Dietro il “buonismo” idiota c’è il disegno d’un totalitarismo destabilizzatore
di Francesco Lamendola
Il “buonismo”, la filosofia oggi universalmente sovrana e l’unica politicamente corretta, non è soltanto un atteggiamento sbagliato e irresponsabile nei confronti della vita, degli altri e di se stessi, vale a dire un atteggiamento degno di un perfetto idiota: è qualcosa di più, e di peggio. Dietro il buonismo all’ingrosso, dietro il permissivismo, il perdono facile, l’indulgenza a un tanto il chilo, verso tutto e verso tutti (ma specialmente verso quelli che rappresentano, per una ragione o per l’altra, un referente e un simbolo ideologico, tali da confermare gli schemi mentali del buonista ad oltranza), c’è qualcosa di più della semplice ingenuità o della semplice stupidità: c’è un disegno raffinato e tenebroso, curato fin nei dettagli, da parte di quelle centrali occulte del potere mondiale, finanziarie in primissimo luogo, le quali, ormai da molto tempo, si servono di ogni mezzo possibile e immaginabile, restando però nell’ombra, per condizionare, manipolare, stravolgere, il senso comune delle persone e per sovvertire i fondamentali etici e spirituali sopra i quali riposa la stessa possibilità di una civile convivenza fra i cittadini, fra i popoli e le culture.
Chiameremo questo disegno con l’espressione di “totalitarismo destabilizzatore”, perché quello che si propone è instaurare una forma di totalitarismo (democratico, ovviamente), che però non sia percepito come tale, pur apparendo come eticamente e socialmente auto-evidente; e perché lo scopo di questo totalitarismo di nuovo genere non è, come per i totalitarismi del passato, di assicurare il massimo dell’ordine e della stabilità, ma, al contrario, di assicurare un disordine permanente ed una instabilità cronica, a tutti i livelli: economica, sociale, culturale, etica e spirituale. La ragione di un disegno in apparenza così contraddittorio è che le centrali occulte del potere mondiale non hanno bisogno dell’ordine e della stabilità per realizzare i loro fini, ma del massimo della precarietà e della insicurezza possibili, sia a livello individuale, che collettivo: solo così esse potranno alimentare e riprodurre incessantemente il meccanismo del loro dominio.
Per la prima volta nella storia mondiale, infatti, la meta perseguita da coloro i quali aspirano al dominio politico ed economico non ha un carattere limitato, per quanto ambizioso, come il controllo di questa o quella società, di questo o quello Stato; ma è una meta illimitata sia nello spazio, che nel tempo: si tratta di mantenere un controllo permanente, definitivo, incontrastato, su ogni essere umano e su ogni popolo, insomma letteralmente su ogni angolo del globo terracqueo, sia nel presente che nel futuro, e ciò principalmente mediante gli strumenti della pressione psicologica, conscia ed inconscia, e del ricatto economico e finanziario. Nessuno, nella storia umana, aveva mai aspirato a una cosa del genere; perfino i costruttori degli imperi universali “classici”, come gli Assiri, i Persiani, i Macedoni e i Romani, avevano mirato, sì, ad una conquista geografica completa (limitatamente all’ecumene allora conosciuta), ma sempre secondo gli schemi del dominio diretto. E così è stato pensato e realizzato anche l’Impero coloniale britannico, il sistema politico ed economico più ambizioso e più riuscito della storia universale, che riuscì a porre un quarto della superficie terrestre sotto l’autorità del medesimo sovrano e della stessa metropoli.
Quello odierno, pertanto, è un disegno che sintetizza le due forme finora conosciute di dominio imperiale: quello legato al territorio, tipico degli imperi antichi e del colonialismo moderno, e quello mirante al controllo intimo, personale, psicologico, proprio dei totalitarismi del XX secolo, non legato al territorio, proprio perché ideologico, ma al controllo dei mezzi d’informazione e di propaganda, del sistema scolastico e universitario, della radio, della stampa, il cui scopo è il capillare, sistematico condizionamento della mente dei cittadini. A prevalere, comunque, è la seconda forma, perché il controllo del territorio non è il vero scopo, ma semplicemente uno dei mezzi; mentre il dominio della mente dei cittadini resta la cosa principale, con la sola – notevole – differenza, rispetto ai totalitarismi del XX secolo, che il potere non vuole svelarsi, non vuole mostrarsi per ciò che è, anzi, mette in opera ogni strategia per restare discreto, se non proprio nascosto. E ciò perché esso non mira al consenso, se non in via strumentale: ciò che veramente persegue è il portafoglio delle persone, perché dal loro modo di vivere, di mangiare, di fare la spesa, di vestirsi, di passare il tempo libero, dipende la sua possibilità di drenare occultamente le risorse mondiali alle quali mira. Imporre le tasse è un vecchio modo di esercitare il potere economico; vecchio, perché manifesto, dunque suscettibile di provocare reazioni: ma perché imporre un prelievo fiscale, se è possibile fare in modo che siano le persone, volontariamente (o, per essere più precisi, credendosi perfettamente libere), a spendere tutto il loro denaro – e gli stati, a spendere tutto il loro bilancio – in maniera tale da alimentare le centrali del potere occulto?
Da questa necessità mimetica derivano tutte le ipocrisie, le mezze verità, le sottili manipolazioni su cui si regge il sistema odierno dell’informazione, della scolarizzazione, della cultura, perfino della medicina e della scienza: il trucco è fare in modo che le persone e le società pensino di essere libere. Ma la libertà possiede un senso reale, quando si dia la possibilità di operare una scelta fra diverse alternative: se alla grande quantità di merci presenti sugli scaffali dei supermercati, o alla grande quantità di prodotti finanziari che vengono proposti al cliente dagli impiegati di una banca, o alla grande quantità di programmi messi in onda dalle diverse reti televisive, per non parlare della gran quantità di partiti e movimenti politici che sollecitano il voto degli elettori, non corrisponde affatto la possibilità di effettuare una scelta fra cose realmente diverse, è evidente che ci troviamo in presenza di una truffa mondiale assai bene organizzata, nella quale chi lanciasse un grido d’allarme passerebbe immediatamente per visionario o paranoico.
E ora torniamo al buonismo. È chiaro che questa “filosofia” di vita è estremamente funzionale al disegno di seminare il massimo dell’ambiguità, della contraddittorietà, e, in ultima analisi, della instabilità e insostenibilità permanenti, all’interno del corpo sociale. Perché una società impostata sui principi del buonismo, astratti e velleitari (versione ulteriormente semplificata e corretta del già demenziale ottimismo di Rousseau) non può funzionare: ciò dovrebbe essere evidente a chiunque, se, appunto, non fossimo ormai sprofondati in un clima di anestetizzazione permanente del senso critico individuale, a tutto vantaggio di un conformismo dilagante, che rafforza, indirettamente ma sicuramente, quel totalitarismo occulto che è nei piani della élite globale.
Ha scritto Sergio Ricossa nel suo libro «Vivere è scegliere. Scritti di libertà. Il liberalismo come ideologia della vita» (Fondazione Achille e Giulia Boroli, 2005, pp. 64-70):
«… Il “buonismo” oggi dilaga, spande melassa ovunque. è un buonismo stupido, che consola gli afflitti con gli eufemismi. Gli zoppi diventano “portatori di handicap”. Che bell’aiuto! […] Il vocabolario buonista è falso dalla A alla Z. Il mondo dei poveracci è il Terzo Mondo. I Paesi sottosviluppati sono Paesi in via di sviluppo. Gli immigranti afro-asiatici sono extracomunitari. D’accordo, non bisogna offendere nessuno, nemmeno e soprattutto quando gli offesi siamo noi. Per gli islamici sempre più numerosi, che abbiamo in casa, noi siamo gli infedeli; ma non vale il dritto di reciprocità, a noi non è lecito dire che gli infedeli sono loro. Finiremo col censurare la “Divina Commedia”, perché Dante (toscano, quindi cattivissimo) mise Maometto all’Inferno. Anzi, si finirà con l’abolizione dell’inferno da parte della Chiesa, per non offendere i peccatori, i quali non saranno più peccatori bensì erranti per distrazione, ragazzi un po’ vivaci in vena di simpatiche birichinate. […] Lo psicologo tedesco Hans Jürgen Eysenck credeva, a torto o a ragione, nell’importanza del patrimonio genetico circa il quoziente di intelligenza; credeva, in altre parole, che non si nascesse tutti eguali. Lo disse in aula. Gli studenti buonisti ed egualitaristi lo gettarono a terra, lo presero a pugni e calci, gli sputarono addosso, finché fu tratto a salvamento, sia pur con gli occhiali rotti e il naso sanguinante, da colleghi di passaggio. Era l’anno 1973, uno degli anni del “buonismo di piombo”. Il luogo: la London School of Economics. È passato molto tempo, da allora, eppure è meno che mai “politically correct” parlare di imbecilli congeniti. Quanto ai pazzi, il legislatore italiano ha dichiarato che non esistono e ha chiuso i manicomi. Un illustre giurista ha già proposto di cancellare la delinquenza chiudendo le carceri (o almeno dandole in autogestione ai delinquenti, che ovviamente non si chiameranno più delinquenti). Sarà un delitto non il derubare, ma il farsi derubare. La signora che esca, ostentando un monile di oro vero, è chiaramente una provocatrice , e merita di essere scippata, se c’è giustizia a questo mondo. Il buonismo si regge sul principio che tutti gli uomini (e tutte le donne, beninteso!) sono buoni per natura. i cattivi sono buoni traviati da istituzioni politiche sbagliate. Basta una piccola rivoluzione, che migliori le istituzioni, e i cattivi sopravvissuti tornano buoni, come in fondo sono sempre stati. Il problema è sopravvivere: le rivoluzioni, se non sono sanguinarie, non sono convincenti. Marx (un feroce buonista) sosteneva che perfino i capitalisti sono buoni per natura: sfruttano i proletari perché costretti a farlo dalla proprietà privata del capitale. Ma amano i proletari non appena cessa la proprietà privata del capitale, ovvero non appena i capitalisti abbiano perso la proprietà del loro capitale e siano divenuti essi stessi proletari. Se poi, insieme al loro capitale, i capitalisti perdono anche la vita davanti a un plotone di esecuzione, è perché oppongono resistenza a chi vuole il loro bene.
I milioni di assassinati in nome del marxismo-leninismo-maoismo lo furono a opera di chi voleva il loro bene e il bene di tutta l’umanità. I buonisti non si limitano ad amarci, ci impongono il loro amore. Noi dovremmo lasciarli fare e ringraziarli. Invece fra noi esistono degli ingrati, che per errore di calcolo non apprezzano i benefici e ostacolano la santa missione dei buonisti. […] Impedire ai buonisti di fare il bene è segno di egoismo, asocialità, perversione individualistica: difetti gravi, che autorizzano chi ci ama a intervenire con rimedi drastici e senza badare a spese (tanto la cura la paghiamo noi, i beneficiari; la rieducazione la paghiamo noi, gli ignoranti). I buonisti raggiungono il potere sventolando bandiere molto più prestigiose della Croce Rossa: arrivati al potere come minimo ci ripuliscono le tasche con imposte e tasse benefiche; ci alleggeriscono le tasche del peso inutile di un denaro che non ci serve più.
Poiché sono i buonisti a badare ai nostri bisogni, è corretto che badino pure alle nostre finanze. Rubano i salvadanai di cui non sapremo fare il giusto uso. È una gara a chi è più buono, e la bontà non si misura dal numero dei salvadanai rubati, rotti e sperperati; giacché, per i buonisti, lo spreco diventa generosità. Cessi il calcolo meschino, da ragionieri, di costi e ricavi. Contano le intenzioni, che per i buonisti sono tautologicamente buone. I buonisti non sbagliano mai, ma se anche sbagliassero lo farebbero per generosità, per eccesso di amore del prossimo, perché il loro cuore trabocca di altruismo. Chi oserebbe non perdonarli? Chi avrebbe il coraggio di rallentarli, se non fermarli, sulla strada verso la società perfetta, la società finalmente liberata dal male, da ogni male, e regno senza macchia del bene?».
Anche se la diagnosi impietosa di Sergio Ricossa discende da una concezione politica, quella liberale, che non solo non condividiamo, ma che abbiamo ragione di ritenere come il motore da cui si sono originate le varie forme dell’ideologia buonista – democrazia, socialismo, mondialismo – e le loro varianti specifiche – “difesa” dei diritti delle minoranze aggressive ed imposizione dei loro voleri alla maggioranza -, resta la sua sostanziale esattezza, che ci interroga e che mette a nudo le nostre ipocrisie e la nostra cattiva coscienza. Ricossa fa l’esempio dei nomadi: i buonisti si credono molto nobili e generosi nel non discriminarli, ma non sanno di essere loro discriminati, perché i nomadi disprezzano le popolazioni sedentarie presso le quali vivono: appunto per questo ritengono cosa lecita e giusta vivere di furti sistematici ai loro danni. Ma si potrebbero fare infiniti esempi. Si è così alimentata una mentalità basata sulla esasperazione dei diritti, proprio da parte delle minoranze svantaggiate, le quali si son viste, così, incoraggiate a trasformare il loro svantaggio in un vantaggio, a brandirlo come un’arma, a pretendere che gli altri, tutti gli altri, i “fortunati”, si inchinino davanti a loro, si proclamino colpevoli, o, comunque, si sentano in difetto, in debito, e dunque in obbligo di “risarcirle” indefinitamente. Lo spirito di rivalsa mostrato da alcune lobbies omosessuali, miranti a ottenere una legislazione che preveda il matrimonio gay e l’adozione di bambini da parte delle coppie gay, ne è un buon esempio. È questa la strada che vogliamo seguire?