Giuseppe Bottai, l’intellettuale tormentato

di Giovanni Di Martino

Giuseppe_BottaiGiuseppe Bottai era intellettuale ed era organico. Intellettuale lo era, anzi era l'”intellettuale”, avendo rappresentato la cultura durante il Ventennio fascista più di tutti gli intellettuali fascisti (e aderirono premi Nobel, poeti, scrittori e filosofi che a tutt’oggi vengono studiati a scuola). Organico lo era, perché non aveva aderito al Fascismo, ma lo aveva fondato, fatto crescere, diretto (occupando ben due ministeri di peso) e, infine, affossato. Tuttavia pur essendo Bottai un intellettuale ed un organico di regime, non era affatto un intellettuale organico, né in senso gramsciano, né in senso gentiliano. Era un unicum, uno che pur essendo molto coinvolto con tutte le vicende politiche e militari del Ventennio, faceva storia a sé.

Era un fascista romano e di sinistra, e già quello rappresentava un’eccezione. Se infatti è vero che una sinistra fascista, critica, fervente e rumorosa, è sempre esistita, è altrettanto vero che il Fascismo ha smesso di essere un movimento di sinistra a un paio di anni dalla nascita. I fascisti di sinistra, dunque, dovevano brillare di luce propria e, ad uno ad uno, sono stati costretti a mollare (De Ambris, Nenni, perfino Arpinati, Rossoni…). Bottai però ha retto, ha retto fino alla fine, fedele e quasi devoto al capo, ma al contempo fedele ai propri principi, che trasferiva nel suo lavoro prima di ministro delle nascenti corporazioni, occupandosi dell’attuazione della Carta del Lavoro, e poi di ministro dell’Educazione Nazionale, aggiustando il tiro della riforma Gentile, magnifica, ma forse troppo elitaria per un paese che cresceva.

bottai_venti_anni_e_un_giornoÈ stato alla scrivania finché il capo non lo ha mandato al fronte e poi di nuovo alla scrivania e poi di nuovo al fronte. Il tutto non gli ha mai pesato, avendo fatto la Grande Guerra come ufficiale degli Arditi. Ha lasciato dodici anni di diari (1936-1948) che hanno consentito allo storico Giordano Bruno Guerri di comporne ben due biografie semidefinitive. Nel proprio memoriale Vent’anni e un giorno ha scritto della necessità di fermare la “degenerazione fascista” iniziata nel 1936, e siccome proprio dal 1936 partono i suoi diari pubblicati, è possibile comprendere il modo in cui Bottai abbia vissuto interiormente questa degenerazione.

Il tormento per il regime che stava cambiando, Bottai ce l’aveva. Quindi la sua adesione al golpe del 25 luglio 1943 non è stata di sicuro una scelta opportunistica, ma dettata dal senso di responsabilità. L’epilogo del golpe (Mussolini arrestato e poi rimesso al governo dai tedeschi, il governo militare che si arrende senza condizioni) non era di certo quanto volesse perseguire. Ma andiamo con ordine.

primatoI diari (“quaderni” come li chiamava lui) esprimevano un malcontento lentamente cresciuto nella seconda metà degli anni Trenta. Si trattava di un malcontento istituzionale: Bottai, che aveva costruito il regime e ne era parte essenziale, si sentiva sempre più lontano dal governo di cui faceva parte. E non si trattava del nostalgismo di un quarantenne che rimpiangeva i bei vent’anni della guerra e dello squadrismo, o la purezza del Fascismo delle origini. Anzi le sue riviste (Critica fascista e Primato) concedevano infinito spazio ai giovani frondisti del partito, e lui stesso incoraggiava le nuove generazioni a dubitare e contestare. Non è che il regime gli stesse stretto, è che ne percepiva l’oblio avanzante.

Non una degenerazione corruttiva dunque, ma abulica. Bottai sentiva che il Basso Impero era incominciato e se ne doleva, seppure solo in privato. I colleghi di governo sempre più impegnati nel fare carriera, il partito burocraticamente troppo organizzato (che però senza il burocrate Starace naufraga miseramente), il capo troppo impegnato a comandare da solo su tutti i fronti, con le riunioni del Consiglio dei ministri che erano diventate delle mere assemblee in cui venivano comunicate ai ministri le novità.

Bottai contestava al capo (al quale, malgrado tutto, non riusciva a smettere di volere bene) di essere stato troppo democratico nel ’25, quando dovettero implorarlo di dichiarare la dittatura, e di comportarsi da accentratore proprio quando erano stati predisposti una serie di organi costituzionali ad hoc (sindacati, corporazioni, organizzazioni capillari di inquadramento politico…). Ma in tanti anni di dubbi e di divergenze non ha mai avuto la forza di andarsene sbattendo la porta (come per esempio aveva fatto Arpinati dieci anni prima), ed è rimasto in carica fino a quando il capo non lo ha silurato (nello sciagurato rimpasto governativo del febbraio ’43).

"Scheda" di Giuseppe Bottai nel volume "La Nazione operante", del 1928

“Scheda” di Giuseppe Bottai nel volume “La Nazione operante”, del 1928

Il precipitare della situazione militare e gli sbarchi in Sicilia dell’estate del 1943 lo convincono a fare il passo che fino a poco prima non aveva osato compiere. L’occasione è data dall’apporto di Dino Grandi, altro frondista doc (che però anche lui fino agli sbarchi alleati non si schiodava dalle sue poltrone di ministro e presidente della Camera), al golpe militare preparato dal Re.

Occorre precisare una cosa per avere ben chiaro cosa fu il 25 luglio. Il colpo di stato non lo hanno organizzato i gerarchi che hanno aderito all’ordine del giorno Grandi, né lo ha organizzato Grandi stesso. Il golpe era tutta farina del sacco dei vertici militari (Ambrosio, Roatta, Carboni, Cerica, oltre a Vittorio Emanuele), i quali, dopo aver capito (per ultimi) che la guerra era persa, si rendevano conto che la resa senza condizioni che gli si prospettava avrebbe significato smobilitazione delle forze armate e perdita dei loro privilegi. Il Re decideva poi astutamente di appoggiarsi ai gerarchi delusi dall’abulia del proprio capo, comandati da Grandi appunto, per dare al Duce una spallata costituzionale prima di attirarlo in casa propria e farlo arrestare.

Quindi i firmatari dell’ordine del giorno Grandi non si presentano alla storia come un gruppo di golpisti uniti e determinati, ma come un gruppo di notabili, la maggioranza dei quali aveva le sue buone ragioni di convenienza per tagliare la testa al capo. Grandi voleva farla finita con il Fascismo, ed era l’unico a conoscenza del fatto che Vittorio Emanuele avrebbe fatto arrestare Mussolini (salvo scoprire a cose fatte che il nome del nuovo capo del governo era diverso da quello che il sovrano gli aveva rivelato); Ciano sperava che il rimpasto derivante dal voto lo avrebbe portato a capo del governo per trattare lui la resa; De Vecchi era più monarchico che fascista e quindi preferiva il re al duce. Bottai si immaginava un Fascismo senza Mussolini, e con questo proposito si spaccò la testa per trovare una formula costituzionalmente ineccepibile per l’ordine del giorno.

bottai_guerriL’epilogo storico, da tutti conosciuto, vede Bottai arrestato nei quarantacinque giorni del governo Badoglio (con la motivazione che: non si sa mai…), poi rilasciato, e presto nascosto presso vari conventi, dai quali apprende della effimera resurrezione di Mussolini, e non manca di commentare con il solito stile beffardo e pungente la formazione del nuovo governo fascista. Resta sbagliata la sua previsione sul ministro delle Corporazioni Gay, divertente quella su Graziani a capo delle Forze Armate (definita “un capolavoro della perfidia mussoliniana”, dal momento che il duce aveva passato gli ultimi tre anni a invocare la fucilazione per Graziani dopo la disfatta libica), e indovinata quella sul futuro processo dei venticinqueluglisti, nel quale lui stesso viene condannato a morte in contumacia.

Il suo tormento interiore gli imporrà una scelta di estrema coerenza: dopo l’entrata degli Alleati a Roma smetterà di nascondersi e si arruolerà nella Legione Straniera Francese, restando in servizio per quattro anni. Una fine singolare, dato che fu l’unico dei “diciannove” che non abbia pensato solo a nascondersi ed abbia scelto di ricominciare da zero.

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