La “salute integrale” nella prospettiva del Tasawwuf

di Enrico Galoppini

Alla base della concezione islamica (ed anche “sufica” in quanto il Tasawwuf altro non è che una via ascetica islamica) del benessere psico-fisico vi è l’idea che ogni “bene” ed ogni “male” provengono da Allâh, il Principio “uno” (ahad) ed “unico” (wâhid) dal quale promanano sia l’Essere che il non-Essere e tutti i gradi dell’esistenza (o stati dell’Essere) tra i quali vi è anche quello umano.

La relazione tra Allâh (lett. “Iddio”) e l’uomo (insân), creato “secondo la Sua forma” (‘alâ sûrati-Hi) dall’argilla (tîn), è concepita nell’Islâm come una relazione di servitù unidirezionale nella quale il servitore è l’uomo, esortato per la sua riuscita in questa vita a servire il suo Signore con la fede e le opere, le quali vanno sempre considerate in equilibrio ed in reciproca interazione, evitando squilibri in un senso o nell’altro. Questa natura servile dell’uomo rispetto al suo Signore, Che l’ha creato e gli ha affidato – come fa il padrone col servo quando deve assentarsi – il Suo “deposito di fiducia” (amâna) che persino gli angeli hanno rifiutato, è centrale per comprendere la natura del “benessere” nell’Islâm.

Di prim’acchito, però, condizionati dalla prospettiva antropocentrica moderna che fa proprio un concetto di “liberazione” autoreferenziale, cioè quello di un uomo “troppo umano” che prescinde dalla sua origine divina e che pertanto va ad applicarsi solo ai più disparati domîni politici e sociali, si è indotti a rigettare la prospettiva di una “schiavitù” dell’uomo rispetto al suo Signore. Tuttavia, l’osservazione del malessere esistenziale, interiore, della maggior parte dei nostri contemporanei ci invita a riflettere sul fatto che, alla fine, dichiarando la “morte di Dio”, l’uomo ha finito per incatenarsi sempre più a qualsiasi altra cosa eretta ad “idolo”, fosse pure un esaltante ideale o una persona cara degna dei nostri affetti. Ma nella prospettiva islamica, “sufica”, del benessere tutto ciò altro non è che “idolatria”; tecnicamente parlando, “associazionismo” (shirk), ovvero l’associare ad Allâh qualsiasi altra cosa che non sia Lui. Ed il peggior “idolo” dell’uomo è senza ombra di dubbio il suo ego (nafs), fonte d’ogni inganno ed ‘allucinazione’ quando non è ricondotto ad una condizione di “soddisfazione” (itmi’nân). L’ego, per la “psicologia” sufi è il tiranno più spietato dell’essere umano, e per questo tutta la pratica ascetica e la tenuta, in ogni istante (waqt), del mutasawwif (colui che lavora per raggiungere lo status del sûfî, del saggio) tiene il mirino puntato contro questa ‘tigre’ che ad uno stadio iniziale comanda il male (an-nafs al-ammâra bi-s-sû’), ad uno successivo di parziale ‘addomesticamento’ biasima (an-nafs al-lawwâma) e ad uno stadio finale diventa “soddisfatta” (mutma’inna) e dunque può “tornare” alla Casa del Signore.

La lingua araba rende perciò con la stessa parola nafs anche ciò che gli antichi greci indicavano con “anima”. In poche parole la nafs (in arabo è femminile, così come i nomi dei fuochi e degli inferni ai quali sono destinate quelle anime bisognose di ulteriore purificazione) è la peggior trappola tesa all’uomo da parte del suo Creatore: da una parte lo può condurre alla rovina, dall’altra, superando indefiniti gradi di purificazione (o di “politura”), lo può elevare al più elevato degli stadi (maqâm), fino a quello del ridwân (“compiacimento”), il quale prelude, nella relazione tra “servo” e “Signore” prima accennata, alla “liberazione”, al “riscatto”, del servo stesso da parte del suo Signore soddisfatto, compiaciuto di lui.

Tale “compiacimento” è reciproco, esattamente come la fede, in quanto uno dei nomi di Allâh è al-Mu’min (Il Fedele), dato che se aver fede vuol dire “affidarsi” è evidente che la fiducia per funzionare dev’esser reciproca. Ricordiamo di nuovo, a tal proposito, il “deposito di fiducia” (amâna, della stessa radice di “fede”) attribuito da Allâh all’uomo ab initio. Uomo che è dichiarato “califfo d’Iddio sulla terra” (khalîfat Allâh fî l-ard), cioè Suo vicario, con tutta la responsabilità che consegue da una simile investitura.

Ora, questa succinta disamina preliminare che forse potrà sembrare poco chiara ai non specialisti (ma che non risuonerà come ‘esotica’ ai cultori delle cose dello Spirito) era necessaria per inquadrare il problema del benessere psico-fisico nella prospettiva del Tasawwuf. Questo benessere ricercato dal discepolo di un Maestro (murîd, lett. “che vuole”… Allâh, poiché “Chi vuole Allâh avrà Allâh e chi vuole il mondo avrà il mondo”) è effettivamente un completo ed integrale “ben-essere”, cioè una condizione nella quale si viene a stabilire una certezza (yaqîn) al di là delle fluttuazioni alle quali il mondo, quando non è considerato per quel che è (“vero” al livello che gli pertiene), sottopone l’anima (nafs) che resta in balia delle sue stesse illusioni e pulsioni ‘animali’. Man ‘arafa nafsa-hu qad ‘arafa Rabba-hu: “Chi consoce se stesso consoce il suo Signore”.

Per coadiuvare il raggiungimento di quest’ambizioso obiettivo (ma in fin dei conti l’unico obiettivo che abbia un senso se si considera questa vita come un banco di prova per il Dì del Rendiconto – Yawm ad-Dîn) Iddio avverte l’uomo che il suo unico nemico è Shaytân, ovvero Satana, che etimologicamente parlando rimanda al concetto di “disunità” e “dispersione”, dunque a tutte quelle tendenze e forze centrifughe che albergano nell’uomo quando questi non è pervenuto ad uno stadio di assoluta certezza – al di là delle produzioni della mente – che “non vi è altra divinità se non Iddio” (Lâ ilâha illâ Llâh); ciò che può anche intendersi come: “Non vi è principio se non Il Principio”. Si tratta dell’attestazione di fede islamica (shahâda, che significa, come in Greco, anche “martirio”), la quale contempla una seconda parte che recita: “Muhammad è il Suo inviato” (Muhammad Rasûl Allâh; in altre versioni si premette a “il Suo inviato” “il Suo servo”, ‘abdu-Hu).

Iddio e l’uomo, dunque, tanto più che Muhammad – “il migliore della creazione” – significa “lodatissimo”, e se la lode appartiene esclusivamente ad Allâh (al-hamdu li-Llâh), il fatto che il Suo prescelto – e modello di vita per i musulmani – abbia questo nome significa che l’Uomo Perfetto o Universale è quello che riceve il massimo della lode dal suo Creatore.

Certamente quest’uomo destinatario della lode divina non è l’uomo ordinario immerso nel suo “sonno”, illuso che basti “comportarsi bene” e “non fare del male a nessuno” per ottenere il premio più ambito; per non parlare di chi – ed ormai si tratta della maggioranza delle persone – si disinteressa alla prospettiva dell’ottenimento del Paradiso e rifiuta, quasi che fosse un insulto alla sua persona, quella dell’Inferno. Stiamo parlando, piuttosto, dell’Uomo Universale, o Completo (al-Insân al-Kâmil); quello che in sé ha realizzato – secondo la “via muhammadiana” che il Tasawwuf ripercorre con tutte le sfumature dovute ai differenti carismi dei Maestri – le qualità divine, ovvero quei Nomi d’Iddio più belli (asmâ’ Allâh al-husnâ) che i pii musulmani (as-sâlihûn) sanno a memoria e recitano in formule “incantatorie”, e che permeano il linguaggio arabo-islamico persino nella vita ordinaria.

La menzione dei nomi d’Iddio oltre a quella di altre formule tra le quali vi è la prima parte dell’attestazione di fede (shahâda) è la forma di adorazione più elevata, persino più della salât, l’orazione “canonica” da svolgersi – per il benessere anche meramente fisico! – cinque volte al dì, in quanto è proprio il “ricordo” (dhikr) di Allâh a costituire il miglior rimedio a tutti i malesseri che colpiscono l’uomo dimentico della sua origine. E che proprio per questo suo oblio non sta bene, a prescindere, il che non ha nulla a che vedere con la “salute” modernamente intesa. Infatti, per testare questo ‘benessere’ che non poggia su solide basi basta vagliare l’atteggiamento di fronte alla malattia di chi non vede altra prospettiva che il mondo e quello di chi sa che oltre questo mondo esiste il Reale. Il primo si preoccupa di “stare bene” di nuovo (che poi coincide col ritorno alla sua precedente condizione, come se la malattia, tra l’altro, non rientrasse in un percorso di “evoluzione”), il secondo si rimette ad Allâh nella speranza non tanto di guarire (perché questo potrebbe non rientrare tra i Suoi piani) quanto di affrontare la malattia senza lamentarsi né deflettere dall’unico obiettivo di questa vita che è la Sua soddisfazione. Detto questo, la ripetizione incessante degli adhkâr (pl. di dhikr), col cuore sgombro da ogni pretesa, può avere, per Sua sola volontà, l’esito di una guarigione dalla malattia, oppure no, ma ciò non deve assolutamente turbare il musulmano, in quanto tutto ciò che promana da Allâh, sia il “bene” che il “male”, è da accettare con pazienza (Innâ Llâha ma‘a s-sâbirîn: “In verità Iddio è con coloro che perseverano”).

In ciò vi è il senso della parola Islâm, ed anche quella del nome d’agente correlato, muslim (“musulmano”), che potremmo rendere con “arreso”, “sottomesso” alla divina Volontà, quale essa sia. Volontà (irâda) che, per riallacciarci a quando dicevamo del discepolo (murîd) di un Maestro di tarîqa (“via”), è una delle qualità divine dell’essenza ed è, non a caso, della stessa radice del termine murîd. La volontà, difatti, non è prerogativa dell’uomo ordinario, letteralmente “irrisolto” perché agito dal desiderio, ma solo di chi, al termine della pugna spirituale contro il suo ego (jihâd an-nafs), raggiunge effettivamente il tawhîd, l’unificazione, uscendo dalla dualità nella quale si producono tutte le opposizioni valide sul piano che compete loro ma non più sul piano dell’origine principiale.

Gli atti del culto (‘ibâdât, della stessa radice di ‘abd, “servo; schiavo”) e l’azione nel mondo (mu‘âmalât), così come la fede in Allâh (îmân) e le opere pie (sâlihât), devono stare per il musulmano in costante equilibrio, perché da queste dipendono la sua salute fisica (sihha), quella psichica (salâma, lett. anche “salvezza”, della stessa radice di Islâm e muslim) ed il raggiungimento di quella “grande Pace” (Salâm) che i musulmani si augurano reciprocamente quando si salutano (as-Salâm ‘alaykum).

Ma tutto questo, benché provenga in ultima istanza solo da Allâh come un Suo liberissimo dono (“Allâh guida chi vuole e travia chi vuole”), non può essere raggiunto senza sforzo, uno sforzo individuale rettamente orientato (la “retta via” citata nella prima sûra del Corano) dal quale nulla è esentato, in quanto nulla è di per sé “profano”, mentre tutto, se lo si valuta nella sua manifestazione (tajallî) divina, è sacro, persino bere un bicchier d’acqua. Per questo prima di ogni atto il musulmano premette almeno un bismillâh (“Nel nome d’Iddio”): perché la vigilanza (murâqaba) – e l’esame di coscienza (muhâsaba) – rispetto a ciò che si fa (e si pensa) è fondamentale nella prospettiva e della salvezza e, su un piano più elevato, della realizzazione, appannaggio di coloro che, timorosi d’Iddio, ma speranzosi in Lui, sanno che “salute”, in ultima istanza, non significa solo “assenza di malattia”, ma raggiungere l’integrazione nel Principio, dove anche “salute” e “malattia” ordinariamente intese perdono il loro significato.

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