L’arma più forte / 4 – Vecchia guardia
di Giovanni Di Martino
Il film Vecchia guardia, del 1934, è riuscito nell’impossibile intento di scontentare tutti, e nel contempo di accontentare tutti. Ha scontentato i fascisti cinefili che lo hanno commissionato (soprattutto Luigi Freddi ed Asvero Gravelli) perché costituisce una pura esaltazione dello squadrismo (oltre che evidente, anche dichiarata da una scritta in sovrimpressione all’inizio) diffusa in tempi in cui il regime ha ordinato o sta ordinando tutti gli aspetti della politica e della vita, e il ricordo del sovversivismo dei primi tempi stona non poco. Anche i cinegiornali che negli anni Trenta commemorano la Marcia su Roma tendono a dare una versione costituzionale della presa del potere, esaltando il rifiuto di Vittorio Emanuele di firmare il decreto di stato d’assedio che avrebbe messo l’esercito contro le squadre. E tale spiegazione di comodo trova qualche appiglio nella delusione per i mancati scontri descritta nelle memorie di più di uno squadrista.
Ha scontentato e scontenta la critica antifascista, che, volente o nolente, deve ammettere che Alessandro Blasetti, uno dei più autorevoli registi italiani, ha aderito mani e piedi (firmando un film così) al regime, e circostanze di questo tipo tendono a minare la vulgata secondo cui i fascisti sarebbero stati un gruppetto di alieni che per vent’anni hanno soggiogato il Belpaese, prima di una rovinosa ritirata sui loro pianeti.
Ha infine accontentato i critici, fascisti ed antifascisti, per la tecnica narrativa utilizzata, la fotografia avanti anni luce rispetto ai prodotti del tempo, e la bravura degli attori, che sono (e sono rimasti) per lo più sconosciuti, fatta eccezione per il giovanissimo Andrea Checchi e Memmo Carotenuto (che si intravede in una rissa), ma che sembrano navigati professionisti. Oltre a ciò ci sono diverse caratterizzazioni ben fatte che anticipano alcune figure della maturità del cinema italiano, come il fascista grasso che mangia sempre, interpretato da Ugo Cesari, o il pazzo Tralicò fuggito dal manicomio, interpretato da Umberto Sacripante.
La pellicola, piaciuta agli italiani e a Mussolini, ma rimasta misteriosamente pochissimo nelle sale cinematografiche, descrive uno spaccato provinciale alla vigilia della marcia su Roma, con una famiglia in cui il padre dirige un manicomio paralizzato dagli scioperi degli infermieri comunisti; un figlio maggiore, che ha fatto la guerra, ed aderisce entusiasticamente al fascismo; e un figlio minore che vorrebbe seguire gli squadristi, e proprio intrufolandosi in un autocarro durante un’azione viene ferito ed ucciso.
Il film descrive un’Italia prefascista paralizzata dagli scioperi, nella quale nulla funziona (oltre al manicomio viene picchettata la scuola del paese) e sulla quale arriva l’effetto della marcia su Roma, vista come una grande narrazione salvifica. Ultradidascalico e leggero nello schematismo, ma al contempo narrato in modo sopraffino. Scene di scontri di piazza, manganelli sempre presenti, ed addirittura una somministrazione di olio di ricino (probabilmente quello di cui la censura degli anni Trenta avrebbe fatto a meno), come sfondo della vicenda familiare del piccolo Mario e della sua tragica fine.
Ad inizio e a fine film si sentono, in sottofondo le parole della canzone “Hanno ammazzato Giovanni Berta”, il martire fascista toscano, che però, dalle poche notizie certe che si hanno, ha già quasi trent’anni quando viene ucciso, e dunque mal si concilia con la figura del giovane protagonista del film.
(pubblicato su IL FONDO, numero 65, del 7 settembre 2009)