Considerazioni sull’istituto del Califfato e la “Giustizia” nell’Islam
di Enrico Galoppini
fonte: “Eurasia”, 4/2007 (pp. 35-44).
L’istituto del Califfato (in arabo khilâfa, “vicariato”) emerge nella storia islamica immediatamente dopo la scomparsa del Profeta Muhammad (632), il quale non aveva designato alcuno dei suoi compagni alla guida della neonata comunità dei credenti (umma). Gli succederanno così i cosiddetti “califfi ortodossi” (al-khulafâ’ ar-râshidûn)[1], che nel corso di un trentennio circa, nel mentre esplodevano lotte tra differenti fazioni, si trovarono di fronte all’arduo compito di organizzare gli sterminati domini inglobati dallo Stato islamico. Questi califfi, nella loro funzione di “vicari dell’Inviato di Dio” (khulafâ’ rasûl Allâh), furono tutti eletti (secondo modalità diverse), mentre dal 661 s’instaurerà il potere di una dinastia, quella Umayyade (ad-dawlat al-umawiyya)[2], simbolo del ritorno al potere, sotto le nuove insegne dell’Islam, dell’aristocrazia mercantile meccana preislamica, di cui i Banû Umayya costituivano un influente clan. A quella, poi, dalla metà dell’VIII, e fino all’invasione mongola della metà del XIII sec., fece seguito la dinastia ‘Abbaside (ad-dawlat al-‘abbâsiyya), che già un secolo dopo la sua apparizione doveva confrontarsi con “sultani” ed “emiri” turchi e iranici ai quali concesse, obtorto collo, parte del potere, mentre nel X sec. la storia islamica presenta addirittura il caso di tre califfati concorrenti: quelli di Baghdad (‘Abbasidi), del Cairo (Fatimidi, in precedenza a Mahdiyya, sulla costa tunisina) e di Cordova (Umayyadi, esuli dopo la perdita di Damasco). In seguito, dagli anni Sessanta del XIII sec., sarebbe sopravvissuto un simulacro di Califfo ‘abbaside presso la corte dei sultani Mamelucchi del Cairo e, infine, dal 1517, con l’avvento degli Ottomani in Egitto, l’istituto andò in disuso, rispolverato – e snaturato – solo per motivi di prestigio e di propaganda (“panislamica”, per i musulmani caduti sotto un potere non islamico) nella seconda metà del Settecento[3]. La Repubblica di Turchia, nel 1924, avrebbe posto fine anche al discusso “califfato ottomano”. La questione sarebbe stata poi al centro delle attenzioni dell’intellighenzia musulmana, soprattutto “riformista” (ad es. Rashîd Ridà[4], ‘Alî ‘abd al-Râziq[5]), per tutti gli anni Venti e Trenta del Novecento, senza però che si pervenisse ad una proposta concreta.
Già nel passaggio dalla concezione elettiva del Califfato all’instaurazione del principio dinastico è possibile scorgere un momento fondamentale della storia islamica. Alla luce dell’odierno intenso – e spesso improvvisato – dibattito su “Islam e democrazia”, una delle prime domande che sorgono in chi vi riflette è quella concernente la “democraticità” (il termine va preso con beneficio d’inventario) dell’istituto califfale e del modello di governo che ne deriva: per trovare una risposta si dovrà indagare nei particolari la pratica di governo dei primi quattro califfi, il modo in cui essi intesero il loro compito e, soprattutto, le forme di legittimazione del loro potere.
L’esempio del primo califfo Abû Bakr (632-634) è molto istruttivo al riguardo.
Una volta eletto, affermò nella sua khutba (“allocuzione”) d’insediamento: “Sono stato scelto (incaricato), ma non sono il migliore tra voi; […] Il debole tra voi è forte perché io difenderò i suoi diritti, e il forte tra voi è debole presso di me. […] Obbeditemi finché obbedisco a Dio e al Suo Inviato, ma se disobbedisco a Dio non dovete obbedirmi”. Il suocero ed amico del Profeta pronunciò poi una frase molto significativa: “Se faccio bene, appoggiatemi, se devio, raddrizzatemi” (l’espressione esatta è taqawwum al mu‘wajj, “raddrizzare colui che devia”, e a‘waj, “storpio”, dalla stessa radice, sarà proprio un epiteto del Dajjâl, su cui torneremo nel finale)[6]. Corano e Sunna (esempio virtuoso del Profeta) sono, fin dall’inizio, la ‘Costituzione’ dello Stato islamico: “O voi che credete, obbedite ad Allah e al Messaggero e a coloro di voi che hanno l’autorità. Se siete discordi in qualcosa, fate riferimento ad Allah e al Messaggero, se credete in Allah e nell’Ultimo Giorno. È la cosa migliore e l’interpretazione più sicura” (Cor. IV, 59)[7].
Analoga indagine dovrà essere svolta per le successive dinastie califfali, per le quali un elemento in più da considerare sarà l’influenza di modelli imperiali greco-bizantini ed iranici. Per questo, nell’ambito di uno studio generale sul Califfato va riservato uno spazio ad una comparazione tra le diverse epifanie dell’idea d’Impero[8], o almeno di quelle che hanno influenzato nel concreto la pratica e la concezione del potere dei Califfi dell’Islam. In tale contesto, va sin d’ora rilevato che l’ultima grande dinastia islamica, quella ottomana, pur non arrogandosi il titolo califfale si considerò investita del titolo imperiale in quanto in possesso di Costantinopoli, “la sede dell’Impero”[9].
Un aspetto per cui è di estremo interesse approfondire la conoscenza di questo istituto è la convivenza nella figura del Califfo delle due funzioni “regale”, di “comando” (imâra), e “sacerdotale” (imâma). In quanto imâm il Califfo guida sia la preghiera che lo hajj, il Pellegrinaggio alla “Casa di Dio”, a Mecca; in quanto amîr al-mu’minîn (il Comandante dei credenti) è colui che deve condurre le ghazawât, le campagne militari, in cui si esplica il “jihâd minore”, quello in armi contro gli aggressori, ma anche contro un potere “ingiusto” (mentre il “jihâd maggiore è quello che ciascuno conduce – “con l’aiuto di Allâh” – contro l’anima concupiscente).
La “Giustizia” (‘adâla) è, non a caso, in tutti i trattati di teologia, il secondo elemento considerato dopo il tawhîd (Unità ed Unicità divine). Il Califfo – che è uno perché una è la Legge – deve perciò essere essenzialmente “giusto” (‘âdil). Ma in quale senso? Se il Capo supremo della umma è Allâh, supremo Legislatore, il Califfo è solo titolare di un mandato pubblico allo scopo di garantire il rispetto e l’applicazione della Sua Legge rivelata (sharî‘a) attraverso i giudici (qudât), senza alcun potere nell’ambito legislativo né in quello dogmatico[10]. Egli per primo deve sottomettersi alla Legge, e gli ‘ulamâ’ (i “dotti”), nella loro fondamentale indipendenza (non esiste, “provvidenzialmente”, una casta sacerdotale statuale), garantiscono che il potere del Califfo non sconfini nello zulm (“oppressione”), che si verifica allorché l’agire umano (compreso quello del Califfo!) non è vincolato alla sharî‘a e cade nella bid‘a, la “innovazione personale” (nella gestione degli affari pubblici) di cui furono accusati vari califfi[11]. In tale ambito, un’eloquente massima sovente ricordata è Lâ tâ‘a li-makhlûq fî ma‘siyyat al-Khâliq (“Non vi sia obbedienza ad una creatura che si ribella al Creatore”), mentre un’altra ben definisce il concetto di “giustizia” del Califfo: al-hukm bi-mâ anzala Allâh wa îsâl al-haqq ilà mustahiqqihi fî aqrab al-waqt (Il governo per mezzo di ciò che Allâh ha fatto scendere [ovvero il Corano] e l’attribuzione del proprio di diritto all’avente diritto nel più breve tempo possibile).
La mancanza di un successore designato da parte del Profeta, anziché essere un “problema”, è piuttosto indice del fatto che il diritto di scelta e di revoca spetta alla comunità, rappresentata dagli Ahl al-hall wa al-‘aqd (“coloro che [hanno il potere di] sciogliere e legare [il mandato]”: una sorta di “grandi elettori”). Costoro, dopo aver operato un’oculata “scelta” (ikhtiyâr), prestano la bay‘a (“patto”) a nome di tutto il popolo[12].
Questo è il modello, sebbene la “teoria del califfato” sia stata fissata significativamente solo dopo che il Califfo (‘abbaside) aveva perso gran parte del suo potere – diremmo “politico” – a beneficio di “emiri degli emiri” e di “sultani” turchi e iranici (Ghaznevidi, Buyidi, Selgiuchidi ecc.)[13]. Un’esauriente ricerca sull’istituto califfale dovrebbe perciò fornire un’ampia panoramica dell’elaborazione politico-giuridica culminata nel trattato di al-Mâwardî (m. 1058) Al-ahkâm al-sultâniyya (I principî del potere), nel quale si fissano le condizioni per l’eleggibilità del Califfo e vengono definiti i suoi doveri verso la umma (centrali sono i concetti di amâna, “buona amministrazione”[14], e di ‘adâla, “giustizia”)[15]. Questo è, in sintesi, il pensiero della maggioranza sunnita, sebbene una certa attenzione meritino anche le concezioni del potere delle varie “minoranze islamiche” (sciiti duodecimani, ismailiti, kharijiti ecc.)[16].
Sempre per rispondere a chi ravvisa – spesso in buona fede perché influenzato da pregiudizi moderni – un ‘deficit democratico’ nell’istituto califfale, uno degli obiettivi principali di uno studio di questo genere dovrebbe riguardare una delucidazione sull’effettivo potere del “popolo” nella scelta e nella revoca di un Califfo, poiché se in teoria (e nell’esempio dei “califfi ortodossi”) sono stabilite la presenza di un’assemblea elettiva (shûrà)[17], un’attività di controllo dell’operato del Califfo[18] e la possibilità di opporsi (mu‘ârada) ad un potere “ingiusto”, nella pratica ciò è stato difficilmente realizzabile, ed anzi vi sono stati teologi e ‘teorici della politica’ che hanno avallato tendenze quietiste che sconsigliano o addirittura condannano la “ribellione”[19].
La questione dell’obbedienza al Califfo è perciò strettamente legata al “consenso” verso chi compie “ciò che la comunità si attende”, ovvero la “buona consuetudine” compendio dei valori condivisi indicati (anche in età preislamica)[20] con un termine – ma‘rûf : “noto”, “conosciuto” – molto significativo. Il Corano, del resto, impone insistentemente al-amr bi-l-ma‘rûf wa al-nahy ‘an al-munkar (“Ordinare il Bene, la Giustizia – ovvero la “buona consuetudine” – e vietare il Male, l’Ingiustizia – ovvero ciò che la nega). Il nesso tra ma‘rûf e sharî‘a risulta perciò evidente nella gestione della cosa pubblica nell’Islam.
Nell’Islam, tutti i problemi di governo sono ricondotti all’interno della Legge rivelata: la questione della “legittimità” del Califfo è dunque quella di gettare le basi “legali” dell’intervento “politico” dei Califfi. Le prerogative del Califfo vengono per di più comprese in tutta la loro portata se le si considera in relazione organica rispetto al Corano e agli hadîth (tradizioni normative attribuite al Profeta) che vi si riferiscono. Entrambi, come si è già rilevato, rappresentano la “Costituzione” dello Stato islamico[21].
Un’approfondita indagine sul Califfato dovrebbe quindi permettere di stabilire se l’esercizio del potere nell’Islam sia una delle “forme della religione”, ovvero se “l’inscindibile connubio” di dîn (“religione”, tradotto molto impropriamente) e dawla (“Stato”, altrettanto improprio) non sia, a ben vedere, l’ennesimo equivoco sull’Islam, ricercando semmai l’Islam l’equilibrio tra queste due istanze, così come l’equilibrio è costantemente ricercato nel rapporto tra governanti e governati. Perciò, alla luce dei passaggi coranici e degli hadîth riguardanti l’esercizio del potere ed il rapporto tra governanti e governati, risulta interessante capire in quale misura tale ideale (non utopico) si è realizzato e, soprattutto, comprendere se il fatto che nel Corano si parli poco di politica sia, probabilmente, un altro falso problema, poiché il Califfo non è, appunto, un “politico”.
È importante altresì specificare che alcuni dei compiti del califfo sono sì “religiosi” (guida della preghiera e del pellegrinaggio a Mecca), ma rientrano tra le sue attribuzioni in quanto interessano l’ordine pubblico: non si è dunque in presenza di una “commistione di religioso e civile”, quanto di una sintesi che contempla due ambiti che il laicismo occidentale moderno considera separatamente e/o conflittualmente. Ciò premesso, è comunque di notevole interesse indagare – leggendo i vari autori musulmani che, da varie angolazioni, ne hanno parlato: Ibn al-Muqaffa‘, Abû Yûsuf, Ibn al-Athîr, al-Jâhiz, al-Bâqillânî, al-Juwaynî, Ibn Jamâ‘a, al-Fârâbî, al-Ash‘arî, Ibn al-‘Arabî, al-Mâwardî, al-Ghazâlî, Ibn Taymiyya, Ibn Khaldûn eccetera – il nesso tra le prerogative ed i compiti del Califfo e le istanze su cui insiste maggiormente il Corano: di nuovo, la “Giustizia”, piuttosto che la “Libertà” su cui indugia molto il “pensiero moderno”.
Un’ultima considerazione s’impone per restituire tutta la complessità dell’argomento. Il Corano contiene la parola khilâfa in rapporto ad Adamo – primo “Padre corporeo”, ovvero l’iniziatore del presente “ciclo dell’umanità” -, che vive una “caduta” dal Paradiso Terrestre solo apparente, poiché così “perfeziona le sue conoscenze” e prende il posto di Dio nella creazione (khalîfa ‘alà sûratiHi, “Vicario a Sua immagine”), tanto che di fronte a lui anche gli angeli devono prosternarsi (II, 30). E la contiene anche in rapporto a Davide, archetipo della regalità[22]. Per la tradizione islamica, inoltre, anche il Profeta Muhammad è “Califfo” in quanto “Padre degli Spiriti” (Abû al-Arwâh). La questione del Califfato, perciò, s’intreccia con quella del rapporto tra l’uomo e i profeti, i re e i profeti, ma anche con l’escatologia, poiché la questione riguarda l’avvento del Mahdî, ovvero di colui che verrà a ristabilire la Giustizia in terra dopo l’avvento del Dajjâl (al-Masîh ad-Dajjâl, il “Messia impostore”, “l’Anticristo”), poiché egli sarà “l’ultimo Califfo di Dio” (e non, si noti, “Califfo dell’Inviato di Dio”), dato che il suo governo sarà veramente “conforme all’Ordine divino” decretato nel Corano[23].
L’esoterismo islamico indica che l’autentico Imperium potrà risorgere solo da colui che ha realizzato inbisât e ‘urûj (“ampiezza” ed “esaltazione”), che corrispondono rispettivamente alla funzione regale, il cui ambito d’applicazione è il mondo manifestato (‘âlam ash-shahâda), e alla funzione sacerdotale, che ha pertinenza sul mondo non-manifestato (‘âlam al-ghayb). La funzione del Califfo è perciò la medesima dell’Imperatore, o quella del Pontefice (inteso nel suo autentico senso), e simboli di queste due realizzazioni complementari sono rinvenibili in tutte le tradizioni, dal simbolismo della Croce al Mi‘râj (ovvero “ascesa” del Profeta, di cui parla la sura XVII)[24].
Ad un secolo circa dall’abolizione del cosiddetto “califfato ottomano” da parte di chi non aveva alcun titolo per pronunciarsi su questa materia[25], l’Islam non ha più avuto un Califfo. L’Islam è quindi “orfano del Califfo”? In altri termini, il Califfato è un istituto necessario affinché l’Islam sia vivo ed operante e la umma difesa da tutte le forme d’insidia che – secondo vari teologi – giustificano il ricorso al jihâd? Oppure il Califfato è una questione chiusa che verrà riaperta, assieme al ripristino della Giustizia, solo alla “fine dei tempi”?
NOTE
[1] Abû Bakr as-Siddîq (632-634), ‘Umar ibn al-Khattâb (634-644), ‘Uthmân ibn ‘Affân (644-656), ‘Alî ibn Abî Tâlib (656-661).
[2] Il termine dawla, sovente tradotto con “Stato”, implica invece l’idea di “alternanza”. La storia islamica non è perciò una storia di “Stati”, com’è invece, quella europea.
[3] Trattato di Küçük Kaynarca, tra ‘Abd el-Hamîd I e Caterina di Russia (1774).
[4] Al-khilâfa aw al-imâmat al-‘uzmà [Il Califfato o l’Imamato supremo], al-Qâhira 1922.
[5] Al-Islâm wa usûl al-hukm [L’Islam e le fonti del potere], al-Qâhira 1925.
[6] ‘Afîf ‘abd al-Fattâh Tabbâra, Rûh ad-dîn al-islâmî [Lo spirito della religione islamica], Dâr al-‘ilm li-l-malâyîn, Bayrût 1995, p. 342.
[7] Nella traduzione a cura di H.R. Piccardo, con revisione e controllo dottrinale dell’UCOII, Newton & Compton, Roma 2003. Corano e Sunna sono inoltre, significativamente, le prime due “fonti del Diritto” (usûl al-fiqh).
[8] Cfr. C. Mutti, Imperium. Epifanie dell’idea di Impero, Effepi, Genova 2005. Si noti che Selim I, conquistatore dell’Egitto (1517), non attribuirà alcuna importanza alla presenza del “Califfo” ‘abbaside presso la corte mamelucca.
[9] Cfr. C. Mutti, Roma dopo Roma, “Eurasia”, 1/2004, pp. 95-108.
[10] Al Califfo resta la giurisdizione d’Appello e la facoltà di dirimere le controversie tra amministratori ed amministrati.
[11] Tra l’altro, la protezione della religione dalla bid‘a (con l’ausilio degli ‘ulamâ’) è proprio uno dei compiti del Califfo, che deve difenderla anche dai “nemici” (mu‘tadûn), sebbene talvolta il “nemico” sia stato definito tale perché… avversario della dinastia! È altresì degno di nota il fatto che la terza “fonte del Diritto” è messa direttamente in relazione con gli ‘ulamâ’, dei quali viene così esaltata la funzione istituzionale di “contrappeso” nonché ribadita la preminenza, nell’ambito dottrinale, rispetto al Califfo: essa è l’Ijmâ‘, o “consenso” dei “dotti” rappresentanti la umma.
[12] A partire dal Califfo umayyade ‘Abd al-Mâlik (685-705) verrà indicato il successore attraverso l’istituto del walî al-‘ahd (beneficiario del ‘contratto’): la bay‘a diventa così sempre più una formalità. Si noti anche che ikhtiyâr (“scelta”) ha la stessa radice di khayr (“bene”, “meglio”): tra i segni dell’Ora vi è che “i peggiori governeranno”…
[13] Come si è visto, il Califfo è il vertice dell’Esercito (jaysh), ed è lui che ne sceglie i capi, inizialmente revocabili. Ma i capi militari a poco a poco deterranno la forza reale e il potere finanziario (come esattori delle tasse): nasce così la figura dell’Amîr al-umarâ’ (“Emiro degli emiri”, 935-1055), dal 945 una vera dinastia (iranica sciita, dei Buyidi o Buwayhidi), col Califfo che manterrà però il controllo della sfera giudiziaria.
[14] Al-Amîn, “fededegno” (della stessa radice di amâna), era l’epiteto del giovane Muhammad. Nella “buona amministrazione” rientrano le cariche pubbliche, i soldi dello Stato, i diritti degli individui e delle collettività.
[15] Queste, per sommi capi, le condizioni per l’eleggibilità di un Califfo: 1) Giustizia; 2) Scienza delle cose di governo ed amministrative; 3) Sensi a posto: udito, vista e parola; 4) Organi sani: in grado di spostarsi ed alzarsi in piedi; 5) Saper amministrare i sudditi e prendere provvedimenti d’interesse generale (maslaha); 6) Coraggio e ardimento nel proteggere il watan (il “Paese natale”, la “Patria”, ma anche il luogo in cui si risiede) e condurre il jihâd contro il nemico; 7) Discendenza dai Banû Quraysh (il clan cui apparteneva anche Muhammad): per certi teorici questa divenne una condizione superata, anche se raramente alcuni parlarono di a‘jâm (“non arabi”).
[16] Gli sciiti duodecimani insistono sui diritti all’imamato da parte dei membri della Famiglia del Profeta (intesa come discendenza diretta, da ‘Alî e Fâtima): Muhammad stesso avrebbe investito ‘Alî a Ghadîr Khumm, tant’è che gli sciiti celebrano anche questa ricorrenza. Per i Fatimidi (909-1171), sciiti ismailiti, il califfo possedeva la ‘isma (“infallibilità”): è interprete della Legge, fonte della Conoscenza e walî Allâh (“amico intimo di Allâh), così nel 1017 il califfo al-Hâkim si fece proclamare “incarnazione della divinità”; la designazione del successore (di padre in figlio) era resa nota solo alla morte del defunto califfo. Gli Zayditi (discendenti di un nipote di Muhammad, al-Hasan), in Yemen dal 901, si attribuirono i titoli di amîr al-Mu’minîn e al-hâdî ilà l-Haqq (“Colui che guida verso la Verità”), ma non ha la ‘isma; semplicemente dotati di “scienza” e di virtù “guerriere”, stabilirono che la successione non dovesse avvenire di padre in figlio, contando invece le qualità del successore. Per i Kharijiti, infine, Califfo dev’essere semplicemente il più meritevole, nel senso di “musulmano più probo”.
[17] Shûrà ha la stessa radice di tashâwur (“consultazione”): la scelta del Califfo si basa sul principio del tashâwur fî man huwa ahaqq bi-riyâsatihâ (“consultazione su chi ha più diritto a guidarla [la umma]”).
[18] Haqq al-ishrâf ‘alà al-hukûma (lett. “diritto di sovrintendere al[l’attività del]Governo”), che spetta a Kullu wâhid min al-Umma fî mâ yarâhu akhtâ’ fîhi (a “ciascun membro della Comunità che vi individua degli errori”), mentre il giudizio (muhâsaba, lett. “regolare i conti”) spetta ai già citati Ahl al-hall wa al-‘aqd.
[19] “Obbedite ad Allâh e al Messaggero e a coloro di voi che hanno l’autorità […]” (Cor. IV, 59).
Sulla base del riferimento a “coloro di voi” vi è chi ha dedotto che ad un potere non musulmano il musulmano non deve obbedienza.
[20] Cfr. E. Galoppini, Gli Arabi prima dell’Islam, “Rinascita”, 24-25 nov. 2007, pp. 10-11 (http://www.rinascita.info/cc/RQ_Cultura/EEAyplyVuVTWalOzUx.shtml ).
[21] Qui non c’è lo spazio per tutti gli approfondimenti che l’argomento richiederebbe, ma basti rilevare che nella funzione di Amîr (“regale”, “di comando”) il Califfo costituisce, oltre al vertice dell’Esercito, anche il vertice del Governo (hukûma, da una radice che implica i concetti di “giudizio” e di “sapienza”). Ma nel tempo emergono segretari e wazîr (“ministri”, inizialmente revocabili) poiché progressivamente il Califfo si disinteressa della conduzione degli affari di governo. Del pari, sorgono pretese indipendentiste da parte dei governatori delle Province (wilâyât), che sin dall’inizio dell’epoca ‘abbaside (750-1258), a partire dalle regioni periferiche (ad es. l’Ifrîqiyâ, con gli Aghlabidi, dall’800), si trasformeranno in dinastie di fatto autonome (sebbene riconoscessero l’autorità suprema del Califfo). Da quel punto in poi, la storia dell’istituto califfale si dipana – a parte alcuni tentativi di “restaurazione” operati da alcuni Califfi – in una progressiva perdita delle sue prerogative: il Califfo ‘ostaggio’ al Cairo presso i Mamelucchi, ai quali conferiva la “investitura” perderà anche il potere di battere moneta (sikka, “zecca”) e non sarà più colui che pronuncia la khutba (“allocuzione”) in occasione della preghiera del venerdì.
[22] “«O Davide, abbiamo fatto di te un vicario sulla terra: giudica con equità tra gli uomini e non inclinare alle tue passioni, ché esse ti travieranno dal sentiero di Allah». In verità coloro che si allontanano dal sentiero di Allah subiranno un severo castigo per aver dimenticato il Giorno del Rendiconto” (Cor. XXXVIII, 26).
[23] Su questi aspetti è di fondamentale importanza il lungo saggio di Paolo Urizzi Regalità e Califfato, citato nella bibliografia che segue.
[24] Molto importante per comprendere gli aspetti escatologici legati all’istituto califfale è la sura XVIII, al-Kahf (“della Caverna”), centrale rispetto al Corano, che contiene, tra le altre, “la storia di un gruppo di giovani che abbandonarono la loro città e si ritirarono in una caverna, per sfuggire alle persecuzioni di un tiranno “pagano”, che voleva costringerli ad abiurare il loro credo. […] I vv. 83-98 parlano del “Bicorne”, che la gran parte dei commentatori identifica con Alessandro il Macedone, basandosi su un detto dell’Inviato di Allâh: “…è il greco che fondò Alessandria” (Tabarî XVI, 8). Il Bicorne spazia tra gli estremi orizzonti terreni recando un messaggio di fede, di giustizia e di conoscenza e giunge ai limiti del mondo conosciuto, dove vivono Gog e Magog. Il Bicorne imprigiona queste creature che hanno caratteristiche subumane e sembrano rappresentare tutta l’animalità insita nell’individuo, elevando un vallo di ferro ricoperto di rame, dietro il quale rimarranno confinate fino al giorno in cui, nei tempi ultimi, sciameranno da ogni declivio”. Il Corano., cit., p. 253. Nella vicenda della Caverna abitata dai “dormienti” è fondamentale la presenza del “loro cane” (il Veltro ghibellino?), che “era sulla soglia, le zampe distese” (XVIII, 18): ciò significa che anche nel momento di estremo occultamento della Tradizione vi sarà chi si manterrà sveglio ed avrà coscienza del passaggio ad un nuovo “Ciclo” (l’esoterismo islamico individua nel Cane il wazîr al-Mahdî, il suo “aiutante”; cfr. P. Urizzi, art. cit.).
[25] Per capire in quali ambienti viene escogitato tale provvedimento, cfr. M. A. Schwarz, L’eredità di Sabbetay Sevi, “Eurasia”, 1/2004, pp. 109-118.
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Bibliografia orientativa
Poiché l’argomento di questo articolo è estremamente vasto e complesso, si fornisce al Lettore una bibliografia affinché possa eventualmente approfondirne alcuni aspetti, sia di carattere teorico che storico. Sono perciò indicati studi sul Califfato e sul rapporto tra Islam e “politica”, altri sulla storia delle varie dinastie islamiche, altri ancora su temi che, sebbene in maniera meno evidente, hanno uno stretto rapporto con la questione del Califfato e della “Giustizia” nell’Islam.
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