La guerra degli hacker: a Washington e a Roma
di Michele Rallo
Cambio della guardia alla Casa Bianca. Anche se il clima negli States sembra più quello di una guerra civile strisciante. Tanti gli episodi: non soltanto gli ultimi lampi di guerra del più immeritato Premio Nobel per la Pace che la storia ricordi; ma anche il ridicolo boicottaggio canoro dell’insediamento di Trump, decretato dalla cupola del mondo dello spettacolo statunitense, notamente impegnata a sinistra, come tutti i miliardari che si rispettino; ed anche, probabilmente, la multa miliardaria alla Fiat-Chrysler, giunta all’indomani della dichiarazione di Marchionne di sostanziale sostegno alle misure protezionistiche annunziate dal nuovo Presidente.
Ma il piatto forte di quest’ultima tragicommedia a stelle e strisce resta innegabilmente il polverone alzato dallo sfigatissimo (e portatore di sfiga) Barack Obama sul tema degli hacker. Gli hacker – secondo la definizione che ne dà Wikipedia – sono «esperti di sistemi informatici in grado di introdursi in reti informatiche protette (…) per poi essere in grado di accedervi o adattarle alle proprie esigenze». Ovvero – mi permetto di semplificare – degli spioni elettronici.
Anche quella degli hacker – come tanti dei malanni della nostra società – è un’invenzione americana. Dapprincipio, negli anni ’60 del secolo scorso, l’attività di hacking fu poco più di un gioco: vi si dedicavano alcuni geniali studenti universitari nel campus del MIT, il celebre Massachusetts Institute of Technology, per violare, per hackerare i rudimentali sistemi di protezione dei primi mastodontici “cervelli elettronici”.
Ma il progresso – si sa – viaggia a passo veloce: ben presto i computer iniziarono a diffondersi a macchia d’olio, e le loro enormi capacità di elaborazione e catalogazione spinsero non soltanto le industrie di tutto il mondo, ma anche le istituzioni politiche, economiche, militari a farvi ricorso massicciamente, fino alla trasformazione di ogni supporto cartaceo in dati digitalizzati. E non era tutto, perché quegli stessi vertici istituzionali non sapevano resistere ad un’altra tentacolare tentazione, quella offerta da internet, dalla possibilità di collegarsi ad una “rete” che metteva in contatto i loro apparati informatici con quelli dell’intero globo, dando modo di accedere all’universo delle informazioni senza confini.
Era a quel punto che i tanti servizi segreti statunitensi (soltanto quelli ufficiali sono una ventina) iniziavano ad interessarsi seriamente alla cosa, arruolando gli hacker più capaci ed impegnandoli nella attività di spionaggio e controspionaggio, sia all’interno che all’estero. Non svelo certo un segreto dicendo che i servizi americani hanno iniziato ad hackerare regolarmente apparati informatici in paesi stranieri, parallelamente ad altre attività di spionaggio elettronico, con intercettazioni ambientali e telefoniche oramai giunte a livelli tecnologici impensabili fino a pochi anni prima.
La CIA, in particolare, prendeva ad hackerare e ad intercettare un po’ tutti, violando comunicazioni, archivi, apparati di paesi amici e nemici. Anche le conversazioni (e talora la vita privata) di capi di stato e di governo venivano impudentemente violate, ascoltate, registrate, analizzate con un cinismo assoluto. E se qualche volta gli spioni erano pescati con le mani nel sacco (come recentemente avvenuto con le intercettazioni alla Cancelliera dell’alleata Germania) si rimediava con scuse di prammatica e solenni promesse di non farlo più, cui nessuno credeva.
Naturalmente, pure gli altri paesi (Russia compresa, bella scoperta!) hanno iniziato a fare altrettanto, anche se non hanno certo raggiunto le vette di perfezione dello spionaggio elettronico statunitense. A quale scopo? Per cercare di acquisire dati e informazioni che consentissero di proteggere i propri interessi e, se possibile, anche di influire sui comportamenti degli altri paesi, a prescindere dal fatto che si trattasse di amici, di nemici o di non schierati.
Orbene, se questo è il quadro di riferimento – e sfido chiunque a dimostrare il contrario – quando Obama, per ostacolare il suo successore, dice che la Russia ha hackerato i sistemi informatici americani, dice una banalità. Il fatto è certamente vero, così come è vero che gli USA hanno hackerato i sistemi russi. I servizi del Cremlino hanno agito anche per tentare di influenzare le elezioni negli USA? Molto probabilmente, sì. Esattamente come CIA e assimilati hanno fatto per condizionare le elezioni in Russia e altrove, forse anche in Italia. La cosa grave è che queste banalità vengano utilizzate per creare un clima di scontro senza esclusione di colpi, utilizzando anche la servizievole cassa di risonanza di testate giornalistiche e televisive “autorevoli”.
La verità è che negli Stati Uniti è in corso una battaglia al calor bianco fra l’apparato spionistico che fa capo alla cordata Obama-Clinton ed i pochissimi elementi dei servizi che sono sopravvissuti all’azione epuratrice dell’intelligence “democratica”, con alcuni di questi “resistenti” che sono riusciti a barricarsi negli uffici dell’FBI. Il quale FBI, peraltro, non è stricto sensu un servizio segreto, ma un’agenzia federale di polizia.
Si ricordi – tanto per entrare un po’ nel dettaglio – che è stata proprio l’FBI ad aprire un’inchiesta sulle mail scottanti di Hillary Clinton; che invece è stata difesa a spada tratta dalla CIA, sua fiancheggiatrice nell’opera di destabilizzazione internazionale portata avanti quando l’acida signora ricopriva la carica di Segretario di Stato.
E adesso – per venire ai fatti di casa nostra – apprendiamo che è stata l’FBI a mettere la polizia italiana sulle tracce di quei fratelli Occhionero che avrebbero hackerato i computer di tutta la Roma “che conta”. E apprendiamo, ancora, che le informazioni così ottenute non sono state archiviate in Italia, ma dirottate su capienti server, allocati – indovinate un po’? – negli Stati Uniti d’America. Non mi stupirei – a questo punto – se domani venisse fuori che gli Occhionero fossero utilizzati direttamente o indirettamente dalla CIA, e che la loro scoperta sia stato un colpo basso del Bureau ai cugini della Agency.
Ma sono tutte ipotesi, prive di riscontri oggettivi. Almeno al momento.
Quel che è certo è che il generale Michael Flynn (capofila degli oppositori alla politica di armamento della Jihad siriana portata avanti dalla CIA) sia stato defenestrato nel 2013 dal suo incarico di capo dello spionaggio militare (la DIA, Defense Intelligence Agency). E che adesso lo stesso Flynn sia stato designato da Trump a Consigliere per la Sicurezza Nazionale, con il compito di sovrintendere ad un radicale repulisti al vertice dei servizi di informazione e sicurezza.
A Washington cadranno molte teste. A incominciare da quelle di certi personaggi che tanto si agitano per propagare notiziole e notiziacce delle quali – per loro stessa ammissione – non è possibile fornire alcun riscontro oggettivo.
Presto – ci scommetto – il Regime Change USA farà sentire i suoi effetti anche qui da noi, non solo fra gli agenti segreti (che ufficialmente non ci sono), ma anche fra diplomatici, incaricati d’affari e “consiglieri” con funzioni speciali. Il primo a togliere il disturbo dovrebbe essere quell’ambasciatore John Phillips che – certamente non per condizionare l’esito della consultazione! – si è segnalato per la sua adesione alla causa del “sì” nel recente referendum italiano.