Il tesoro in bocca. Angelo Maria Ripellino, “Praga magica” e la sua lingua
di Loris B. Emanuel
Stravecchia e pertanto attualissima è la notizia secondo la quale la lettura dei classici arricchisca il patrimonio linguistico d’un lettore. E gli esempi, nell’idioma italico, sono innumerevoli. Ma bisognerà pur togliere un campione da questo vasto novero e proporlo all’attenzione di quanti ancora non lo abbiano accostato. Nella Praga magica di Angelo Maria Ripellino, eccelso slavista, troviamo una cornucopia. Non solo questo «dittamondo» è il guidaticum perfetto per inoltrarsi nella vita della città vltavina, ancorché sia stato pubblicato nel 1973 e parli pressoché solo della vecchia Praga, vivissima; ma vi troviamo un nubifragio di parole desuetissime ma italianissime, alle quali non solo non siamo disabituati ma mai fummo abituati e un periodare dall’eleganza quasi imbarazzante.
Leggere e rileggere Praga magica è una vera e propria operazione di igiene linguistica. Tre assaggi, sfilati quasi a caso, basteranno a squadernarne tutta l’insolenza davanti al brodo onomatopeico di prosa e strada d’oggi.
«Questo mio dittamondo praghese è un libro sconnesso, sbandato, a frastagli, scritto nell’insicurezza e nei mali, con disperàggine e con pentimenti continui, con l’infinito rimorso di non conoscere tutto, di non stringere tutto, perché una città, anche se assunta a scenario di una flânerie innamorata, è una dannata, sfuggente, complicatissima cosa […]. Come potrei scrivere con distaccata e sussiegosa dottrina, in bell’ordine, un esauriente trattato, soffocando la mia irrequietezza, il mio argento vivo col rigor mortis dei metodi e con la lana caprina delle pedanti disàmine? Vada invece intessendo un libro a capriccio, un agglomerato di meraviglie, di anèddoti, di numeri eccentrici, di brevi intromesse e di pazze giunte: e sarei felice se, a differenza di tanta ciurmaglia di carta che ci circonda, non fosse governato dal tedio». È la presentazione che però arriva solo ben diciotto pagine dopo l’inizio, ed è già una bella firma, se poi per soprammercato c’è l’incipit vero e proprio, che suona: «Ancor oggi, ogni notte, alle cinque, Franz Kafka ritorna a via Celetná (Zeltnergasse) a casa sua, con bombetta, vestito di nero. Ancor oggi, ogni notte, Jaroslav Hašek, in qualche taverna, proclama ai compagni di gozzoviglia che il radicalismo è dannoso e che il sano progresso si può raggiungere solo nell’obbedienza. Praga vive ancora nel segno di questi due scrittori, che meglio di altri hanno espresso la sua condanna senza rimedio, e perciò il suo malessere, il suo malumore, i ripieghi della sua astuzia, la sua finzione, la sua ironica carceraria». Un exordium accattivante, seducente, eroticissimo. Praga è Kafka e Hašek, quindi il lettore straniero si sente già a casa propria con i due compagni di tante letture che però sono ancora vivissimi e sei già dentro il cuore della città boema, che d’altra parte anche in essi da sé si riconosce e, con Kafka, ominosamente rincuora.
Tre, assai più oltre:
«Quel mucchio di fatiscenti casupole scoppiava di abitanti assiepati sovente a quattro a quattro ogni stanza, un pagliericcio in ogni angolo, e tuttavia questo nauseante ammasso di corpi non impediva di stipare in ogni casupola merci e di mettervi stie per le colombe e le oche. Così gli abituri della Città ebraica si apparentano per la strettezza alle case da bambola della Viuzza degli Alchimisti […]. Fra le catapecchie cadenti del ghetto gli ebrei camminavano barbi piombati, con l’alto cappello giallo, dalla punta adornata spesso di un bizzarro boccino, e con un tondino di panno giallo cucito sul caffetano. Con trepide mani va accarezzato ciò che è pittoresco, specie quando ha un risvolto di amara miseria e di umiliazioni. Uscendo dal ghetto nella Città Vecchia, gli ebrei erano, come fantocci di un “jeu de massacre”, assaliti dalla ciurmaglia con pietre e palle di neve. Rotolava per terra il capello puntuto, nei tempi nuovi il cilindro».
Eppoi la gragnuola di quelle parole ed espressioni. Spigoliam qua e là: achitofellisti, andare a stracca, antòra, castalda, atrabile, barbassori, núvolo, aduggiato, coltrice, scrignuta, flagiziosi e si va avanti per tutte le trecento e cinquanta pagine dell’edizione tascabile in una vertigine che mai, ripetiamo: mai, ha il sentore della spacconaggine.
Alcuni banfano di prosa siciliana, perché e non perché barocca. Dannatissimi ciarloni! Un gesto siffatto ha il potere di ridurre a minoranza concettuale Ripellino, invertendo la sentenza latina: amoveatur ut promoveatur, per poi ribaltarla ancora, questa volta fatalmente. E chissà perché poi toscano eguale a italiano e quando si tratta di Sicilia si camillerizza. Se si dice che la prosa di Ripellino di lì viene, non si erra – ma occorre specificare. Tant’è. Ripellino resta però un prosatore italiano, tra i più corruschi.
Un prosatore nel cui periodare affondano e sguazzano sugose visioni della città boema, nubifragi di autori ignoti ma – che qualche editore intercetti e si dia daffare – veracissimi, una manciata di notizie e osservazioni e intuizioni su Kafka, da ritenere a memoria e insomma tutto quanto vi sia da sapere, e non si sa, su Praga, capitale mitteleuropea: ebrei, alchimisti, cabalisti, scrittori, poeti, drammaturghi, anditi e scorci e più ancora.
Di AMR si sa poco e meno ancora si vede. Un filmato soltanto, in cui è intervistato sul caso Pašternak, del quale tradusse e importò per primo in Italia le poesie. Ci appare un classico siciliano, con annesso accento, dalla voce acuta, rigidissimo nell’attitudine, dal volto in giù, in evidente imbarazzo davanti al marchingegno. Il resto è isolamento, la tubercolosi di cui soffrì e morì, qualche – non molti – libri, su soggetti slavi o di poesie proprie.
Ma Ripellino – se non è già accaduto – dovrebbe confluire nelle antologie per studenti, ancorché poco possa servire, come testimonianza. La sua notorietà è relegata allo slavismo, a qualche nome in particolare, al succitato Pašternak e a Majakovskij, e appunto a Praga magica. Ma sospettiamo che se a incaricarsi della stampa e diffusione dei suoi libri non ci avesse pensato una casa editrice nota e politicamente corretta – Einaudi, di tanto in tanto meritoria – Ripellino sarebbe rimasto ancor più negletto. E ciò proprio a causa delle sue qualità.