Occupazioni di case popolari: un punto di vista islamico
In questi giorni ha fatto molto scalpore la questione delle case popolari di Milano, alcune delle quali vengono letteralmente presidiate dai residenti, a causa del concreto rischio che, assentandosi, vengano occupate da abusivi.
La situazione dell’edilizia popolare in Italia è molto grave, fondamentalmente perché esiste a monte un menefreghismo spaventoso da parte delle cosiddette “istituzioni”.
Ma oltre a questo, c’è il concreto e pressante problema di una quantità crescente di stranieri giunti in Italia senza alcuna prospettiva, ma che una volta fatti entrare reclamano lavoro e… casa.
Così, accade che i più spregiudicati tra loro arraffino alloggi che non gli spettano, e ciò va a danno degli aventi diritto, che possono essere, oltre che italiani (i quali, ce lo si consenta, qualche “diritto” dovrebbero pur averlo), persino loro connazionali e/o correligionari.
Ora, diversi di questi occupanti lasciati liberi d’imporre la legge del più forte provengono da paesi di religione musulmana, professandosi essi stessi musulmani.
Ma al di là dell’ovvio stato di necessità (che tuttavia andrebbe vagliato nel dettaglio e caso per caso), esiste una questione “dottrinale” dirimente di fronte a queste situazioni, nelle quali chi è nel torto dovrebbe porsi qualche scrupolo morale alla luce della religione che professa.
Pertanto, senza alcuna pretesa di esaurire l’argomento, ci sembra utile ed interessante riportare, da una discussione intercorsa su Facebook, il parere di Gabriele Iungo, un giovane musulmano italiano che ha condotto i suoi studi islamici a Medina.
***
L’emergenza delle occupazioni abusive di abitazioni del demanio pubblico pone una duplice questione, giuridica e socio-economica.
In primo luogo, tali occupazioni – che costituiscono l’espropriazione di un diritto altrui – sono illecite (ḥarâm) tanto dal punto di vista della legge religiosa (šarî‘ah), quanto da quello del diritto positivo (qânûn).
Laddove tali illeciti coinvolgano Musulmani immigrati da altri Paesi, è necessario distinguere coloro che sono emigrati per una concreta mancanza di alternative per la propria sopravvivenza, da un lato, da coloro che sono partiti per “far fortuna”, in cerca di una vita più agiata e di un benessere maggiore rispetto a quello dei propri Paesi d’origine, dall’altro.
Rispetto ai primi, è necessario che le locali Comunità islamiche si assumano una maggiore responsabilità, in termini di accoglienza e di predisposizione di reti di solidarietà che mettano al riparo dal ricorso a forme più o meno gravi di illegalità e di coinvolgimento in attività criminali.
Rispetto ai secondi, è invece obbligatorio rimarcare come l’emigrazione (hijrah) dai Paesi musulmani verso Paesi non Musulmani sia proibita (ḥarâm) per coloro che non vi possano risiedere dignitosamente, tutelando la propria Religione e rispettando le regole di convivenza civile.
In un secondo intervento, dopo alcuni commenti pervenutigli, lo stesso Gabriele Iungo ha aggiunto:
Conosco personalmente diversi fratelli [nella fede, NdR] che, nel loro Paese d’origine, avrebbero beneficiato di un appartamento, di una piccola attività lavorativa, della possibilità di sposarsi e di una rete familiare disponibile a sostenerne le esigenze primarie; tuttavia, spinti dal miraggio di “far fortuna”, e credendo di seguire le orme dei primi migranti, si sono messi nelle mani di trafficanti, finendo poi per rendersi simili a schiavi, o per morire.
La Dottrina avrebbe protetto questi fratelli dalla loro avidità, così come molti altri da un’apostasia di fatto, se non proprio conclamata; allo stesso modo, la Dottrina avrebbe risparmiato ai Paesi arabi molte delle loro più recenti tribolazioni, così come avrebbe indirizzato gli sforzi delle comunità Islamiche all’accoglienza dei disperati che oggi affollano le nostre strade, prima che al pur doveroso sostegno di profughi presenti in altri Paesi.