Intervista a Giacomo Gabellini, autore di “Ucraina. Una guerra per procura”, Arianna Editrice, Bologna 2016
Il Discrimine incontra Giacomo Gabellini, ricercatore di economia e geopolitica, collaboratore di “Eurasia – Rivista di Studi geopolitici“ e del giornale telematico “L’Indro“, nonché autore di vari libri (Eurocrack. Il disastro politico, economico e strategico dell’Europa, Anteo 2015), l’ultimo dei quali si intitola “Ucraina. Una guerra per procura“, pubblicato nel maggio di quest’anno da Arianna Editrice e prontamente presentato al Salone del Libro di Torino.
La cosiddetta “crisi ucraina“ è, fra tutte quelle in corso, la più esplosiva e foriera di sviluppi devastanti per il futuro dell’Eurasia, eppure il panorama editoriale in lingua italiana non è molto ricco di pubblicazioni in merito. Si pensi invece a quanti libri – perlopiù inutili – sono usciti sull’Isis… Perché l’Ucraina è così “poco interessante“?
Paradossalmente, la ragione fondamentale dell’oscuramento mediatico cui è soggetta la crisi ucraina è data proprio dalla sua importanza incommensurabilmente maggiore a conflitti pur gravissimi e anche più sanguinosi come quello mediorientale. L’Ucraina tira in ballo il rapporto dell’Europa con la Russia e il posizionamento geopolitico del “vecchio continente“, tocca da vicino gli interessi vitali del Cremlino, coinvolge potenze nucleari e investe la stessa sicurezza energetica europea. Conflitti come quello siriano, meno cruciali in ordine di importanza, possono invece facilmente essere strumentalizzati in chiave religiosa, specialmente da coloro che intendono demonizzare l’Islam a vari scopi. Le librerie pullulano di libri inneggianti a tesi costruite sul concetto assai discutibile dello “scontro di civiltà“ per distogliere l’attenzione dalla vera natura dei conflitti mediorientali e dagli interessi geopolitici che sono in gioco. In Ucraina, al contrario, mettere in atto campagne mistificatorie altrettanto efficaci è molto più difficile, perché ogni analista con un briciolo di competenza sa che all’origine di tutto c’è l’avvicinarsi della Nato ai confini russi. Se la narrazione non è confacente agli interessi delle élite occidentali, meglio non parlarne.
Questa “crisi“ non nasce dal nulla, ma è per così dire il punto di arrivo, ed il trampolino per nuovi eclatanti sviluppi, di oltre un ventennio di lotta per la supremazia in quello strano Paese dai confini così mal definiti. Il sottotitolo del tuo libro recita infatti: “Una guerra per procura“. Chi sono gli attori coinvolti nel conflitto ucraino oltre all’Ucraina stessa e ai “separatisti“ filo-russi? Ed è corretto chiamare questi ultimi semplicemente “separatisti“ alla luce delle angherie che un governo ucraino completamente etero-diretto dagli occidentali stava perpetrando ai loro danni?
Gli attori principalmente coinvolti nella crisi ucraina sono la Russia, gli Stati Uniti e la Germania. Su un piano leggermente inferiore si colloca l’Italia, che nutre enormi interessi economici verso la Federazione Russa. È poi stata segnalata la presenza di guerriglieri islamisti provenienti da Cecenia, Georgia, Azerbaijan, Paesi del Golfo Persico, Pakistan, Turchia… Quasi tutti questi “combattenti stranieri“ sono schierati a fianco dell’esercito ucraino e delle forze paramilitari neo-fasciste, mentre i separatisti del Donbass sono supportati da numerosi ex spetznatz e soldati russi in congedo. Su un piano formale è corretto definire “separatiste“ le forze russofone e russofile del Donbass che si oppongono alle autorità di Kiev, perché il loro obiettivo è quello di ottenere una totale indipendenza dallo Stato in cui si sono comunque riconosciute fino al 2014 e di cui rappresentano tutt’ora la minoranza più numerosa e vivace.
Questa situazione ricorda per certi versi il 1939, quando le “grandi democrazie“ proclamarono che si dovesse assolutamente “morire per Danzica“… Possiamo vedere nell’azione russa in Ucraina, ed altrove tutto intorno a lei, il tentativo legittimo, da parte di Mosca, di ricostituire lo spazio sovietico già della Russia zarista? Ci vuoi spiegare in sintesi il contesto geopolitico della “questione ucraina“?
Mosca è impegnata da anni a riportare, sotto il profilo politico, economico e strategico, lo spazio ex sovietico sotto la sfera egemonica russa, attraverso progetti come la Shangai Cooperation Organization (Sco), Razvitie e l’Unione Doganale Eurasiatica. L’obiettivo di Putin non è però quello, come denunciò scioccamente Hillary Clinton, di procedere a una “ri-sovietizzazione“, quanto a saldare i legami tra Russia ed Europa, con particolare riferimento alla Germania. Da un’alleanza tra Mosca e Berlino scaturirebbe un blocco geopolitico formidabile, in grado di relegare a un ruolo secondario la potenza statunitense attualmente soggetta a un palese declino, per quanto relativo. Dal punto di vista di Washington, il modo più facile per scongiurare questo pericolo è inserire una serie di cunei in Europa orientale e di integrarli in un secondo momento nelle strutture politiche e militari euro-atlantiche, vale a dire l’Unione Europea e la Nato. In questo modo non solo si strappano a Mosca porzioni fondamentali del suo spazio geopolitico – e anche spirituale –, ma si crea una frattura tra Russia e “vecchio continente“ da cui dipende la sopravvivenza dell’ordinamento unipolare fondato sulla supremazia Usa.
Al riguardo del ruolo della Germania che cosa si può dire? Esiste una continuità con la spinta “verso oriente“ perseguita anche dal Terzo Reich?
Il Drang nach Osten è un concetto geopolitico tuttora molto presente nella mentalità tedesca. Per accorgersene è sufficiente dare un’occhiata al blocco geoeconomico costruito meticolosamente da Berlino nel cuore dell’Europa. A partire dal crollo del Muro, la Germania ha sviluppato una struttura geografica del commercio estero abbastanza simile a quella che era riuscita a creare negli anni che precedettero la Prima Guerra Mondiale, includendo tutte le aree industriali limitrofe – Polonia, Slovacchia, Repubblica Ceca, Ungheria e Romania – in una rete produttiva efficientissima e perfettamente integrata. Si può quindi concludere che la “spinta verso est“, messa in atto in vari modi e forme nel corso dei decenni, precede al Terzo Reich e rimane tuttora una delle priorità fondamentali della leadership tedesca.
La Turchia, l’Arabia Saudita e, più in generale, l’“islamismo militante“, che ruolo hanno in tutta questa storia?
Fin dalla guerra in Afghanistan del 1979-1989 che ha contrapposto l’Armata Rossa sovietica ai mujahidin, l’islamismo è sempre stato uno degli strumenti di cui gli Usa e i loro alleati mediorientali si sono serviti come forza d’urto contro gli interessi russi. All’epoca, gli Usa e l’Isi pakistano misero in piedi, grazie al denaro messo a disposizione dai sauditi e ai proventi del traffico di eroina, una colossale rete di reclutamento di fondamentalisti attiva in tutto il mondo musulmano. Tali estremisti venivano quindi addestrati dai servizi di Islamabad e inviati in Afghanistan a combattere l’esercito agli ordini del Cremlino. La teoria dell’“arco di crisi“ elaborata da Zbigniew Brzezinski, conformemente alla quale occorreva volgere il mondo islamico della Russia meridionale e del suo estero vicino contro Mosca, non è mai passata di moda. Un filo rosso islamico – o meglio “islamista“ – lega il sanguinoso scontro del Nagorno-Karabakh, le guerre cecene, il conflitto georgiano del 2008 e l’attuale crisi ucraina; in tutti questi casi, i jihadisti erano schierati contro la Russia, e a fianco delle forze appoggiate dagli Usa.
Qual è il peso della “guerra per l’energia“, alla quale hai significativamente dedicato il quinto capitolo?
L’energia è la più visibile e “pesante“, quantomeno in termini economici, delle questioni tenute in sospeso dalla crisi ucraina. Dall’ascesa al potere di Vladimir Putin, la Russia ha sfruttato gas e petrolio per stringere con l’Europa un rapporto di interdipendenza favorevole ad entrambi. Secondo il disegno del capo del Cremlino, gli europei avrebbero ricevuto l’energia necessaria a soddisfare il proprio fabbisogno interno e la Russia il denaro con cui ricostruire l’economia nazionale messa in ginocchio da El’cin e dai “programmi di aggiustamento strutturale“ raccomandati dal Fmi. Questa situazione “win-win“ avrebbe inoltre consentito a Mosca di gettare le basi per intensificare l’interscambio commerciale e attivare un rapporto di collaborazione in tutta una serie di settori, con l’obiettivo di istituire un legame indissolubile tra la Russia e l’Europa. Gli Usa, intimoriti dalle indiscutibili abilità strategiche di Putin, hanno cercato in tutti i modi di contrastare questa politica fondata sull’energia, sabotando il progetto relativo al South Stream e lanciando una serie di avvertimenti alla Germania (casi Volkswagen e Deutsche Bank) al fine di indurla a recedere dal potenziamento del Nord Stream.
Adesso proviamo a fare l’avvocato del diavolo. Gli ucraini ebbero a soffrire non poco sotto l’Urss, anche se la “grande carestia“ del 1932-33 con i conseguenti milioni di morti per fame non è nota al gran pubblico edotto su altri “genocidi“ (è comunque recentemente uscito “1932-33 Ucraina. Il genocidio dimenticato“, di Ettore Cinnella). Che cosa dovrebbero temere gli ucraini occidentali (gli orientali, semplificando, sono filo-russi) da un ritorno della potenza russa a Kiev?
Russi e ucraini hanno alle spalle una storia travagliata e indubbiamente molto difficile da dimenticare. Ma gli ucraini farebbero bene a liberarsi da questi anacronistici retaggi del passato e concentrarsi sulla natura del loro Stato. L’Ucraina è per sua natura geografica un ponte tra la Russia e l’Europa, ed è nelle condizioni di trarre il massimo vantaggio da questa posizione strategicamente vantaggiosissima. Se gli ucraini vorranno rendere la loro nazione efficiente e pienamente funzionante non potranno che ripristinare un rapporto di collaborazione con il Cremlino, che presuppone una sostanziale neutralità in ambito geopolitico. Devono rendersi contro che la Russia non potrà mai tollerare che i suoi interessi economici e la sua stessa sicurezza nazionale vengano calpestati in maniera così palese come stanno facendo gli Stati Uniti e i Paesi della “nuova Europa“. L’annessione della Crimea è stata la naturale, inevitabile risposta del Cremlino al tentativo Usa di ridurre la proiezione navale russa attraverso la chiusura dell’importantissimo porto militare di Sebastopoli. Chissà come avrebbero reagito gli Stati Uniti se nel 1960 il Messico fosse entrato a far parte del Patto di Varsavia. Si è visto, in compenso, cosa hanno fatto per rimuovere Fidel Castro.
L’attuale Stato ucraino è il classico Failed State tenuto su, a fondo perduto, con l’unica funzione di provocare la Russia. Chi sono, in “soldoni“, i suoi principali sostenitori? Puoi raccontarci qualche aneddoto sull’impresentabilità dell’attuale “governo ucraino“?
A favore del presidente Porošenko e della deriva neo-fascista dell’Ucraina vi sono una serie di oligarchi del “clan di Dnepropetrovsk“ asserragliati dietro a Igor Kolomojskij, magnate della finanza e dei media dotato di passaporto israeliano che ambisce a usare le istituzioni statali e le forze paramilitari – da egli stesso finanziate – inquadrate nella Guardia Nazionale come strumenti per eliminare gli oligarchi legati alla vecchia industria pesante dell’est, storicamente legata alla Russia. Molti altri oligarchi, come Viktor Pinčuk, vantano strettissimi rapporti con la famiglia Clinton al punto da finanziare generosamente la campagna elettorale di Hillary – non è un caso che siano proprio gli ucraini i maggiori finanziatori stranieri della campagna elettorale della Clinton. Il principale sostenitore di “questa“ Ucraina è però indubbiamente George Soros, che da sempre anela a ridurre la Russia all’impotenza. Ed è proprio il caso di citare una vicenda che ha visto il coinvolgimento di Soros per dare un’idea della tempra del governo ucraino. Lo scorso anno, dietro forti pressioni di Washington e del Fmi, le autorità di Kiev hanno incaricato la Renaissance Foundation, un ente finanziato proprio da Soros, di stabilire il meccanismo di selezione dei 185 stranieri dotati delle competenze necessarie a prestare servizio nell’esecutivo ucraino, in qualità di ministri o funzionari, che erano stati “individuati“ dalla società Usa Pedersen & Partners e Korn Ferry, specializzata a scovare “talenti“. Alla fine, sono stati selezionati la statunitense Natalia Jaserko, ex amministratore delegato di un fondo speculativo facente capo ad Horizon Capital, piazzata al Ministero delle Finanze; il banchiere lituano Aivaras Abromavičius, ex funzionario del Dipartimento di Stato Usa, finito al Ministero dell’Economia; alla Salute è stato nominato il georgiano Alexander Kvitashvili, già ministro in patria nel governo guidato da Mikheil Saakashvili. I tre, dichiarati cittadini ucraini subito dopo la cerimonia d’investitura con un atto straordinario del presidente Porošenko, si erano distinti nel corso della loro carriera per la loro marcata vocazione anti-russa.
A proposito di “orrori“ e “barbarie“ che l’Occidente condanna a geometria variabile, quali sono state le peggiori stragi perpetrate nel corso di questa guerra? Qual è stata la posizione delle altisonanti “istituzioni“ internazionali che, in altre situazioni, hanno fermamente condannato l’accaduto perseguendo i “criminali di guerra“?
Di stragi a danno dei civili ne sono state perpetrate a decine in tutto l’est ucraino, ma la più spaventosa è stata indubbiamente quella di Odessa del 2 maggio 2014. Si è trattato di un episodio di vera e propria macelleria messicana che ha visto membri del battaglione Dnepr torturare ed assassinare decine e decine di manifestanti filo-russi che erano intenti a raccogliere firme a sostegno di un referendum per l’applicazione di un modello federalista al Paese. L’eccidio è stato perpetrato all’interno del Palazzo dei Sindacati, poi dato alle fiamme dagli stessi miliziani per cercare di coprire l’accaduto. Nonostante centinaia di prove e testimonianze inchiodassero i paramilitari alle loro tremende responsabilità, il «Wall Street Journal» ha fornito immediatamente il proprio supporto al governo di Kiev impegnato a nascondere la dinamica dei fatti, cercando di far ricadere la paternità del massacro sui ribelli filo-russi. Assai significativo, sotto questo aspetto, risulta il commento di Dmytro Jaroš, il quale ha salutato entusiasticamente il massacro come «un altro giorno luminoso nella nostra storia nazionale». Un altro episodio impressionante, documentato con dovizia di particolari dal britannico «Daily Mail», è quello relativo al corso di addestramento alle basilari tattiche di combattimento di ragazzi in età giovanissima (da sei anni in su), da inquadrare nella Guardia Nazionale, organizzato
dal battaglione Azov. Durante il corso, i membri di questa forza paramilitare neo-nazista hanno consegnato a ciascuno dei ragazzi giunti al campo di addestramento una maglietta con stampate in primo piano due sagome di giovani uomini armati di fucile e con indosso l’uniforme recante l’emblema delle Schutz-Staffeln das Reich, mentre sullo sfondo troneggiava l’inquietante immagine del “sole nero“, caposaldo dell’iconografia esoterica nazista. Naturalmente, all’insegnamento delle tecniche di combattimento gli istruttori hanno affiancato un meticoloso lavoro psicologico teso ad inculcare nelle giovani menti ucraine l’odio per i russi, nel quadro del programma di “educazione nazional-patriottica“ annunciato dal ministro dell’Istruzione Sergeij Kvit. Il che ha indotto il professor Michel Chossudovsky a concludere che il ritiro estivo rappresenti in realtà il primo stadio di un sistema di reclutamento ed indottrinamento che il governo ucraino cercherà di istituzionalizzare quanto prima. Nessuno ha avuto niente da eccepire rispetto a questi allucinanti episodi: né l’Unione Europea, né gli Stati Uniti, né le decine di Ong impegnate a vigilare sulla tutela dei diritti umani. È inoltre scontato che nessuno dei responsabili di stragi come quella di Odessa verrà mai chiamato a rispondere dei suoi crimini di fronte a qualche tribunale. La legge, come si sa, per i nemici si applica mentre per gli amici si interpreta.
La classica domanda che si fa ad un “esperto“ della questione: come andrà a finire questa “crisi“?
Si tratta di una domanda che spaventa qualsiasi studioso, ma a cui è d’obbligo provare a rispondere. L’Ucraina non potrà resistere a lungo alla situazione di degrado economico e decomposizione istituzionale alla quale è soggetta. Il Fmi non potrà tenere collegata in eterno la spina dei finanziamenti a fondo perduto, e le autorità di Kiev dovranno prima o poi dar conto della loro incompetenza e corruzione ad un popolo sempre più frustrato e impoverito. Il tempo non gioca dunque a favore di Kiev, e di questo Putin e i suoi fidati collaboratori sono pienamente consapevoli. Allo stesso tempo, però, la Russia non ambisce affatto ad annettersi il Donbass e il resto dei territori che si estendono fino alla sponda orientale del Dnepr, ma punta a far ottenere ai ribelli una larga autonomia dal governo centrale. Prevedo quindi che si arriverà a una soluzione di compromesso; l’Ucraina diverrà uno Stato federale collocato su una posizione di neutralità, e in cambio il Donbass continuerà a costituire parte integrante della nazione. L’Europa revocherà finalmente le sanzioni alla Russia – rivelatesi finora del tutto stupide e controproducenti – e verranno lentamente ripristinati i rapporti di cordialità che i Paesi della “vecchia Europa“ avevano costruito con Mosca. Le ambizioni e la spinte anti-russe della “nuova Europa“ subiranno un netto ridimensionamento, ed è possibile che la marcata vocazione anti-russa del nuovo esecutivo polacco tenda a mitigarsi fortemente a causa della palese ostilità mostrata da Beata Szydło, Jarosław Kaczyński e tutti gli altri membri del partito Prawo i Sprawiedliwość nei confronti dell’Unione Europea. Si tratterebbe di una parabola molto simile a quella dell’ungherese Viktor Orbán, che da russofobo di prim’ordine si è trasformato in pochi anni nel più stretto alleato che Vladimir Putin ha in Europa. La Russia, in buona sostanza, sembra avere le carte in regola per far valere efficacemente i propri interessi e vincere questa pericolosa battaglia che la vede impegnata sul delicato fronte europeo, mentre anche sul versante mediorientale si registrano scosse telluriche (avanzata delle forze assadiste, rafforzamento dell’Iran, ricadute strategiche del fallito golpe a danno di Erdoğan) che tendono a indebolire la logora architettura geopolitica edificata dagli Usa nella regione. Il processo che conduce al multipolarismo sembra ormai diventato irreversibile.
(intervista a cura di Enrico Galoppini)