La Divina Concordia in un monile danese
di Luca Bistolfi
Nei giorni scorsi gli eventi politici dell’Europa hanno fatto passare sotto silenzio una notizia letteralmente cruciale, la quale però non è, pur con le apparenze che ne denunzierebbero sostanzialmente il contrario, slegata da quegli stessi eventi. Il dato è il seguente: in Danimarca è stato ritrovato un monile aureo risalente alla prima metà del X secolo, che rappresenterebbe una croce e nella fattispecie un uomo crocifisso o, quanto meno, un uomo disposto a forma di croce. La conclusione cui sono giunti gli studiosi – i quali, vedremo, a nostro avviso hanno corso un po’ troppo – è a detta loro rivoluzionaria: l’epoca in cui verosimilmente fu forgiato il monile è precedente di parecchi anni l’arrivo ufficiale del Cristianesimo in quelle terre, che si sarebbe invece installato nella seconda metà di quel secolo (http://www.repubblica.it/esteri/2016/03/18/foto/danimarca_il_crocifisso_trovato_per_caso_che_potrebbe_cambiare_la_storia-135758284/1/#1).
Se la scoperta inducesse a pensare quanto ipotizzato con certezza dagli studiosi, ci troveremmo davanti a un fatto altamente significativo per la Danimarca e per l’Europa e basterebbe l’introduzione di questa notizia per rimodellare la storia. Ma tuttavia la vicenda si chiuderebbe qui. Purtroppo però ci pare che l’ipotesi, per quanto succulenta, non sia sufficiente a spiegare il reale significato del monile. Per farlo infatti è necessario uscire dall’ambito del Cristianesimo e guardare un poco oltre.
Anzitutto va detto che la Croce non è un simbolo di pertinenza esclusiva del Cristianesimo. Esso è un simbolo universale. E non occorre necessariamente rifarsi a Guénon e al suo Il simbolismo della Croce, pur imprescindibile, ma che all’ufficialità resta (scioccamente) sospetto. Basterebbe guardare a quelle civiltà extraeuropee che hanno tra i loro simboli essenziali, migliaia di anni prima di Cristo, la Croce. Archeologia, storia e simbolismo esoterico possono in questo caso e anche dall’esterno andare d’accordo.
L’esistenza del simbolo della Croce in pressoché tutte le civiltà non cristiane – simbolo non solo come raffigurazione, bensì anche e soprattutto come concetto e come concetto metafisico – dimostra che l’attribuzione della confessione cristiana a una terra precedente l’arrivo ufficiale del Cristianesimo è un arbitrio, tanto superficiale quanto a tratti incauto. Diamo infatti per scontato che quel monile non rappresenti ciò che oggi gli studiosi danno per evidente e a questo punto ovvio, bensì che in quelle terre prima dell’arrivo del Cristianesimo e dei suoi simboli fossero già a conoscenza del significato del simbolo della Croce. D’altra parte, ragionando secondo schemi positivistici, si potrebbe paradossalmente dire che i primi cristiani nelle catacombe non erano tali perché invece della Croce tracciavano un pesce. E invece sappiamo che erano cristiani grazie a vari motivi e che il simbolo del pesce rimanda autenticamente a Cristo.
Compiamo ancora un ulteriore, essenziale passaggio: ogni simbolo, sia grafico sia verbale (identità cui bisogna prestare la massima attenzione e la massima fede, se non si vuole scadere nel letteralismo), è universale. Anche il pesce è rintracciabile in moltissime altre tradizioni non cristiane.
Tutto ciò cosa comporta? Qualche cosa di enorme, squassante, inequivocabile e che dovrebbe mettere a tacere ogni settarismo, ogni confessionalismo di comodo e maniera e ogni lotta. Se infatti i simboli sono universali e significano tutti e dappertutto la medesima cosa, ciò significa che, nella sostanza, nessuna tradizione è sostanzialmente differente dalle altre e che tutte procedono dalla medesima e unica radice, dalla medesima e unica verità e quindi dal medesimo e unico Principio (chiamatelo anche Dio, se vi piace di più).
La conclusione che hanno tratto gli studiosi danesi, che siamo sicuri essere in buonafede, è frutto di una mentalità esclusivista, che ricusa di conferire autenticità e dignità alle civiltà precedenti, successive e coeve al Cristianesimo. È il vizio insopportabile che manifesta l’ufficialità del pensiero di ogni singola confessione: ritenersi la prima e l’unica e l’autentica. Mentalità da cui scaturiscono le cosiddette guerre di religione e le incomprensioni tra indù e musulmani, tra cristiani ed ebrei, tra musulmani e cristiani, tra cristiani ortodossi e cristiani cattolici e tutti questi momentaneamente coalizzati contri i cosiddetti pagani. Differenze, beninteso, pur ci sono, e ci sono state, dipende dalle varie declinazioni, ma la sostanza è sempre la stessa: la Verità è unica.
Il cosiddetto paganesimo greco o romano, soppiantato dal Cristianesimo, era realmente tale: davvero greci e romani adoravano pezzi di legno o di marmo. Erano degli idolatri non diversamente dagli abitanti di Mecca prima dell’avvento e della vittoria dell’Islam. Ma si trattò di degenerazioni, che Cristianesimo e Islam corressero, così come Cristo aveva voluto correggere la tradizione degli ebrei di Palestina in quel tempo. (Per inciso: il metro liquidatorio non viene però per esempio applicato agli ebrei: pur col rifiuto del Cristo da parte dell’ufficialità ebraica – e non degli ebrei tout-court, ché la più parte dei discepoli di Gesù era composta di ebrei e la domenica delle Palme ad accogliere festosi l’ingresso del Cristo a Gerusalemme c’erano i bambini degli ebrei – nessuno studioso accusa gli ebrei di infedeltà, ancorché nello loro Sacre Scritture i versetti messianici e cristici abbondino).
Sul monoteismo (parola religioso-teologica, che però in termini metafisici si traduce con dottrina dell’unità) delle civiltà cosiddette “pagane” non ci può essere alcun dubbio. Le fonti sono innumeri e basterebbe la magistrale sintesi che ne ha fatto il professor Claudio Mutti in un contributo che dovrebbe essere mandato a memoria e fatto studiare obbligatoriamente a tutti. Per brevità e correttezza non riassumiamo qui le linee essenziali dell’intervento e invitiamo il lettore a goderselo integralmente qui: http://www.claudiomutti.com/index.php?url=6&imag=1&id_news=204.
Per ridicolo paradosso e con contraddizione urticante anche gli apologeti anticristiani di oggi accusano i cristiani di essersi inventati una religione facendone il calco su quella pagana precedente, dicendo per esempio che il Natale cristiano altro non è che la “copia adattata” della festività del Sol Invictus romano. Peccato che i due eventi, anziché contraddirsi, si integrino perfettamente a vicenda, testimoniando della sostanziale identità delle tradizioni. Invece che adoperare una tradizione precedente che trova conferma in quella successiva, e viceversa, studiosi e apologeti confondono l’elisir col veleno. Un errore eguale e contrario a quello di certuni cristiani, i quali sostengono la verità unica e assoluta del Cristianesimo rispetto a qualsiasi altra tradizione precedente e successiva. La storia, anche in questo caso, invece di essere letta con la lente dell’universalità, è letta con quella del particolarismo.
Una studiosa gigantesca come Simone Weil, pur escludendo dalla sua visione Giudaismo e Islam e in ciò commettendo un errore madornale, è giunta a scrivere e a ribadire che non c’è mai stata sostanziale differenza tra ciò che rivela il Cristianesimo e ciò che era stato rivelato in Egitto, in Mesopotamia, in India, in Grecia, ciò che nessuno studioso – nemmeno il bravissimo Giancarlo Gaeta, autore pur della meravigliosa edizione della Rivelazione greca, che corregge l’errore esclusivistico cattolico di padre Perrin – è stato capace di sottolineare con la sufficiente forza.
Un altro caso eloquente concerne Dante. All’inizio del primo canto del Paradiso, il Sommo Poeta, il cui lignaggio e la cui imponenza speculativa e sapienziale ben ha messo in evidenza Guénon ne L’esoterismo di Dante, dice sostanzialmente due cose. La prima è che ciò che ha raccontato sino a quel momento e che ancora racconterà egli l’ha realmente visto, ma che la memoria di un essere umano non è così possente per riuscire a parlare in maniera tanto chiara da riferire così come le ha vissute quelle esperienze divine. E quindi, seconda cosa, chiede soccorso al «buon Apollo». Un cristiano cattolico medievale ricorre a una divinità “pagana” per esporre la propria visio del Paradiso. Gli studiosi hanno la pretesa di risolvere la faccenda liquidando Dante come un poeta cui tutto è concesso e quindi anche di ricorrere, appunto per licenza poetica, a una divinità pagana per essere aiutato. In fondo si tratta solo di poesia (i geni e i santi dovrebbero essere trattati solo dai loro pari e non da semplici professori di liceo o d’università). Ma se così fosse Dante sarebbe potuto ricorrere a tutta una schiera di santi cattolici. Se però chiede aiuto ad Apollo – e stiamo parlando di Dante, nei cui ultimi versi della Commedia è sintetizzata la metafisica universale, che ritroviamo per esempio in Ibn ‘Arabi – un motivo non certo “poetico” ci deve essere, così come è evidente che c’è anche un motivo se Dante è accompagnato da Virgilio. Il motivo reale dell’invocazione ad Apollo è piuttosto evidente e duplice. Anzitutto Apollo non è solo il dio che presiede al sorgere e al tramontare del Sole (simbolo cristico), ma presiede anche alla sapienza che illumina l’intelletto, ossia alla gnosi, ossia quella sapienza che non è libresca, bensì divina, ed è pertanto la Conoscenza. Inoltre con quell’invocazione Dante ci sta dicendo, lui cattolico, che in quello che si sarebbe chiamato paganesimo c’è una verità che non contraddice a quella in cui Dante stesso è incastonato. E sarà opportuno ricordare non solo la radice islamica dell’impianto formale della Commedia, ispirato al mir‘âj di Muhammad, ma soprattutto la decrittazione strabiliante che di certi controversissimi passaggi dell’opus magnum del Divin poeta – primo fra tutti quello sul Profeta dell’Islam e su suo cognato ‘Ali – ha dato Nino De Falco in contributi neglettissimi (http://scienzasacra.blogspot.it/2014/05/giovanni-de-falco-incontro-di-dante.html).[1]
Questa identità tradizionale – o perenne – non sta a significare che omnia valde bona sunt, bensì che la Verità si manifesta sempre e ovunque, che ovunque e sempre si è manifestata. E ciò è riscontrabile in una serie vastissima di autori provenienti da ogni singola tradizione. Ritroviamo questo pensiero nel Veda e nel Corano, in sant’Agostino e in san Clemente di Alessandria, in Coomaraswamy e in Guénon, in Meister Eckhart e in Niccolò Cusano, in Aldous Huxley (splendido e misconosciuto il suo La Filosofia Perenne), in san Giustino martire e in Agostino Steuco, in Marsilio Ficino e in Platone, e potremmo seguitare piuttosto a lungo nell’elenco. Segnaliamo però ancora un articolo di decisiva importanza anche in tal senso che è La questione del pluralismo religioso in Ibn ‘Arabi di Paolo Urizzi (http://www.academia.edu/4834701/Ibn_Arab%C4%AB_e_la_questione_del_pluralismo_religioso).
Nell’Europa dell’Est mentre l’Impero romano si stava disfacendo in brutture etiche e religiose, esistevano i Daci, o Geti, la cui divinità era Zalmoxis. Poco si sa di preciso su di essa, ma eminenti studiosi come per esempio Eliade hanno parlato di un indiscusso monoteismo. E i miti fondatori di quella civiltà richiamano altri miti a noi più vicini. Ciò ci deve fare pensare, e molto. Se adoperassimo la mentalità ufficiale, ci troveremmo davvero imbarazzati nel leggere questi dati. Allora bisogna rinunciarvi e cercare un’altra chiave di lettura e ammettere finalmente che, cristiani praticanti o no, i moderni hanno l’insopportabile vizio, tutto illuministico, di considerare le altre civiltà come inferiori, barbare, grossolane (se ciò fosse vero, inviterei alla sollevazione tutti gli studenti, costretti a occuparsi di quelli che sono fatti passare come dei poveri scemi), quando al contrario possedevano conoscenze quali a noi, oggi, non sono concesse.
E a proposito di miti, vogliamo ricordare la scoperta mozzafiato che un fuori-categoria come l’ingegner Felice Vinci ha argomentato inoppugnabilmente in quel capolavoro che è Omero nel Baltico, testo in cui egli dettaglia in una cornucopia di riferimenti filologicamente e logicamente irrefutabili che i poemi fondatori dell’Occidente (pagano?), ossia Iliade e Odissea, traggono da miti nordici e che gli eventi narrati nei due capolavori attribuiti a Omero si sono verificati, o sono stati ambientati, nel Mar Baltico e nelle terre che lo circondano. Ciò da cui consegue che anche la mitologia greca – e soggiungeremo subito qualcosa di più specifico a proposito – trae da altre e più antiche fonti.
Un’altra scoperta che ammutolisce è quella riportata da Maurizio Blondet nel suo blog qualche mese fa, cui rimandiamo: http://www.maurizioblondet.it/la-piu-antica-religione-vivente/), e che in sostanza dimostra che anche in quel tempo e in quei luoghi che la nostra boria occidentale archivia come primitivi e pagani, esisteva una coscienza metafisica e religiosa altissima, che può guardare dritta negli occhi quella cristiana, non meno che quella indù o islamica.
D’altra parte il mito è ciò che Saturnino Secondo Salustio, filosofo greco neoplatonico, aveva definito con l’espressione più perforante e precisa possibile: «Queste cose non avvennero mai, ma sono sempre». Là dove ciò cui si deve prestare più attenzione è l’utilizzo del verbo essere, «sono», seguite dall’avverbio di tempo, «sempre». Abbiamo trovato citata quest’icastica sentenza nelle Nozze di Cadmo e Armonia di Roberto Calasso e sempre in Calasso, nel suo capolavoro L’ardore, un testo sulla prima declinazione della tradizione universale e che nel sanscrito degli indù si chiama Sanatana Dharma, ossia i Veda, troviamo il racconto di un altro ritrovamento. È anch’esso un monile, che proviene dalla tradizione Maori. «Una piccola placca di giada – scrive Calasso commentando magistralmente le osservazioni di Marcel Mauss –, dai colori fra il grigio e il verde scuro, che i Maori chiamano tei tiki, e le loro donne nobili portavano sul petto, come un talismano. Tiki era anche il nome del Progenitore della razza umana, il loro Prajapati. Che cosa rappresentano questi piccoli, deliziosi oggetti? “Raffigurano un feto – fortemente stilizzato –, i più belli con un occhio di pietra rossa”. Ma non solo: “Questi tiki rappresentano parimenti il fallo, i primi uomini, l’atto creatore, questi tiki sono innanzitutto raffigurazioni del macrocosmo e del microcosmo, di Dio». L’esposizione del ritrovamento e del suo significato dura a lungo e vale la pena leggerla per intero, come d’altra parte vale lo sforzo la lettura integrale dell’Ardore. Ma a noi interessa isolare una considerazione: «Se un pendente di giada che adorna il petto delle nobili donne maori può addensare in sé tutti i cieli, tutti i mondi e tutti gli dèi, e perfino Dio… che ne sarà delle varie distinzioni fra primitivi e civilizzati, fra popoli senza scrittura e popoli con scrittura, fra semplicità e complessità?». In questo ampio passaggio del libro, Mauss e Calasso, senza nominarla mai, stanno di fatto parlando di un aspetto della Tradizione primordiale, che Calasso declina con la serie, costante nelle sue opere, dell’analogia e delle corrispondenze. «Se i Maori – continua Calasso –, che i predecessori di Mauss avevano considerato esemplarmente primitivi, avevano sviluppato “una classificazione completa delle cose di un tipo non meno netto e incisivo di qualsiasi altra delle mitologie cosmologiche prodotte dal mondo antico”, in qual modo quei sistemi di corrispondenze avrebbero [sic] potuto essere giudicati? Innanzitutto i Maori si ponevano sullo stesso piano non solo della Cina arcaica e delle civiltà mesopotamiche, ma della tradizione ermetica in Europa».
Pertanto la scoperta di questo monile danese può davvero essere rivoluzionaria, ma non nel senso preteso da quegli studiosi, bensì nel senso di una concordia universalis, che faccia piazza pulita una volta per tutte – speranza vana ma legittima – di ogni settarismo, di ogni violenza, di ogni pirotecnico fanatico criminale e di ogni suo finanziatore e istigatore. È assai probabile che questo monile ci stia dicendo non già che i danesi erano cristiani prima di quanto sino a oggi assunto, quanto piuttosto che ogni nome dato alla Verità che non sia un nome divino, rovina tutto e tutto divide, separa. E il contrario di simbolo, che vuol dire «unifico», dal greco symbállo, è diáballo, che vuol dire appunto «separo», «divido» e che è l’etimo da cui trae l’unica realtà davvero temibile da cui dobbiamo tutti difenderci: diavolo, satana. Tuttavia per concludere occorrono ancora alcune parole.
Se anche l’ipotesi degli studiosi danesi fosse autentica, ciò tuttavia non sposterebbe pressoché d’una virgola il discorso. In effetti il monile ha tutta l’evidenza, come già dicevamo all’inizio e come si vede bene dalla foto, di un uomo crocifisso, addirittura di Cristo crocifisso (adoperando un poco di fantasia), il che aggiunge un elemento in più rispetto a una “semplice” croce. Ma ciò dovrebbe indurre molti, moltissimi a esser sempre cauti prima di liquidare certi popoli e certe civiltà. (Mauss era arrivato a scrivere, evidenziando l’asserto con un corsivo: «I popoli non civilizzati non esistono»). Se consideriamo barbari e infedeli i danesi prima del Cristianesimo, oggi con questo monile possiamo considerarli degni di rispetto: Siamo sicuri che questo sia il ragionamento corretto? E forse la scoperta non induce alla cautela, alla radicale e drastica diminuzione della prosopopea per nulla cristiana che contraddistingue la mentalità della civiltà moderna occidentale? Impegniamoci a pensare che a essere nel giusto non è la storia bensì la Verità. Un’osservazione all’apparenza banale, ma che pare sfuggire alla maggioranza, anche dei colti. Ma di più: forse ai danesi di oggi e in generale agli europei che hanno dimenticato da tempo cosa significhi Cristianesimo – così come certuni non sanno cosa significhi Islam – la scoperta cambierà qualcosa? Siamo tentati di dare una risposta negativa a questa domanda. Un capitolo in più in un manuale di storia non apporterà un mutamento di coscienza. Forse sarebbe più utile pensare che se è vero che il popolo che abitava l’attuale Danimarca prima della sua cristianizzazione ufficiale era cristiano, ciò conferma – ancorché non ve ne sarebbe bisogno, ché basterebbero le sue parole – quanto ha detto il Cristo stesso: «Io sono l’alpha e l’omega», ossia l’inizio e la fine; e se era cristiano lo era in una maniera molto differente da quella che possiamo intendere noi oggi. E se il Cristo è la Verità, come davvero lo è, allora possiamo dedurne con una qual certa facilità che la Verità è con l’uomo sin dal principio e che le sue declinazioni sono solo modificazioni temporanee (ancorché gerarchicamente ordinate). Il simbolismo della Croce rimanda infatti all’uomo universale, ciò che in termini islamici si chiama al-insân al-kâmil, ossia, per esser sintetici, lo specchio perfetto di Dio sulla terra. E quali sono gli specchi perfetti di Dio sulla terra se non i Profeti? Secondo il Sufismo l’insân al-kâmil per eccellenza è il Profeta Muhammad, il quale disse tra l’altro: «Io ero profeta quando Adamo era ancora tra l’acqua e l’argilla», che vale a dire: io ero prima di tutto quanto (rimandiamo su questo tema ancora al citato contributo di Urizzi). Non vi piace l’Islam? Allora attenetevi al Vangelo di san Giovanni in cui, come è noto, si dice che il Lógos, che è Cristo, era presso Dio ed era Dio. Ci pare che tutto torni.
Note:
[1] Troviamo quanto meno curioso che il sito con i contributi di De Falco, sino a poco tempo fa agevolmente rintracciabile, sia oggi sparito. Ne è rimasta solo questa traccia, che però compare su di un altro portale. Saremmo grati a quanti vorranno dissipare le nostre personali nebbie informatiche.
Interessante articolo e opportune riflessioni su questo antichissimo simbolo, tanto quanto la notizia del ritrovamento di un anello con inciso il nome divino Allah, trovato in una tomba vikinga!
Bellissimo contributo, ed anche attualissimo !!
Nel sopra citato ” Simbolismo della croce”, Guénon ricorda l’ espressione di una importante personalità musulmana in entrambi i domini exoterico ed esoterico , che merita di essere richiamata anche qui : ” Se i cristiani hanno il segno della croce, i musulmani ne possiedono la dottrina”.
Sarei grato a Loris se potesse postare la foto dell’anello di cui accenna.