Che significa “depenalizzazione”?
di Giovanni Di Martino
Nelle ultime due settimane i giornali ed i telegiornali hanno dedicato ampi spazi al’approvazione di una nuova legge di depenalizzazione. Nuova perché non è la prima, ma l’ultima di una lunga serie iniziata con la famosissima Legge 689/1981. Fino al 1981 non c’erano state depenalizzazioni.
Cosa sia la depenalizzazione però viene spiegato per sommi capi e facendo molto riferimento al significato a cui il senso comune del termine rimanda. Depenalizzazione, dunque, cioè togliere qualcosa dal penale (per esempio il reato di “guida senza patente” in quest’ultima riforma, oppure l'”oltraggio” in una riforma di quindici anni fa). Quindi qualcosa che era illecito penale (ossia reato) non lo è più. Ma non essendo l’illecito abrogato e quindi cancellato, diventa un illecito non più penale. Diventa un illecito amministrativo, come scrivono i giornalisti più informati. Riepilogando, per esempio, il reato di “guida senza patente” non è più illecito penale (ossia punito dal Codice penale con un processo penale regolato dal Codice di procedura penale in un tribunale penale), ma, essendo stato depenalizzato, diventa un illecito amministrativo (che non sporca la fedina penale, viene sanzionato dalle autorità amministrative e contro il quale si può ricorrere al TAR e al Consiglio di Stato in appello).
In base al senso comune quindi sembrerebbe che l’illecito depenalizzato diventi una cosa meno grave o, quanto meno, sanzionata meno gravemente. Una riforma dunque più favorevole a chi li commette. Sembrerebbe.
In realtà, da dentro, ossia padroneggiando un minimo di competenza giuridica e mettendo insieme i pezzi, occorrerebbe focalizzare l’attenzione su due errori grossolani che la depenalizzazione, da oltre trent’anni, si porta dietro. Un errore di merito ed uno di forma.
L’errore di merito riguarda il tipo di illecito che il reato depenalizzato va a diventare. Un illecito amministrativo in teoria non ha senso, almeno in Italia. E questo per settant’anni è stato molto chiaro. Dal momento che, infatti, in Germania si depenalizza già alla fine dell’Ottocento, nei primi anni del secolo scorso il giurista Arturo Rocco (futuro estensore del Codice penale) scrive un saggio intitolato “Sul così detto diritto penale amministrativo”, in cui prende le distanze dalla trasformazione degli illeciti penali in illeciti amministrativi, spiegando che la sanzione, in caso di illecito, può essere di due tipi: risarcitoria/restitutoria, nel qual caso l’illecito è civile, sanzionatoria/afflittiva, nel qual caso l’illecito è penale. Non c’è spazio per una terza via, e quindi depenalizzare alla luce di questa distinzione è una forzatura.
L’errore di forma è ancora più grave perché, lungi dal rendere meno grave l’illecito depenalizzato, ne espone l’autore ad una perdita di garanzie di cui altrimenti avrebbe goduto. Gli autori degli illeciti penali, infatti, godono di alcune garanzie che derivano dalla delicatezza della materia. Tali garanzie, previste nei primi articoli del codice, sono state assorbite dalla Costituzione negli articoli 25 (irretroattività della legge penale, legalità delle misure di sicurezza) e 27 (principio della personalità della responsabilità penale e della colpevolezza solo dopo il giudicato). Si tratta di principi obbligatori per gli illeciti penali che dunque, per non esservi soggetti, dovrebbero essere necessariamente abrogati. Invece la depenalizzazione non li abroga, ma li trasforma (una truffa delle etichette insomma), lasciandoli in vita e sottraendoli alle garanzie che la Costituzione prevede.
La depenalizzazione come istituto è dunque anticostituzionale, e malgrado ciò è stata per l’ennesima volta approvata dal Parlamento, senza che ciò sia venuto in mente a nessun deputato o senatore. Niente male per un Parlamento composto da 222 avvocati, 9 magistrati e numerosi laureati in Giurisprudenza.