra passa attraverso infiniti pentimenti di massa per tutti i crimini del Fascismo, risarcendo  alcuni Stati, scusandosi a più riprese con altri e così via. Ma sulla quarta sponda tutto tace. Si fanno pure film come Novecento, in cui la divisione tra il bene e il male è nettissima, oltre che infantile, e il male è un fascista cattivo senza speranza, interpretato dal bravissimo Donald Sutherland. Ma cinque anni dopo si vieta la distribuzione proprio del film su Omar al Muktar (Il leone del deserto, con Oliver Reed nel ruolo di Graziani), ufficialmente perché lesivo dell’onore delle forze armate (sic), in realtà perché in parte finanziato da Gheddafi, il presidente libico che dieci anni prima ha cacciato gli italiani (e i loro interessi) dalla quarta sponda. E in effetti il film ha un che di propagandistico, ma la censura italiana, abbattutasi sul film all’inizio degli anni Ottanta, non ha comunque alcun senso.

E siamo all’epilogo, in pieno stile I nuovi mostri. Gheddafi viene in visita ufficiale in Italia nel 2009. Malgrado la cacciata degli italiani (in certi casi con le cattive, e questo va ricordato, perché il negus d’Etiopia tornato al potere fu invece molto più sensibile verso i coloni ed esortò il proprio popolo a non comportarsi male con gli italiani che pure lo avevano detronizzato), gli aerei militari sul nostro cielo, e i missili arenati di Lampedusa, il colonnello libico ha continuato nel tempo ad avere rapporti con l’Italia in vari settori, dal calcio alla Fiat, passando per l’architettura. Il momento è delicato, e malgrado alcuni suoi discorsi (interessanti ed occultati dai giornalisti) abbiano fatto storcere il naso alle autorità politiche, in qualche modo bisogna trattarlo da ospite ufficiale, e non dispiacergli troppo, perché la posta in gioco è alta.

Una pagliacciata che valeva bene un Trattato di Amicizia che i nostri "alleati" non gradirono...

Una pagliacciata che valeva bene un Trattato di Amicizia che i nostri “alleati” non gradirono…

Gheddafi porta attaccata al bavero della divisa la foto di Omar al Mukhtar, e si fa accompagnare da suo figlio. Farlo parlare della vicenda sembra il prezzo minore da pagare. In fin dei conti è giusto così: se per gli italiani degli anni Venti Omar al Mukhtar è un ribelle, è giusto che per il Libici sia un patriota. Come Pietro Micca, che i piemontesi considerano un eroe, mentre per i francesi è un terrorista. E qui scatta lo scioglimento della vicenda… quale migliore modo di compiacere Gheddafi se non quello di colpirlo emotivamente?

L’Italia inizia a proiettare Il leone del deserto, ma casomai Gheddafi non abbia Sky nella tenda militare in cui vive, si fa di più: si iniziano a proiettare sulle reti Rai i soliti noiosissimi documentari didascalici sul Fascismo, ma questa volta, udite udite, si parla della riconquista della Libia e dell’impiccagione di Omar al Mukhtar. La Rai rincara la dose sulle frequenze digitali, proiettando anche documentari a getto continuo con stralci de Il leone del deserto. Il livello delle informazioni diffuse sulla vicenda non va oltre una ricerchina su wilkipedia, e le cifre dei libici massacrati sono pure troppo alte, ma tanto a questo punto a chi importa? Lo scopo non è mica quello di far sapere la verità, bisogna dare a Gheddafi il contentino che gli occorre.

E il risultato è grottesco: si poteva approfittare dell’occasione revisionista per diffondere la verità sugli italiani in Libia, ma si è preferita una soluzione da I nuovi mostri: i crimini del Fascismo già ve li avevamo descritti, ce n’eravamo dimenticato uno, hanno ammazzato Omar al Muktar, ora siamo a posto, tanti saluti.

guerra-italo-turcaTanti saluti un corno, la verità è questa: gli italiani mettono le tende in Libia nel 1911, aggredendo il malato Impero Ottomano: al di là delle lodi del Pascoli, sotto ci sono gli interessi del Banco di Roma (e della famiglia Pacelli), e per questo pure Mussolini, allora socialista, è contrario. Dopo la Grande Guerra, l’Italia, non essendo riuscita a partecipare alla spartizione dell’Impero Ottomano, ripiega su una riconquista della Libia (della quale controllava solo le coste). La riconquista è un’impresa coloniale tipo Far West, dunque molto lunga, perché chi combatte in casa è difficile da battere (italiani a parte, ma questa è un’altra storia), e dura dal 1920-21 al 1934. La resistenza che i libici oppongono è legittima e patriottica e i discorsi sul “portavamo la civiltà” non reggono (anche perché l’Italietta dei Savoia con i suoi sessant’anni di storia aveva poco da insegnare a civiltà millenarie e ad un impero multinazionale durato per secoli, del quale la Libia aveva fatto parte). Omar al Mukhtar non è il capo assoluto della resistenza libica, ma comunque uno dei capi più rappresentativi, oltre che il più difficile da catturare (tipo il generale Bergonzoli con gli inglesi durante la disfatta italiana in Libia del 1940-41, guidata proprio da Graziani). Nel decennio successivo alla riconquista gli italiani impostano un colonialismo molto moderno e rispettoso degli autoctoni (con assegnazioni delle terre ai libici oltre che ai coloni, ricostruzione delle moschee distrutte da Graziani, costruzione di infrastrutture, abolizione di fatto delle leggi razziali e della segregazione – seppure solo nelle città costiere – e addirittura la proposta, rifiutata da Roma, di fare sedere rappresentanti arabi a Montecitorio).

Il palazzo del Governatore della Libia, Italo Balbo

Il palazzo del Governatore della Libia, Italo Balbo

La verità è che gli italiani hanno avuto interessi, intrallazzi e potere in Libia dal 1911 fino alla fine degli anni Sessanta, e il Fascismo si inserisce in questa vicenda solo incidentalmente, in quanto al governo dell’Italia dal 1922 al 1943. Il Fascismo è responsabile solo per caso dell’impiccagione di Omar al Mukhtar, perché ha ereditato e portato a termine la guerra di riconquista iniziata prima della propria ascesa al potere. E illuminanti sono a questo proposito proprio le parole utilizzate da Graziani, che si difende dalle accuse di essere fascista spiegando come lui fosse in Libia da prima della marcia su Roma, e quindi non si sentisse fascista, ma servitore del governo italiano, liberale quando era liberale, fascista quando era fascista. Né ricadono necessariamente sul Fascismo i meriti della gestione della Libia per il periodo 1934–1942: l’eccessivo rispetto per gli autoctoni non trova fondamento in alcun postulato fascista, quanto invece nell’azione del despota illuminato Italo Balbo, e nella sua tendenza a voler fare il contrario di tutto quello che Mussolini fa a Roma (la proposta di fare sedere anche gli arabi Montecitorio viene fatta subito dopo l’emanazione delle leggi razziali antiebraiche). E così via. Censurando la vicenda di Omar al Mukhtar, l’Italia ha censurato sessant’anni di colonialismo, misto a intrallazzi di ogni tipo. Parlandone ossessivamente e facendo rientrare il tutto nella prassi dei crimini fascisti, l’Italia sta mentendo a se stessa, raccontandosi la storiella degli Italiani brava gente per l’ennesima volta.

Paradossalmente, invece, durante il Fascismo tutto questo oscurantismo verso la vicenda libica non c’è, tant’è che a Graziani viene fatto pubblicare più di un diario di guerra sulla riconquista, scritti con dovizia di particolari. Per celebrare la vicenda viene anche commissionato un film di propaganda. Si chiamerà Lo squadrone bianco ed uscirà nel 1936 (ispirato ad un romanzo di  Joseph Peyrè), diretto da Augusto Genina ed interpretato dagli esordienti Antonio Centa e Fosco Giachetti, uno degli eroi cinematografici dal Fascismo (assieme ad Amedeo Nazzari). Malgrado le autorità committenti non siano così soddisfatte del prodotto, il film è uno dei migliori del cinema italiano degli anni trenta, per tecnica e storia.

squadrone_biancoInizia come un legion movie hollywoodiano, con una donna da dimenticare per la quale si va a combattere in Libia, e affronta con grande piglio di regia tutti i cliché del genere, l’ufficiale severo ma in fondo paterno che muore in battaglia, le scene di guerra (girate realmente in Africa e con tecniche – e soprattutto risultati – spettacolari per quei tempi) e un retorico finale in cui l’esperienza di guerra ha fatto maturare il protagonista, che sceglie il proprio dovere alla donna da dimenticare.

La regia di Genina, influenzata dagli stilemi francesi del tempo, è innovatrice nella tecnica ed equilibratissima nel contenuto, mischiando telefoni bianchi, propaganda di regime (il film viene prevedibilmente pluripremiato), mito della legione straniera, e drammaticità della maturazione del protagonista, che in definitiva sceglie come compagna l’Africa ed il deserto.

Due curiosità finali: Cesare Polacco, futuro commissario degli spot della brillantina Linetti, interpreta, per la sua fisionomia, per la prima volta un arabo. La seconda volta lo farà in Totò sceicco, quattordici anni dopo. Uno degli aiuti registi è il giovane Mario Monicelli, alla sua seconda esperienza ufficiale. Monicelli vince un premio per un filmetto amatoriale e ricorda che il bello di quei tempi è che oltre agli animali (leoni, orsi etc.) si vinceva anche l’opportunità di lavorare su un set, magari anche solo portando i cappuccini, ma era l’inizio di una gavetta che gradino dopo gradino ha formato i maggiori cineasti italiani. Nel 2005 il novantenne lucidissimo decano del cinema italiano è tornato proprio nel deserto per girare il suo (fino ad ora) ultimo film.

(pubblicato su IL FONDO, numero 62, del 10 agosto 2009)

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