Inghilterra: perché il referendum un anno prima?
di Michele Rallo
Gli inglesi – si sa – non amano l’Europa. E ancor meno amano l’Unione Europea. Unione che – al contrario – è amatissima dalla City, dalla Banca Rotschild, dai British Invisibles (quelli del “Britannia”) e da tutta l’onorata compagnia che, per il tramite di prestanome politici, detiene il potere reale nel Regno Unito.
Quando le forze occulte (ma non tanto) che volevano aprire il grande mercato europeo alle merci e ai capitali americani, decisero la creazione dell’UE, per l’Inghilterra si scelse una soluzione intermedia: adesione all’Unione, ma non alla sua “moneta unica”. Sì ai parametri antisociali di Maastricht – dunque – ma mantenimento della sterlina e rifiuto di scioglierla nell’acido corrosivo dell’euro. La Gran Bretagna – così – fa oggi parte dell’Unione Europea, ma non della “zona Euro”; e neppure della “zona Schengen”, il che le permette di sottrarsi elegantemente alle regole europee in materia di immigrazione.
Nonostante tutto ciò – comunque – in Inghilterra è nato un partito anti-UE, in continua e costante crescita: il Partito per l’Indipendenza del Regno Unito (UKIP), guidato dal popolarissimo Nigel Farage. Alle consultazioni europee del 2014 è stato il primo partito, con il 27,5% e con l’elezione di 24 eurodeputati. Alle elezioni nazionali – finora – è stato lasciato al palo da una legge elettorale che difende il bipartitismo conservator-laburista; ma i risultati eclatanti delle ultime amministrative e di alcuni turni suppletivi per la Camera dei Comuni, lasciano prevedere che l’UKIP si prepari a fare man bassa anche alle prossime consultazioni per il parlamento nazionale.
È in questo clima che è maturata l’alzata di genio del premier conservatore Cameron: promettere un referendum popolare con cui gli inglesi potranno scegliere liberamente se restare nell’UE o venirne fuori. Con la riserva mentale – è il mio personalissimo parere – di ottenere dall’Unione qualche piccolo sconto, da dare poi in pasto all’opinione pubblica britannica per tentare di erodere consensi al fronte euroscettico.
Il referendum avrebbe dovuto tenersi “entro il 2017”, e tutto lasciava credere che il premier inglese avrebbe atteso fino all’ultimo momento, prima di chiamare gli elettori a pronunciarsi sull’ipotesi secessionista. A sorpresa – invece – il leader conservatore ha anticipato di un anno la data per la consultazione (fissata al prossimo 23 giugno) ed ha aperto le trattative con la Commissione Europea per ottenere migliori condizioni per l’Inghilterra. Un avvilente gioco delle parti. Alla fine, la Commissione ha fatto finta di cedere, Cameron ha fatto finta di aver ottenuto un clamoroso successo, e il governo inglese (non tutto, in verità) ha fatto finta di credere che i vantaggi ottenuti potessero consentire di chiedere agli elettori di votare per la permanenza nell’Unione.
Se questo è il contesto, è lecito chiedersi come mai David Cameron abbia scelto di far svolgere il referendum un anno prima. Io mi sono dato una risposta: perché è meglio – per conservatori e laburisti, s’intende – votare adesso, con l’Unione Europea che è soltanto all’inizio di quella che, con ogni probabilità, sarà la sua crisi definitiva; e non l’anno venturo, quando la crisi avrà prodotto i suoi primi effetti, con il sistema di Schengen definitivamente sotterrato, con Italia e Grecia invase da una migrazione che i loro governi non vogliono fermare, con il sistema creditizio europeo allo sbando, con le elezioni presidenziali francesi alle porte e conseguente minaccia Le Pen sempre più incombente, e con la fine del mito di Angela Merkel, sfiancata dai previsti crolli elettorali se non anche dai futuribili guai di una certa banca tedesca.
D’altro canto, quello delle elezioni anticipate è un piatto tipico della bassa cucina “democratica”. Chi detiene il potere, si riserva di indire le consultazioni per il momento che giudica più conveniente per le proprie fortune elettorali. Lo sa bene il conservatore Cameron. Così come lo sa bene il sinistro Tsipras che, all’indomani della vergognosa conversione alla causa dei figli di troika, si è affrettato a convocare rocambolesche elezioni anticipate. Sapeva benissimo – il topolino del Pireo – che, se si fosse votato alla scadenza naturale, agli elettori greci sarebbe apparso chiaro che gli “impegni con l’Europa” non potevano essere mantenuti, neanche con un supplemento di macelleria sociale.
Senza contare quello che – per Cameron e per Tsipras, per Hollande, per la Merkel ed anche per il nostro Vispo Tereso – è un vero e proprio incubo: il nefasto trattato transatlantico di libero scambio, che gli americani vogliono a tutti i costi imporre all’Europa, ma che è a tal punto contrario agli interessi europei da poter determinare la fine politica di tutti i capi di governo che dovessero sottoscriverlo o avallarlo.
Ecco perché tanta fretta di consultare gli elettori inglesi. Ma non è detto che la ciambella di Cameron riesca col proverbiale buco. Anzi, il referendum di giugno potrebbe rivelarsi un clamoroso autogol.
Tutto dipende dalla stretta che gli USA tengono sull’Europa. Il loro potere si va sfaldando progressivamente grazie all’azione congiunta della Russia e della Cina per contenere il potere del dollaro e la diffusione del terrorismo, la loro testa d’ariete. Se il potere americano crolla allora, ognuno andrà per la sua strada, come s’incomincia già a intravvedere sulla questione dei profughi e su quella della spartizione delle risorse libiche. Se invece si dovesse arrivare al referendum, bisognerà tener presente la possibilità di brogli come quelli che occorsero in occasione di quello sulla secessione della Scozia dall’Inghilterra, come riporta questa testimonianza: “Secondo Georgy Fyodorov, presidente di Civil Control, un’associazione per il rispetto dei diritti elettorali: “In accordo con quanto i nostri osservatori ci hanno riferito nelle sedi di voto, c’erano molti più voti per il Sì durante il conteggio dei voti. La Scozia si è ritrovata sotto una pressione inimmaginabile… Il fronte britannico per il No ha commesso ogni violazione immaginabile” (RIA Novosti 19 settembre 2014, all’indomani del voto).
Già prima delle elezioni, un quarto degli scozzesi era convinto che ci sarebbero state frodi elettorali da parte del MI5, il servizio segreto britannico. Margo MacDonald, ex capogruppo nel Parlamento scozzese dello Scottish National Party (il partito di Salmond), avrebbe scritto una lettera al capo dell’MI5 Andrew Parker chiedendo l’assicurazione che il servizio di intelligence non sarebbe intervenuto nel referendum del 18 settembre (notizia riportata dal Sunday Herald del 9 giugno 2013). La MacDonald diceva di essere convinta che membri dell’MI5 operassero anche all’interno dello stesso SNP.”