Il Duce profeta dietro il palcoscenico
Un rarissimo libro, di autore da chapeau, scopre un duplice lato sconosciuto di Mussolini
di Loris B. Emanuel
La notizia è vecchia ma, appunto per questo, oggi, nuova, anzi nuovissima.
Solo ai melomani e forse a qualche sparuto amante di cinema dirà qualcosa il nome di Giovacchino Forzano (1883-1970 e accento sulla «a»), passato alla storia – si fa per dire, ahinoi – quale autore di libretti d’opera per Leoncavallo, Mascagni, Giordano e Puccini, più altri ma trascurabilissimi. Risolta oggi dunque in una sempre più ristretta cerchia, la fama di quest’uomo dalla penna felicissima e dal piglio duro e schietto, meriterebbe invece ben altri numi, essendo egli, tra le altre faccende, l’autore d’un libro che ci rivela l’arte sua insieme a un’inedita pagina biografica d’un ben più celebre nome. Libro privo d’ogni traccia commerciale e in cui siamo incappati durante un’incursione in un mercato dell’usato, quindi del tutto “casualmente”.
È il 1954 e un editore fiorentino d’origini torinesi, il rinomatissimo Gasparo Barbèra, già amico e stampatore di Niccolò Tommaseo e che tra i collaboratori vantava Carducci, pubblica un tomo intonso ed elegante d’oltre cinquecento pagine, «con facsimili di autografi inediti», dal titolo a dir poco seducente: Mussolini autore drammatico. Seguono i nomi di tre pièce, Campo di Maggio, Villafranca e Cesare, scritte a quattro mani tra Forzano e colui che all’epoca dei fatti e della stesura era già il Duce d’Italia.
Forzano era in quegli anni una celebrità di bel peso nel teatro di prosa, nel giornalismo e nel cinema e chissà se lo sarebbe stato anche della medicina se avesse dato seguito alla sua laurea. Fu lui a fondare, nel 1934, gli Studi Pisorno, e furono la prima città del cinema in Italia, Cinecittà arrivando solo nel 1937. Il nome di Forzano aveva persino risonanza, e invidiabile, all’estero, non inferiore a quella d’altri illustri colleghi. Era un italiano del quale andar fieri, questo toscano della campagna fiorentina, e pure un liberale che diresse, negli anni in cui Mussolini era socialista, un certo «Giornale apuano». Fascista? Non si sa, dopo; forse che sì, forse che no. Padre di Andrea, cineasta non poco apprezzato tra la seconda guerra mondiale e il primo dopoguerra (Ragazza che dorme, La casa senza tempo, Imbarco a mezzanotte), e cineasta alla sua volta, dal 1915 (La Reginetta delle rose) al 1943 (Piazza San Sepolcro), con quattordici tra regie e co-regie. La sua arte librettistica, poi, ben campeggia nella sontuosa storia – librettame di Verdi a parte – delle collaborazioni tra genio e genio italiano nel teatro musicale. A contemplarlo oggi dalle macerie dell’«oscena creatura» (cit. Piero Buscaroli) che ci hanno lasciato i vincitori e i loro collaborazionisti, ci pare un gigante, era un gigante. E come gigante ebbe a che fare con giganti, ma in guisa tutta speciale, che egli stesso ci racconta nella «Mia collaborazione teatrale con Benito Mussolini», introduzione al volume di cui qui diam contezza.
«Tutti gli uomini politici più importanti del mio tempo li ho conosciuti sempre per cause dipendenti dal teatro», scrive raccontando del suo caffè offerto «ad un signore russo che parlava bene il francese e che… mi fece una grande impressione», ossia «Vladimiro Uljanov e cioè Lenin». E quando a Parigi «col povero Leoncavallo», si metteva in scena La Reginetta delle rose, conobbe, «in un’altra circostanza stranissima», un suo omonimo tedesco, futuro Ministro degli Esteri del Reich millenario: “Giovacchino” Ribbentrop. Ma fu nel 1911 che ebbe l’incontro fatale.
In una rivista teatrale, Forzano aveva sbertucciato il deputato socialista Bissolati, il quale, horribile visu, era appena stato in intimità con Sua Maestà: «Su fratelli su compagni/io mi avvio per altre scale/proprio in cima al Quirinale/splende il sol dell’avvenir» (lo si canti: funziona alla perfezione). Una satira all’epoca efficacissima. Tanto che un altro socialista, seppure non certo felice, anzi, per quell’ascensione quirinalizia, se la prese non poco, forse – ma non fu dato sapere di più – rivolgendo male parole all’indirizzo di Forzano, che aveva osato sgualcire non tanto il suo nemico Bissolati quanto il suo partito. L’autore della sapida invettiva, pur volendo sfidare a duello l’ignoto e ruvido socialista, lasciò poi andare, ché un suo amico lo avvertì: «Non è il caso: si tratta di un esaltato senza seguito». L’esaltato e per soprammercato senza seguito era tal Mussolini Benito. E questo fu il prologo in terra; quello in cielo e gli altri atti ci sarebbero stati di lì a qualche anno.
Passava il tempo e i rapporti tra Forzano e Mussolini, anche con polemiche pubbliche sbattute in faccia al Duce dal «Corsera», appunto si avvicinavano, e in parte o del tutto sempre con un Gabriele d’Annunzio, che stimava moltissimo il collega toscano, a far da tramite, per variegate e artistiche vicende. E poi fu la storia, o il coup de théâtre. Fu che una domenica mattina qualsiasi del 1928, un banale intoppo dell’autovettura fece imbattere Forzano in Giuseppe Bottai, e quest’ultimo, còlta l’occasione dell’indugio, propose all’artista la direzione d’un «teatrino trasportabile, anche per far vedere il teatro nei paesetti dove non vi sono teatri». Detto, fatto; e la faccenda portò dritto dritto Forzano al cospetto del «Boss» (cit. Ezra Pound), che in quel preciso momento storico era reduce dal Napoleone di Emil Ludwig, quello dei famosi Colloqui, e da altre letture bonapartiste, e, niente meno, da esse intendeva trarre «un dramma sulla fine di Napoleone». Inizia qui e così la collaborazione teatrale tra i due. E qui e così il Destino batte la sua grancassa ad accentuare un innesto che gli ignari e i semplici chiamerebbero “bizzarria” e “coincidenza”, ma che sono invero la sempre mirabile opera, appunto, del Destino.
I dialoghi tra Forzano e Mussolini sono puro teatro, ossia pura vita. Forzano, che a ogni passo si conferma uomo di testa fina, dice all’Uomo che gli siede di fronte, chiacchierando dell’imperatore francese: «Eccellenza, l’amore dei popoli per chi comanda dura fino a che le cose vanno bene…». E Mussolini, indispettito, s’inalbera, provocando l’alterco col “suo autore”. «Allora cosa pensate, se a me un giorno le cose dovessero andar male…?». «Eccellenza, faccia le corna e tocchi… ferro; il Re manderebbe quattro carabinieri a Palazzo Venezia, non si muoverebbe nemmeno…», e fa il nome dell’allora segretario del Pnf. Mussolini «ebbe uno scatto violentissimo», al che Forzano: «Eccellenza, io sono veramente mortificato di averla fatta così inquietare; ma purtroppo come Lei sa io debbo sempre dirLe quello che penso». E il Duce risponde per com’è fatto: «… e anche per questo voi sapete che vi voglio bene». (Simpatico l’uso del Lei di Forzano, non rimarcato dal “Crapun”).
Gli è che alla fine il dramma nacque, ricalcando non solo la verità storica del Bonaparte, ma anticipando quella del Duce stesso. Già nell’insospettabile anno 1930, anno VIII dell’Era Fascista, Mussolini fa dire a Napoleone, con rara lungimiranza: «Madre, voi avete veduto che il contagio del tradimento ha preso tutti… Quante anime sono rimaste luminose in questo buio che ho d’intorno? Ora tutti coloro che sono stati ai miei piedi, che hanno cantato i miei inni, che hanno profittato della mia fortuna, che io ho acceso con qualche mia favilla perché luce propria essi non avevano, tutti coloro che mi devono tutto, ora non troveranno fango sufficiente nelle paludi della Francia per scagliarmelo contro. Sarà un orribile spettacolo: ogni ingegno di scrittore verrà aguzzato nell’invenzione delle più perfide infamie da coprire questo mostro finalmente lontano e incatenato» (e poi appeso a testa in giù). Altro dramma, di poi, e altra profezia vennero col Giulio Cesare, che dal teatro sarebbe dovuto passare al cinematografo, terminando con queste parole, scolpite sullo schermo: «Giulio Cesare… non vedrà… declinare il rimpianto/per la sua tragica fine/voluta preparata e compiuta agli idi di marzo/… in nome di una menzogna/da coloro cui Egli aveva/dopo Farsaglia/salvata la vita/assassini e traditori/che Dante/supremo giudice/inchiodò negli inferni/per sempre». E fu così che il teatro divenne vita, e la vita d’Italia, da quelle idi di marzo, farsa, grottesca farsa, già vista e saputa un decennio e oltre prima.
Per questo che abbiamo tentato di sbozzare e per molto altro (la campagna antiebraica, gli Stati Uniti d’Europa, et coetera) vale la pena d’andare a ripescare Mussolini autore drammatico in qualche sperduta biblioteca, ché altrove non lo troverete, o di punzecchiare un editore coraggioso a che lo ristampi. Ricordando per inciso che «il teatro e la vita non son la stessa cosa», come fa dire Leoncavallo, amico e collaboratore di Forzano, a uno dei suoi Pagliacci. E così è – ma solo se vi pare.
Mi permetto di segnalare che sono autore di un libro uscito alla fine di giugno, intitolato “Scrivere teatro nel regime. Giovacchino Forzano e la collaborazione con Mussolini” (autore Marco Sterpos, editrice Mucchi di Modena, pp. ). In questo libro ho scritto sul teatro di Forzano, affermando che Forzano medesimo è un autore troppo ingiustamente dimenticato ed ho parlato anche dei tre drammi scritti da Forzano con la collaborazione di Mussolini e quindi anche del libro “Mussolini autore drammatico” curato pure da Forzano. Sarei molto grato di un cenno di riscontro. Marco Sterpos
Ultimamente mi sto parecchio interessando a Giovacchino Forzano in quanto, di origine, risulta essere un mio compaesano. Esattamente di San Piero Patti (me)
Il padre nacque proprio quí, in Sicilia nel 1853. Dopo che si trasferí in Toscana nacque il figlio Giovacchino che prese il nome dal nonno paterno che puntualmente ogni estate veniva a trovare nel paesello di origine per trascorrervi le vacanze.
Annovero Giovacchino Forzano come il mio più illustre concittadino del 900.