Quando una società sprofonda nella lussuria la sua fine è solo questione di tempo
di Francesco Lamendola
La società contemporanea che si suole definire “occidentale” non è soltanto una società materialista, edonista e permissiva; una tale definizione, benché esatta, è ancora incompleta e, soprattutto, pecca di timidezza: è quasi eufemistica. La società odierna è letteralmente sprofondata nella lussuria, nel sadismo e nella violenza, fisica o mentale che sia; e ciò si accompagna ad una avidità insaziabile, a una cupidigia di beni chiaramente patologica, e ad una superbia intellettuale che deriva dall’avere deposto Dio dall’altare e dall’essersi assiso l’uomo stesso al suo posto, forte delle proprie conquiste scientifiche e tecnologiche e forte soprattutto, negli ultimi anni, della ormai raggiunta capacità di manipolare il patrimonio genetico di qualunque essere vivente.
Il fatto che non percepiamo più questa caratteristica, la lussuria sfrenata e distruttiva, per quello che è (mentre i pittori medievali la rappresentavano come una donna dalle fattezze diaboliche), sta a significare precisamente il fatto che ci siamo induriti nell’assuefazione, come il drogato è ormai assuefatto agli stupefacenti o come l’alcolista è assuefatto alla bottiglia. Quel minimo di consapevolezza che ne abbiamo, siamo soliti volgerlo in scherzo grossolano e, naturalmente, in auto-compiacimento: siamo fieri della nostra dissolutezza, ce ne vantiamo; peggio: anche se, personalmente, non vi indulgiamo in modo particolare, tuttavia siamo fieri che la nostra società ne sia impregnata. Ci sembra, così facendo, di apparire evoluti e disinvolti, come si addice a persone di mondo; e ci sembra, inoltre, che approvare una società lussuriosa ci consenta di tenere aperta la porta del piacere anche per noi, qualora potessimo e volessimo varcarla indisturbati, anche se in maniera moralmente non proprio onesta. Spingiamo la nostra superficialità fino al punto di vedere, nella disposizione alla lussuria di tutto il corpo sociale, un segno di superiorità rispetto ad altre società e ad altre culture: proclamiamo che tutte loro dovrebbero imparare da noi, che siamo così navigati e sapienti intenditori del buon vivere, e che quelle che non lo fanno, dimostrano, con ciò stesso, la loro arretratezze e la loro meschinità.
Infine, fra i motivi della fierezza che ostentiamo a questo riguardo, ce n’è uno, inconfessato, che è il meno accettabile di tutti: un misto di pavidità rispetto all’opinione della maggioranza, e di terrore di essere, qualora esprimessimo una idea diversa, derisi e compatiti, ma anche di passare per concupiscenti segreti e frustrati di ciò che, a parole, dicessimo di condannare. E questo è uno dei tanti “regali” avvelenarti della cultura del sospetto, di cui la psicanalisi freudiana è una delle più caratteristiche espressioni, nonché una delle cause più potenti: perché, da Freud in poi, chi afferma di trovare sbagliata e dannosa per la società l’istituzionalizzazione della lussuria, viene etichettato seduta stante come un vecchio sordido e bavoso, che arde e muore dalla voglia di potersi abbandonare a quei piaceri che suscitano la sua riprovazione. In tal modo, criticare l’erotizzazione esasperata e la lussuria senza freni della nostra società diventa pressoché impossibile: ci vuole un bel coraggio per farlo, sapendo di esporsi immediatamente alla gogna mediatica, che farà passare il malcapitato di turno per un libertino travestito da moralista, ossia per un ipocrita che unisce al bigottismo uno dei vizi dell’anima più sgradevoli, la falsità.
Ora, non è che gli intellettuali dei nostri giorni brillino e si distinguano per essere dei cuor di leoni. Si dicono tutti, o quasi tutti, battaglieri, militanti ed “impegnati”, propensi a “combattere” e ad ingaggiar “battaglie” a destra e a manca; tuttavia, a ben guardare, le sole battaglie che amano combattere sono quelle facili e del tutto senza rischi, dove il vantaggio è massimo e i pericoli sono minimi, se non addirittura inesistenti. Infatti, benché si diano un gran daffare per sembrare dei Titani in lotta contro Zeus e l’intero stuolo degli Olimpi, e assumono la posa di chi si espone a dei rischi tremendi e sopporta delle immani fatiche, pari alle dodici di Ercole, se non pure superiori, la verità dei fatti è che si scelgono sempre degli avversari – siano essi singole persone, oppure gruppi, istituzioni, idee, costumi o tradizioni – assai più appariscenti che temibili, privi di forza reale, con poco seguito e basi vacillanti; mentre, da parte loro, si premurano – ma senza averne l’aria, come chi vada all’avanguardia con aria apparentemente intrepida e decisa, ma lanciando veloci sguardi di sottecchi, per accertarsi di non andare da solo troppo avanti – di aver sempre le spalle ben coperte, sia dai poteri che contano, sia dalla stragrande maggioranza della cosiddetta “opinione pubblica”, o, perlomeno, dalla parte più chiassosa, più aggressiva e più tirannica di essa. Insomma, le classiche mosche cocchiere. E potrebbe mai essere che simili ometti, che simili pupazzi travestiti da grandi pensatori e da audaci innovatori, abbiamo il fegato di sfidare la cultura del sospetto, e di prendere francamente posizione contro la dittatura della massa? Sicché la lussuria dilaga nella nostra società, sempre più vittoriosa e incontrastata; e chi avrebbe la responsabilità di svolgere una riflessione critica sui fenomeni sociali e di costume – in questo caso specifico, come in tanti altri – tace o, peggio, si unisce al coro della generale approvazione.
Se poi qualcuno trovasse troppo severa, troppo dura, questa nostra analisi, provi a fare mente locale su come si è sempre comportata, e come continua a farlo, la critica letteraria, o cinematografica, o musicale, davanti al dilagare della lussuria nei romanzi, nei film, nei concerti; e su come ha piegato il ginocchio, riverente, davanti a tutti quei narratori, quei registi e quei cantanti che – magari con la foglia di fico della contestazione antiborghese, della provocazione culturale, dello spirito d’ironia, del surrealismo, del dadaismo, dell’ermetismo e Dio sa cos’altro – hanno cavalcato senza pudore, né vergogna, il cavallo vincente della pornografia più plateale (perfino sulle copertine dei libri e dei dischi e sulle locandine dei film). Un solo paragone storico si presta in maniera adeguata a descrivere la situazione della nostra società in preda all’esasperazione della lussuria: quello con l’Impero romano nel periodo della decadenza. Scriveva Lewis Mumford nel suo classico studio «La condizione dell’uomo» (titolo originale: «The Condition of Man», 1944; traduzione italiana di Alberto Mondini, Milano, Bompiani, 1967, 1977, vol. 1, pp. 51-56):
«In contrasto con i Greci […], i Romani elaborarono una religione del corpo su basi puramente muscolari e sensitive: invece di nutrire il super-ego, il culto romano sosteneva un rituale materialistico. Nelle istituzioni del circo, dell’arena, della pantomima i Romani crearono una specie di congegno per diminuire la tensione dovuta alle repressioni militari e civiche. Qui lo spettatore era il personaggio supremo: padrone di un’esistenza senza sforzo. Qui egli incontrava la morte senza correre pericoli; contemplava il pericolo senza dover dimostrare bravura; praticava la crudeltà senza esporsi a rappresaglie; o partecipava all’orgasmo collettivo per null’altro che il prezzo d’ingresso. […] Nell’arena vi erano le corse delle bighe; cioè la gara, l’eccitazione, occasioni per scommettere; ad onta dei pericoli corsi dagli aurighi, questo era forse il più innocente fra i divertimenti dei Romani.
Ma nacque nel circo un altro tipo di spettacolo. Vi si punivano i criminali; si facevano combattere uno contro l’altro i prigionieri di guerra fino alla morte di uno dei contendenti o d’ambedue; altri prigionieri erano gettati alle fiere per essere sbranati e divorati vivi. La punizione era in origine uno spettacolo pubblico, presumibilmente perché servisse di monito agli spettatori; ora serviva ad un altro scopo che dava piacere. Il popolo minuto di Roma, frustrato ed umiliato, spesso costretto a vivere in grosse case così mal costruite dagli avidi padroni che talvolta crollavano seppellendo gi inquilini fra le macerie, proiettava i propri terrori e le proprie umiliazioni sulle povere vittime. Gli oppressori erano intangibili; l’esercito sapeva donde provenisse il suo soldo. Così il popolo minuto si volse ai suoi simili e s’impinguò delle sue sofferenze. Da uno stomachevole sfruttamento nacque una vendetta ugualmente stomachevole.
Terrorismo, violenza e lussuria vennero sistematicamente organizzati in misura incredibile: la gente viveva alla giornata nelle gioie ingannevoli delle più ingegnose brutalità che mai abbiamo depravato il genere umano. I Romani divennero esteti della tortura. La richiesta di vittime allargò i limiti del delitto: come se i peccati non fossero abbastanza frequenti, si inventarono reati fantastici, bollando ad esempio quale mancanza di rispetto verso l’augusta immagine dell’imperatore il portare in una latrina o in una casa malfamata una moneta o un anello che portassero impresse le sue sacre sembianze. […]
Vorreste conoscere le caratteristiche precise di questi spettacoli? Ci vuole uno stomaco forte come quello che occorre per leggere la descrizione delle torture in un campo di concentramento nazista. […]
Ancora oggi vale la pena di leggere Seneca; poiché egli è un anello di congiunzione, in maniera molto più diretta di quanto non lo siano Epitteto, Marc’Aurelio, o Plotino, fra la filosofia cristiana e quella romana; un simbolo dell’impossibilità di sopportare all’infinito questi riti di crudeltà, tortura, avidità e lussuria, anche per un’indurita anima romana. […]
Se il sadismo divenne un assorbente rito collettivo, l’erotismo restava un prurito ossessivo. V’era stato a Roma un periodo nel quale la licenza era stata ammessa con sanzione religiosa, nei Saturnali: i misteri del sesso sono vicini al cuore di ogni religione. […]
Non ostante i divieti e le drastiche disposizioni di legge, l’adulterio divenne di moda e l’aborto necessario. I rapporti sessuali diventavano sempre più facili, erano dappertutto. Schiavi, prostitute, pederasti erano a portata di mano, pronti alla chiamata. Saziato il corpo, l’immaginazione lo stuzzicava di nuovo: quando i genitali non rispondeva più, l’occhio si pasceva di rivoltanti esibizioni di carnalità, quali quella descritta da Petronio in uno dei suoi festini del “Satyricon”.
Il circo liberava le inibizioni e favoriva l’eccitazione sessuale: i rapporti, più spesso che non si pensi, avevano nel circo la loro origine. […]
Circo, pantomima, festini, spettacoli, bagni pubblici debbono aver tenuto gli organi sessuali in uno stato di turgida aspettazione. E v’è forse da dubitare che in un tale stato di superstimolazione e fatica sessuale non si verificasse una diminuzione di interesse nel sesso ed un indebolimento della tensione sessuale? L’oscenità prese il posto del desiderio, mentre l’esibizionismo e la curiosità si sostituirono alla potenza e al piacere. Ciò che chiamiamo genericamente perversione è spesso l’arresto del corteggiamento sessuale a mezza strada del suo sviluppo: un momento fuggevole è estratto dal tutto, ed elevato a parte principale. E mentre la sublimazione, quando la si ricerca e la si trova, impiega l’energia sessuale e persino la eleva ad un livello superiore, la perversione la pone in disparte e l’esaurisce. In questo senso non è paradossale parlare di sessualità deficiente in un mondo dedito a fomentare la lussuria.»
Oggi abbiamo sostituito i massacri dal vivo del Colosseo con i massacri mediatici del cinema e della televisione, ma con molta cattiva coscienza: non verso la nostra ipocrisia, ma verso la pulsione sadica, che ci spingerebbe a imitare, anche in questo, la franca brutalità degli antichi Romani. In compenso, quando la violenza sadica accade per davvero, i mezzi d’informazione vi piombano sopra come tanti avvoltoi e si affrettano a pascere la nostra morbosità con quantità industriali di articoli di giornale e di programmi televisivi i quali, con la scusa dell’informazione, ci consentono di sguazzare fino alla cintola nelle nostre fantasie più sadiche e perverse: il tutto condito con il pepe del fatto di cronaca reale, cosa che rende il tutto più eccitante.
Molte sono le cause che ci hanno sospinti a questa deriva, e qui non possiamo analizzarle tutte. Certamente il potere economico gioca sui nostri peggiori istinti, li stuzzica e li solletica, perché la cosa rende un bel mucchio di quattrini. Ma sarebbe troppo lusinghiero, per noi, addossare ogni responsabilità a qualcosa che sta al di fuori. Il vero nemico, come sempre, è dentro: si annida nelle profondità della nostra anima. La lussuria è l’esito pressoché certo – Sodoma e Gomorra insegnano – delle società che hanno voltato le spalle a Dio. Perché la lussuria generalizzata nega non solo la legge morale religiosa, ma anche la legge morale naturale: la quale è ispirata agli uomini dalla dimensione soprannaturale. Essi sanno naturalmente ciò che è bene e ciò che è male, ma questa scienza non è frutto della natura stessa: è un dono che Dio ha fatto alla natura umana. Tuttavia, per poter fare buon uso di un tale dono, gli uomini devono rivolgersi a Dio: perché senza la Grazia, pur vedendo il bene, non sanno attuarlo, né perseverare in esso. Questa è la vera causa di ogni male…
(per gentile concessione dell’Autore – fonte: “Il Corriere delle Regioni”, 26 dic. 2015)