Carlo Delnevo, Il figlio musulmano, Youcanprint Self-Publishing, 2015
di Enrico Galoppini
Si può sopravvivere alla perdita del proprio figlio? Ci si può dare pace per un vuoto talmente incolmabile? Che strazio dev’essere non poter più riabbracciare colui al quale, in un certo senso, si è data la vita?
Di Giuliano (Ibrahim) Delnevo hanno scritto in molti dopo la sua morte in Siria, il 12 giugno 2013, dov’era andato per combattere contro l’esercito siriano in quella che impropriamente viene definita una “guerra civile” (perché in realtà lì si combattono varie guerre simultaneamente). Ciascuno dei commentatori ha detto la sua, quasi sempre per denigrarlo ed incasellarlo sbrigativamente nella categoria dei “terroristi”.
Il “foreign fighter”, per gente senza un barlume di cultura storica, diventa uno spauracchio, l’essere più immondo della terra, anche se c’è sempre stato chi, attratto da una “causa”, decide di arruolarsi tra le fila di una delle fazioni in lotta in una terra lontana dalla propria. Ve ne sono stati, di questi personaggi inquieti, sia dalla parte dei “buoni” sia da quella dei “cattivi”, secondo le pagelle distribuite dalla vulgata moderna occidentale. Chi ha combattuto, da straniero, contro i “tiranni” nel 1848 o dalla parte della Repubblicani spagnoli, merita un eterno riconoscimento, ma per chi ha militato dalla “parte sbagliata”, oltretutto “sbagliando” nell’andare a ficcare il naso in “affari altrui”, c’è solo il marchio dell’infamia e dell’unanime esecrazione.
È così, e bisogna mettersi il cuore in pace.
Al giovane Delnevo, perciò, il destino ha riservato una memoria ingrata: quella dell’ingrediente indispensabile, nella dispensa d’ogni “esperto di Isis”, per propinare il solito menu al culmine del quale viene servito l’attentato che, prima o poi, il “jihadista” di ritorno compierà in Italia.
Ma in questa maniera, presi nella morsa del terrore instillato quotidianamente da tivù e giornali, gl’Italiani non si curano più del lavoro che non c’è, delle tasse insostenibili, del degrado sociale dilagante e del vuoto politico che non lascia speranza alcuna. No, il problema dei problemi è l’Isis e il “foreign fighter” che torna in Italia e fa una strage, anche quando si tratta di una ragazzetta che tutt’al più potrebbe andare in Siria a fare le faccende di casa.
Oltretutto, Giuliano Delnevo non era affiliato all’Isis, sigla che sarebbe assurta a simbolo del male assoluto solo successivamente alla sua morte.
La storia di questo ragazzo potrebbe riassumersi come quella di un giovane come tanti in Italia, cresciuto tra genitori separati (ecco un’altra cosa che dovrebbe preoccupare ben più del “califfo”), e forse – dico forse perché non lo conoscevo – andato, seppure entusiasta ed in buonafede, un po’ fuori controllo. Ma neanche intenzionato a fare del male a qualcuno per il solo gusto di farlo. Un ragazzo amatissimo dalla sua mamma e dal suo papà, l’autore di questo bel libro.
Che è un bel libro, peraltro scritto bene, che si legge tutto d’un fiato (un pomeriggio sulla spiaggia di Alassio, ospite del mio amico Aliotta), al termine del quale non si può non restare indifferenti di fronte alla dignità di questo padre, Carlo Delnevo, che per onorare la memoria del figlio, ed anche per rielaborare un lutto atroce, ha disposto, senza un preciso ordine cronologico, ricordi d’infanzia e sensazioni più recenti, fino all’inevitabile (in quanto da lui presagito) esito.
Io non so il rilievo che, nell’ambito dei cosiddetti circoli letterari, è stato dato a queste circa centosettanta pagine, né posso stabilire quale corrispondenza via sia tra il Giuliano amato dal padre e quello reale.
Ma una cosa va detta: che anche se si va a combattere dalla “parte sbagliata” (e per me quella scelta da Ibrahim Delnevo lo è), non per questo ci si deve accanire su chi l’ha scelta con onore e dignità, magari con un po’ di scelleratezza tipica dei vent’anni. Altrimenti si fa come quelli che, a settant’anni di distanza dai fatti, continuano imperterriti a gettare fango sui “repubblichini”, senza mai essere toccati dal dubbio e da un briciolo di obiettività.
Il figlio musulmano parla dunque di uno di quei ragazzi, infatuatisi di un Islam “militante”, per i quali nessuno, per non perdere l’aura di rispettabilità, spenderà mai mezza parola buona, anche se non se ne condivide la scelta di campo.
Poi, per carità, a ciascuno le sue responsabilità: quella di essersi ficcati in una faccenda enorme e decisamente fuori dal proprio controllo; quella di aver scelto di sostenere la “causa” dell’Islam, di una particolare visione della religione dell’Islam, combattendo in un paese così lontano e diverso, quando in Italia c’è molto per cui “combattere”; quella di essersi scelto delle cattive compagnie – come più volte rileva amaramente il padre Carlo – che come Lucignolo hanno condotto questo il nostro Pinocchio ad imbracciare il mitra anziché l’abbecedario della Scienza divina.
Ma io credo che, malgrado tutto quel che si possa pensare dei “ribelli siriani”, ed in particolare di determinate fazioni, quella di Giuliano (Ibrahim) Delnevo non sia la storia di un cattivo ragazzo.
Perché al di là di quel che si può pensare di certe “rivolte” ingentilite dal profumo della ‘primavera’ (ed io ne penso abbastanza male), si deve tributare rispetto anche per chi ha dato la propria vita per un ideale, che lo si condivida o meno, convinto di combattere dalla parte della Giustizia e della Verità.
Perché un conto sono gli squartatori e i tagliatori di teste (i quali, lo ripeterò fino allo sfinimento, non sono peggiori dei massacratori al fosforo bianco e dei torturatori di Guantanamo o di Abu Ghraib), un altro è un ragazzo che, fattosi musulmano, va a combattere dove ritiene che si combatta per “la causa”.
Non si dimentichi poi che all’inizio di questa brutta storia la musica dei media “autorevoli” era tutto un osanna per la “rivoluzione siriana”, compreso quel torno di tempo nel quale Giuliano (Ibrahim) Delnevo trova la morte sul campo di battaglia dalla parte indicata come “giusta” mentre il governo veniva dipinto come un’accolita di diavoli.
Adesso l’Occidente deve fare buon viso a cattiva sorte, e cioè alla Stalingrado del cosiddetto “califfato”, ma la storia dei “ribelli moderati” torna ancora utile quando c’è da mischiare le carte e gettare un po’ di fumo sugli sfolgoranti successi dei russi e degli iraniani a sostegno del governo siriano.
Ma le vicende personali, come quella di Carlo Delnevo, che ad un certo punto, come per “attrazione”, viene chiamato all’Islam affinché possa per sempre stare col suo amato Giuliano, richiedono solo rispetto, facendoci chiedere se, anche noi, dall’alto della nostra vana pretesa di sapere tutto e di aver capito tutto, saremmo capaci di un simile esercizio di pazienza (come quello di sopportare ogni maldicenza al riguardo del figlio) in mezzo alle prove che il Signore ci ha riservato.
Il “padre musulmano” è, alla fine dei conti, quello che ha lasciato tra noi quel figlio che non c’è più ma che, se Dio vuole, è in attesa di ricongiungersi col suo papà.