Che cos’è la religione?
di Enrico Galoppini
C’è un punto, al riguardo della religione, che non verrà mai sottolineato abbastanza. Eppure si tratta di un punto davvero importante. E, direi, centrale, per dissipare gli equivoci che aleggiano al riguardo, in un’epoca nella quale le religioni stesse, per un verso o per l’altro, vengono prese come pretesto principale per alimentare il famoso “scontro di civiltà”.
Chissà quante volte mi è stato riferito: “Conosco vari amici [marocchini, tunisini, palestinesi, siriani eccetera], musulmani, che comunque bevono il vino o la birra, e che non pregano, o pregano solo qualche volta”.
Una considerazione di questo tipo dovrebbe andare, nelle intenzioni di chi la esprime, a sostegno di un cosiddetto “Islam moderato” (o “laico”), secondo il modo di vedere di persone che – per il loro stesso stile di vita – non hanno tutti gli elementi necessari per comprendere bene che cosa è una religione e a cosa dovrebbe “servire”.
Per chi fa propria una mentalità “moderna”, un musulmano che beve alcolici o ignora le preghiere è, in un certo senso, “rassicurante”, perché dimostra, con la sua stessa esistenza, che “un altro Islam è possibile”. Che, misurato coi parametri del “laicismo” – o meglio dell’indifferentismo rispetto alla religione -, un musulmano di questo tipo, ben poco coinvolto dalla sua religione e dalla relativa pratica ed osservanza, è un bell’esempio di “tolleranza” e di “cittadino del mondo”.
Un musulmano simile saprà senz’altro “integrarsi” e non provocherà “problemi”. Non ci metterà di fronte all’“incomprensibile” e, perciò, al “minaccioso”.
Perché per la mentalità purtroppo ancora imperante – retaggio e punto d’arrivo di secoli di storia, di “filosofie” e di modi di vita “occidentali” e “moderni” – la pratica e l’osservanza di una religione sono l’anticamera dell’“estremismo” e del “fanatismo”.
Ma basterebbe possedere un barlume d’autocritica per rendersi conto che queste poco simpatiche inclinazioni non sono un’esclusiva della religione. Di una religiosità mal compresa e ridotta a “ideologia”.
E qui arriviamo al punto.
La religione – dal suo stesso punto di vista – si offre “provvidenzialmente” come un “metodo” per fare esperienza di ciò che va oltre la condizione meramente e “troppo umana”, al fine di pregustare e – nei casi d’eccezione – realizzare ciò che è veramente “oltre l’umano”, in questa vita e, soprattutto, in quella che ci aspetta dopo la “morte”.
Per il punto di vista religioso, infatti, la morte praticamente non esiste, come ordinariamente viene concepita da chi non fa propria alcuna religione. Per l’ateismo (dichiarato o di fatto) è completamente assurda l’idea di un “giudizio” che attende ciascuno di noi. Dopo questa vita, che è “l’unica vita”, c’è solo il “nulla”, il che è un modo come un altro per non porsi alcuna domanda, poiché tra questo “nulla” e il “vuoto” dei mistici esiste una differenza abissale. Da una parte, il nichilismo e l’indifferenza per “la domanda essenziale”; dall’altra il desiderio, la brama, dettata da un Amore inesprimibile a parole, di diventare uno “zero” per ricongiungersi finalmente a Lui.
La religione è, insomma, un “kit di sopravvivenza” nelle paludi del “mondo”, per non perdere la strada e predisporsi a quello che ci attenderà dopo l’inevitabile trapasso.
Ma non è una cosa “per tutti”. O, almeno, la meta finale non è appannaggio di “maggioranze” che devono essere “rassicurate” al riguardo. È una faccenda davvero elitaria, e per questo l’unica autentica gerarchia, senza possibilità di bluffare, è quella dello Spirito.
Con la religione si tratta perciò di adottare un metodo, uno stile di vita, nel quale il credo, la dottrina e la pratica, nonché la frequentazione di chi è “più avanti” di noi nella “via” (i Saggi e i Maestri), sono tutti aspetti solidali ed essenziali.
Una simile consapevolezza di che cosa è la religione non può però essere attribuita alla maggioranza di coloro che aderiscono, in senso anagrafico (cioè perché “ci sono nati”), alle differenti religioni. Per essi, la religione può essere certamente anche “esperienza” e un tentativo di “avvicinarsi a Dio”, ma è anche e soprattutto un fatto sociale, per cui la religione – specialmente in determinati contesti – finisce per identificarsi o costituire l’elemento cardine della coscienza collettiva di un popolo, tant’è che proprio chi non pratica e non osserva “la sua religione” diventa – non a caso più degli autentici e sinceri religiosi – preda della propaganda da “scontro di civiltà” sentendosi improvvisamente e per reazione “cristiano”, “musulmano” eccetera.
Ora, se è innegabile che ogni “agire religioso” si porta dietro una funzione sociopolitica, non è ammissibile ridurre la religione a questo.
A questo stadio che possiamo per l’appunto definire “sociopolitico” si ferma la maggioranza degli aderenti in vario modo ad una qualsiasi religione (compresi i militanti e simpatizzanti del cosiddetto “Islam politico”). Ma una volta precisato che anche questo piano non è affatto da svilire, dato che una comunità per ben funzionare deve avere dei “valori” ed un “folklore” condivisi, bisogna rimarcare con forza che il musulmano che beve alcolici e non prega non sta facendo proprio quel “metodo”, quel “kit di sopravvivenza” cui accennavamo (come, d’altra parte, il musulmano tutto “lettera” e “regole” finisce per inaridirsi ad un punto tale che lo Spirito gli è precluso).
Una religione, poi, è suscettibile di indefiniti “approfondimenti”, sia per quanto riguarda la dottrina che la pratica, ed ognuno non potrà che caricarsi sulle spalle quello che potrà portare, oltre che “comprendere” quello che il suo cuore (più che la mente) saprà contenere.
Pertanto, per tornare alla questione da cui siamo partiti, e per essere chiari, il musulmano che beve alcolici (o che salta da un letto all’altro, che pratica l’usura e via infischiandosene dei precetti della sua religione) e che non si cura delle preghiere né “ricorda” mai il suo Signore, è un musulmano per modo di dire, come i famosi “cristiani della domenica” (il che di questi tempi è già molto…) o che si recano a Messa per l’Eucarestia solo a Pasqua e Natale.
E per ribadire la fondamentale differenza qualitativa tra la religione come fatto sociale e la religione come ascesi dell’individuo, basti osservare che l’astinenza del mese sacro di Ramadan – comportando un aspetto “sociale” più rilevante – è più osservata nel mondo islamico rispetto alla pratica della preghiera.
Inoltre, se si riflette che la parola muslim (“musulmano”) significa, usando una perifrasi, “abbandono consapevole alla volontà divina”, ci si rende conto – se solo si ha dimestichezza con la religione al di là delle sue implicazioni sociopolitiche – che lo stadio del muslim, di colui che si è definitivamente “arreso” ed è perciò “in pace” (ecco il nesso tra Salâm, “Pace”, e Islâm, purtroppo tirato troppo spesso in ballo a vanvera), non è appannaggio “a prescindere” di un miliardo e mezzo di esseri umani per il semplice fatto di essere nati in una “famiglia musulmana” o di aver abbracciato la religione islamica ad un certo punto della propria vita.
Il muslim è perciò l’illuminato, colui che ha “risolto se stesso” vincendo la propria “animalità” e che ha compreso nel suo cuore che tutto appartiene a Dio e tutto ritorna a Lui.
Ciò significa dunque che tutti gli altri devono “scoraggiarsi” e “lasciar perdere”? Nient’affatto. Per esseri umani ancora “virili” nel vero senso del termine ciò suona invece come un incitamento a “progredire”, a “dare battaglia”, esattamente nell’autentico senso di quel jihâd oggi strapazzato da una parte e dall’altra, per opposti, ma convergenti, motivi.
Solo per dei pappamolla, per delle persone che prediligono sguazzare nella mediocrità e autogiustificarsi sempre e comunque, può suonare come una ‘buona novella’ il concetto moderno e “riformato” di religione, che accetta qualsiasi cosa e “promuove” tutti, indistintamente.
Beninteso, Iddio è anche Ghaffâr e Ghafûr, quindi sommo Assolutore e Perdonatore, per cui non c’è da disperare della Sua indulgenza, ma ciò non toglie che chi vuole impegnarsi a fondo con quel “metodo” che è una religione non deve in alcun modo addurre a sua scusante le sue proprie limitazioni e manchevolezze quando queste sono dettate da pigrizia o incuranza di ciò su cui era stato palesemente “avvertito”.
In poche parole, chi sa non può far finta di non sapere, perché se l’uomo può imbrogliare su tutto non lo può fare con la religione, essendo questa un mezzo provvidenziale che il Suo Signore – che tutto sa – gli ha fornito, assieme al “libero arbitrio”, per metterlo alla prova e, se vorrà, premiarlo o castigarlo una volta che si presenterà al Suo cospetto.