Italiani vittime di stranieri: di questo passo ci scuseremo
di Enrico Galoppini
Quando ho saputo della brutta fine di Vittorio Brumotti, campione di bike trial ed inviato di “Striscia la notizia”, mi sono immediatamente chiesto perché mai la sua prima preoccupazione, dopo aver subito un pestaggio da degli albanesi, sia stata quella di “twittare”: “Non odiate gli stranieri”.
Brumotti è senz’altro quel che si dice un “personaggio pubblico”. E come ogni personaggio che ha un “seguito” ha senz’altro una responsabilità per così dire “sociale”.
E così si è sentito in dovere di esternare questo messaggio “distensivo” che, a mio modesto avviso, è un tantino fuori luogo (come effettivamente rilevano anche molti commentatori sulle “reti sociali”), poiché, stando proprio alle dichiarazioni del Brumotti stesso riportate dai giornali, il diverbio che ha dato luogo alla colluttazione (se non una vera e propria rissa) nella quale hanno avuto la peggio gli italiani, sarebbe insorto a causa del comportamento violento degli albanesi.
Ora, su tutto ciò dovrebbero far chiarezza gli inquirenti, limitandomi a rilevare che, mentre degli italiani i media forniscono le iniziali, degli albanesi manco quelle…
Veniamo al punto. Ci mancherebbe altro che ciascuno di noi si mettesse ad “odiare” ogni singolo straniero accasatosi in Italia appena uno di costoro ne combina una. Ma non è nemmeno questione di “non odiare gli stranieri”, come se si trattasse di un ente collettivo o una categoria da amare o odiare per partito preso. Il problema, come al solito, è posto male.
È questione, semmai, di chiedersi se per caso non ce ne siano troppi, di stranieri. E se, tra questi, non ce ne siano di completamente fuori controllo e/o di incompatibili con noi italiani. Ovvio che nessuna autorità può prevedere le azioni e le reazioni di ciascuno, stranieri compresi. Questa, tra l’altro, è l’obiezione di chi automaticamente predica che esistono anche delinquenti, spacciatori, violenti eccetera italiani d.o.c.
Quindi, per evitare, o almeno contenere, questo tipo di episodi, e cioè le sempre più numerose aggressioni di stranieri ai danni di italiani (quelle a parti inverse – mediaticamente interessantissime – sono in netta minoranza), bisognerebbe tagliare il problema alla radice. E cioè, contingentare al massimo questi afflussi (in base a criteri di effettivo bisogno economico, non di accoglienza “umanitaria”) e selezionare molto accuratamente, in base ad un “profilo” (etnico, sociale, familiare, psicologico, ecc.), chi beneficia della possibilità di stabilirsi qui da noi.
Si dirà: ma come si fa a fare le pulci a tutti? La riposta è facile: non dovrebbe essere questo il compito degli organi preposti a controllare le frontiere e a valutare ciascuna richiesta di soggiorno in Italia? Non dovrebbero, le cosiddette “autorità”, considerare tra i loro primissimi compiti la tutela e la salvaguardia della sicurezza e dell’incolumità dei connazionali?
Detto questo, esiste poi un problema quasi “etologico”. Gli appartenenti a differenti gruppi etnico-razziali che si ritrovano in un medesimo spazio non sviluppano quel senso di solidarietà e “di corpo” che un tempo – tra dati di fatto oggettivi ed ideologia – è stato definito “nazione”. In poche parole, con uno straniero si può oltrepassare “il limite” – compreso quello dell’offesa fisica – più facilmente e senza tante remore… Cadono anche i più banali freni inibitori perché non lo si sente facente parte dei “nostri”.
C’è poco da fare. Fermo restando che da nessuna parte e in nessuna epoca (salvo le recondite tribù dei più nascosti anfratti del pianeta) si sono mai avute realtà etnico-razziali omogenee e “pure”, si deve entrare nell’ordine d’idee che le attuali “migrazioni”, che stanno investendo la nostra terra come uno tsunami, oltre alle amletiche questioni che pongono al riguardo di chi effettivamente le controlla e ne beneficia, dimostrano, alla faccia di tutti quelli che negano le più lapalissiane verità, che l’essere umano, lungi dal trovare le ragioni profonde del legame sociale in fumose formule “contrattualistiche”, si comporta né più né meno come le altre forme animali. Organizzandosi in gruppi che si riconoscono “a pelle”, pronti a sbranare, senza pensarci tanto su, quelli che istintivamente non sono riconosciuti come affini e consanguinei.
Lo si chiami “razzismo”, o comunque lo si vuole, ma come minimo le reiterate e sempre più clamorose violenze che gli italiani si trovano a subire da stranieri qui residenti evidenziano come il fattore “identitario”, per non dire “etno-nazionale”, sia di quelli da considerare con la massima importanza, se non si vuole che da nazione “accogliente” gli italiani si trasformino, alla svelta, proprio in quei “razzisti” che non sono mai stati.
E d’altronde, considerata la vera e propria emergenza sicurezza che interessa ciascuno di noi (ed in particolare i meno vip, costretti a vivere in quartieri sempre più degradati e pericolosi), quand’anche negli italiani s’allignasse il germe del cosiddetto “razzismo” non ci sarebbe da dolersene per la sua “immorale impresentabilità”, bensì per il suo essere l’esito, in un certo qual modo cercato e perseguito a forza di provocazioni travestite da “nobili cause”, di una politica che chiamare irresponsabile e scellerata è come minimo eufemistico.
Rendere infatti l’Italia – una terra magnifica abitata da gente che, abituata ad attribuirsi i peggiori difetti, non è certo peggiore di certe etnie dal coltello facile e dalla “legge-fai-da-te” – un’invivibile “far west” o una “giungla” nella quale branchi di belve sbranano vittime predestinate al macello, quello sì, davvero, sarebbe una cosa “immorale” ed “impresentabile”, altro che discorsi.
Ma di questo passo, quest’esito che a qualcuno sembrerà esagerato o addirittura fantascientifico si paleserà nella sua assurda ed abnorme mostruosità. Le premesse ci sono, e così dicasi delle prime preoccupanti avvisaglie.
Assassini pressoché impuniti, tendenza diffusa a minimizzare e/o occultare, connivenza di tutto il cosiddetto “mondo della cultura” e dei “media”, con la ciliegina della benedizione papale.
E quando poi accade che persino chi perde un familiare in maniera atroce si preoccupa di non alimentare il “razzismo”, significa che siamo arrivati ad un punto oltre il quale c’è solo l’estinzione, non prima però di una lunga e penosa china di pene, dolori ed umiliazioni.
A tanto, probabilmente, si arriverà: che dopo il “perdono” in diretta e l’unica preoccupazione di “non odiare”, ci si sentirà in dovere di scusarsi.