Il prode Matteo, fra sceicchi, bombe e ministresse
di Michele Rallo
È sempre lui, il Prode Matteo, intrepido come un paladino alla battaglia di Roncisvalle, adesso in versione export nella patria di Papa Obama. Un viaggio – questo – che segue di qualche mese quello in Arabia Saudita, ufficialmente per compiacersi della partecipazione italiana ai lavori della metropolitana di Riyad. Ma forse anche – come ha malignato qualcuno – per chiacchierare di armamenti e tecnologie militari. E infatti, poco dopo, ecco scoppiare l’affaraccio delle bombe italiane ai sauditi. Questi ultimi – si tenga presente – stanno radendo al suolo lo Yemen (scuole e ospedali compresi) per sostenere una delle due fazioni in lotta in quel disgraziato Paese. Il conflitto yemenita – dirò per inciso – è finòra costato quasi 6.000 morti e circa un milione di sfollati, forse in procinto di trasformarsi in profughi diretti in Europa.
Ma lasciamo stare l’affare saudita, e veniamo al nuovo viaggio del Prode Matteuccio, quello negli Stati Uniti, la Grande Alleata, la Grande Mela, la Grande Banca, la Grande Mammella dispensatrice di democrazia e di uranio impoverito. Qui il nostro è venuto ufficialmente per partecipare ad un summit mondiale sulla sicurezza nucleare e per celebrare l’impegno italiano per le nuove frontiere dell’energia pulita: ha inaugurato uno stabilimento ENEL in Nevada, «primo al mondo ad unire geotermia, fotovoltaico e termosolare». Si è sprecato a magnificare le grandi promesse delle energie rinnovabili, dimenticando di aver invitato gli italiani a non andare a votare per il referendum del 17 aprile, lasciando così immutate le vecchie regole con cui il palazzo favorisce le arcaiche fonti energetiche fossili (e quindi “sporche”) a detrimento delle rinnovabili (e quindi pulite e sicure).
Anche qui le malelingue sostengono che il motivo vero della visita sia stato un altro: farsi perdonare per la precipitosa marcia indietro rispetto agli impegni che sarebbero stati assunti per la prossima campagna di Libia. Sembra – sostengono sempre le malelingue – che il Papa Nero avesse ricevuto assicurazioni ufficiose circa una massiccia partecipazione italiana alla guerra prossima ventura, negoziando addirittura un ruolo di guida e di regìa da assegnare all’Italia; ruolo che gli americani – specialisti nel prendere il fuoco con le mani degli altri – ci avrebbero riconosciuto assai volentieri. Dopo di che, resisi conto del putiferio che sarebbe scoppiato in Italia, i nostri governanti sarebbero divenuti di colpo più prudenti, facendo sapere ai potenti alleati che forse non tutto sarebbe filato liscio come l’olio.
Proprio mentre il nostro era impegnato a pavoneggiarsi oltreoceano – per colmo di sventura – in Italia è venuto fuori un nuovo inquacchio governativo: è quello che riguarda la ministra Federica Guidi, titolare dello Sviluppo Economico. Sembra che le intercettazioni (oramai non si negano a nessuno) documentino un suo interessamento per favorire la Total (che è una compagnìa petrolifera francese), la quale a sua volta avrebbe dovuto favorire la Tempa Rossa, industria di proprietà dell’ingegner Gianluca Gemelli, “compagno” della Guidi. L’oggetto del contendere era un emendamento da far votare insieme alla legge di stabilità, «se è d’accordo Maria Elena». La Maria Elena in questione è un’altra ministressa, la Boschi, fresca reduce da un altro caso delicato: l’affare di Banca Etruria, di cui papà Boschi era Vicepresidente.
Sembra che il Prode (da non confondere con il Prodi) si sia incavolato parecchio per lo scivolone della Guidi. Non per una particolare considerazione della ministra, credo. Piuttosto – mi permetto di malignare – perché è assai fastidioso che, alla vigilia del referendum del 17 aprile, si accendano i riflettori sull’operato delle aziende petrolifere straniere in Italia. Qualcuno potrebbe anche chiedersi che cosa ci guadagnano gli italiani, se anche quelle poche gocce di petrolio che abbiamo finiscono agli stranieri.
Ma il buon Matteo ha avuto torto a preoccuparsi: giornali e televisioni sono stati bene attenti ad evitare incroci pericolosi, soprattutto sugli interessi stranieri. Così come, pochi giorni fa, quasi nessuno ha fatto parola del disastro ambientale sfiorato nel mare di Tunisia, a poche miglia da Sfax e non lontano dalle coste siciliane: una perdita di petrolio che per alcuni giorni ha fatto temere il peggio, ma che poi – per fortuna – è stata rapidamente neutralizzata. Anche questa notizia sarebbe stata pericolosa in tempi di referendum, ed anche in questo caso – quindi – nessuno si è permesso di operare accostamenti imbarazzanti.
Intanto, mentre l’invasione dell’Italia prosegue e si intensifica, la situazione libica evolve in una direzione che rende sempre più difficile tenersene fuori. Gli americani hanno scodellato il famoso governo di unità nazionale che – secondo i balbettamenti di Renzi – era condizione indispensabile per giustificare un nostro intervento armato. Per far ciò hanno abbandonato al suo destino il governo laico di Tobruk, fino a poco tempo fa considerato d’obbedienza anglo-francese e adesso sponsorizzato soltanto dall’Egitto e dagli Emirati Arabi Uniti; i quali in qualche modo rappresentano anche gli interessi (e la strategia) dell’Arabia Saudita, ostile alla famiglia fondamentalista di Tripoli che fa riferimento ai Fratelli Musulmani (e quindi alla Turchia). Nel mezzo, una serie di azioni e reazioni, di rapidi capovolgimenti di fronte, di minacciosi segnali trasversali inviati ai governi coinvolti, probabilmente anche a quello italiano.
In questo contesto da brividi, il nostro eroe saltella giulivo, a balzi e scatti, roteando gli arti come un paladino dell’opera dei pupi con la sua brava corazzetta luccicante e lo spadino di latta. Sembra di assistere ad uno di quei duelli da palcoscenico, con Orlando che mena innocui fendenti al rivale Rinaldo o al Feroce Saladino, mentre – dietro la scena – il puparo batte i piedi per terra, onde amplificare il cozzo di spade e scudi. Sullo sfondo, una damigella in pericolo trèpida per il suo eroe. Il pubblico sorride, spensierato. Tanto – si sa – non è una cosa seria.
Un vero fendente il prode Rinaldo ( o Maramaldo ? ) invero lo ha tirato, all’Egitto , col ” richiamo ” dell’ambasciatore.
Chiedersi il perché tutti gli altri Rinaldi o Maramaldi che l’ hanno preceduto, non l’abbiano mai fatto con gli USA, in occasioni di ” incidenti” che si chiamassero Cermis o Calipari, sarebbe un vano domandare.-