Enrica Perucchietti, Il mito dell’immortalità, I Quaderni del Bardo Edizioni, Lecce 2017
di Enrico Galoppini
Che buffo l’essere umano: cerca l’immortalità e pone le premesse per la sua dissoluzione.
A questo aforisma potrebbe ridursi una recensione dell’ultimo saggio di Enrica Perucchietti, Il mito dell’immortalità (I Quaderni del Bardo Edizioni, Lecce 2017). Senza aggiungere altro.
Tutto il resto non è noia, come cantava Franco Califano, ma è il racconto di un fallimento. O di un peccato, del peggiore dei peccati: quello di tracotanza, che lo porta a ribellarsi all’Ordine costituito pagandone poi le conseguenze (la punizione divina). Un peccato che lo induce a superare il suo limite, a non saper stare al proprio posto per fare affidamento sulla sua sola individuale “potenza”. Mentre è nella “posizione centrale” che Dio ha conferito all’uomo la migliore base di partenza per ottenere tutto, anche “l’immortalità”, e dunque Dio stesso.
Che cosa fa, invece, l’uomo ingannato dalla hybris? Parte col fare l’alchimista, quello serio, s’intende. Si tiene sulla “retta via” e consegue dei risultati. Qualcuno ce la fa. E con questo aiuta anche gli altri.
E sì che esistevano racconti terribili sui pericoli di una “immortalità” spuria, perseguita barando. Ma l’uomo s’è buttato a capofitto nella stregoneria (la chiamano “magia” ma è quasi sempre la stessa cosa), che ha più punti di contatto con la “scienza moderna” di quanto si pensi.
Ha cominciato a scambiare l’immortalità con la longevità. Che è una delle tante maschere del materialismo perché presuppone la negazione dell’anima. E dello Spirito che quella vivifica.
Tutto il resto, dicevamo, è storia di un fallimento che parte da un errore. Come quello degli spiritisti, per citare René Guénon che di pazzi sviati se n’intendeva.
Fino all’errore più crasso e pacchiano. Quello del trasferimento di memoria da un corpo umano all’altro o dei tentativi di ridare vita a cadaveri ibernati. Ed è ancora nulla rispetto a quello che bolle nella pentola dei novelli Dr. Frankenstein. Solo che nell’Ottocento questi “prodigi” inquietanti potevano solo essere intuiti da menti in grado di presagire la tendenza futura, mentre oggidì si tratta di possibilità che questa scienza prometeica nel peggior senso del termine sta spacciando per quello che non è: la “Liberazione” dalla morte.
O l’oltraggio alla Natura, che è quel che non riuscì nemmeno al Marchese De Sade mandandolo in bestia.
Il sogno di abolire la Natura è così il minimo comun denominatore di tutte le follie moderne: dall’Unisex all’utero in affitto (tutte cose di cui s’è occupata l’autrice), fino a questa parodia d’immortalità. Che, in fin dei conti, è nient’altro che l’altra faccia della medaglia di una parvenza di vita concepita come la permanenza, il più a lungo possibile (e senza farsi alcuno scrupolo), in questa cosiddetta limitata “realtà”.