La mimosa antifascista della “donna resistente”

di Eresiarca

L’antifascismo è come la pubblicità. Se smetti di farla, la gente si dimentica del tuo prodotto. È per questo che anche la Coca Cola non smette mai di reclamizzarsi. Altrimenti la massa consuma altro.

Con l’antifascismo funziona allo stesso modo, con un’unica differenza: si può bere solo quello perché è l’unico che ha il diritto di farsi pubblicità.

E più passano gli anni e ci si allontana dai fatti, più la retorica antifascista e resistenziale alza il livello del battage, stabilendo una specie di “calendario” a suo uso e consumo, dai precisi contorni ideologici e, oserei dire, pseudo-religiosi.

I metodi sono diversi, ma solidali e convergenti verso un unico obiettivo: l’alienazione del popolo italiano. Nel senso che deve perdere se stesso, inseguendo falsi obiettivi.

boccasile_badoglio_rePer esempio, si può esaltare una data nefasta come l’8 settembre 1943, che vide il cosiddetto “armistizio”. Da qualche anno, non bastando il 25 aprile (quando si festeggia la ‘liberazione da noi stessi’), si è preso a “festeggiare” la data-simbolo della calata di braghe, del voltafaccia verso l’alleato. L’apoteosi del tradimento e l’inizio della “guerra civile” tra italiani sono così diventati una data da commemorare. Positivamente, s’intende. Roba che può accadere solo in un Paese in completo decadimento morale ed intellettuale.

Ma questa “religione civile” che è l’antifascismo, il cui culmine calendariale coincide con la “Giornata della Memoria”, non si limita a cambiare di segno quelle che, in un ambiente sano, sarebbero solo date da consegnare all’oblio o alla maledizione perenne.

È previsto anche l’assorbimento, lo sfruttamento per i propri fini, di altre ricorrenze per ricondurle agli obiettivi che si prefigge l’antifascismo stesso.

Quest’anno, cadendo i settant’anni dal 1945, c’è chi ha pensato bene d’intitolare l’8 marzo, “Festa della donna”, alle cosiddette “donne resistenti”.

I dettagli ce li possiamo risparmiare. Sono facilmente immaginabili. Un’apoteosi del “coraggio” delle “staffette partigiane” immortalato in un fumetto che, mescolando realtà (poca) e fantasia (parecchia), verrà presumibilmente fatto sorbire alle solite scolaresche, indottrinate senza ritegno.

Una sola versione, una sola “pubblicità”, e per giunta ingannevole, infatti, dev’essere portata a conoscenza di chi dovrebbe invece sviluppare la tanto celebrata “coscienza critica”.

Di che cosa si ha paura portando a conoscenza dei giovani studenti italiani la storia delle Ausiliarie della Rsi o delle donne in generale durante il Fascismo? Forse potrebbero scoprire esempi di abnegazione e di amor patrio insospettabili tra le fila del gentil sesso all’epoca del “male assoluto”; potrebbero rendersi conto che a conti fatti, paragonato col “diritto di voto” (e di essere votate) ottenuto nel 1945-46, le donne hanno più perso che guadagnato in settant’anni di “liberazioni” una più distruttive dell’altra.

ghersiPotrebbero anche impietosirsi per la fine allucinante di tante giovinette italiane come Norma Cossetto o Giuseppina Ghersi, di tredici anni, violentata, seviziata e uccisa da certi “eroi” per un tema in classe che aveva ricevuto il plauso di Mussolini. E poi ci si scandalizza per il video dell’ISIS!

Potrebbero essere portati, una volta tanto, tra uno Schindler’s List e l’altro, a vedere Il segreto di Italia; potrebbero, tra una pagina e l’altra di Anna Frank, meditarne anche qualcuna de La cartiera della morte.

Se solo queste poche cose venissero portate a conoscenza delle nostre giovani generazioni… L’Italia non sarebbe l’attuale greppia in cui s’ingrufa il primo barbaro che cala.

E invece niente da fare. Da una parte i Buoni e dall’altra i Cattivi, come nei cartoni animati. A maggior gloria della nostra sottomissione, da introiettare come uno stato d’animo d’intere generazioni, una “condizione dello spirito” permanente di una nazione. Tutto per mandare avanti il baraccone imbastito dai “liberatori”, mentre al popolo indottrinato si danno in pasto i classici specchietti per le allodole, come “l’antipolitica” e l’odio per la “casta”.

Si dice che la pianta si giudica dai frutti. Bene, se il Fascismo, col suo ‘culto del Littorio’, ha prodotto le famiglie numerose, le Ausiliarie e, se vogliamo rendere onore al loro coraggio, anche le “donne resistenti” (insomma, donne con… “due palle così”!); l’antifascismo che cosa ha prodotto? Donne che non vogliono più fare figli, “in carriera”, e che al posto di quelle qualità che configurano un “carattere” hanno saputo solo pretendere “diritti”, lagnandosi di continuo per una chimerica “parità” che non c’è e non potrà mai esserci semplicemente perché il maschio è una cosa e la femmina un’altra. Una “parità” che il Fascismo non aveva ipocritamente fatto balenare al loro orizzonte, insistendo sui doveri di ciascuno, dell’uomo e della donna.

girlpowerMa in un clima allegramente spensierato e deresponsabilizzante come quello “democratico”, la “donna resistente” – al di là del pretesto usato per assorbire quest’8 marzo nella macchina propagandistica dell’antifascismo – è l’unica cosa che abbia effettivamente senso al riguardo dell’attuale componente femminile della nazione italiana. Una donna che “resiste” per statuto, per partito preso; che si ribella a quello che dovrebbe essere il suo ruolo e la sua funzione, è la versione aggiornata della “donna resistente” di settant’anni or sono.

Il Fascismo e il Nazismo, difatti, per la “teologia antifascista” non sono solo, e soprattutto, due fenomeni storici, politici, sociali da contestualizzare nel tempo e nello spazio. No, sono eterni e si ripropongono di continuo, per cui la “donna resistente” non smette mai di stare all’erta contro i “rigurgiti” del Male assoluto, che potrebbero insidiarla persino tra le mura di casa.

La “staffetta partigiana” è così la donna “moderna”. Col fucile puntato contro l’uomo (cioè il “nazista” che è in lui) e la bicicletta pronta per correre dal giudice a recapitare la prova che inchioderà il sospetto “femminicida” e lo condurrà, si spera, al plotone d’esecuzione della “giustizia partigiana” incarnata nell’attuale diritto di famiglia.

Gli articoli de Il Discrimine possono essere ripubblicati, integralmente e senza modifiche (compreso il titolo), citando la fonte originale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*