Stefano Fabei, Il Reich e l’Afghanistan (Ed. all’insegna del Veltro, Parma 2002). Prefazione di Enrico Galoppini

Per gentile concessione dell’Editore, pubblichiamo, per la prima volta su internet, la Prefazione di Enrico Galoppini al libro di Stefano Fabei Il Reich e l’Afghanistan, pubblicato nel 2002 e recante anche un saggio di Carlo Terracciano intitolato Il nodo gordiano.

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Prefazione

di Enrico Galoppini

Nessuno si può considerare padrone dell’India se non ha in mano Kabul

                                                               Gran Moghul Akbar (XVI secolo)

fabei_reich_afghanistanGli amanti delle vicende di politica internazionale che videro coinvolte nel Vicino e Medio Oriente arabo-islamico l’Italia fascista e la Germania nazionalsocialista, dall’uscita di questo Il Terzo Reich e l’Afghanistan ricaveranno la convinzione che uno studioso come Stefano Fabei, se non ci fosse, bisognerebbe inventarlo.

Sì, perché quello di Fabei non è un nome nuovo per chi si diletta a scavare negli interstizi della Storia: sempre per i «Quaderni del Veltro» sono già usciti La politica maghrebina del Terzo Reich e Guerra santa nel Golfo, una ricostruzione della fallita insurrezione nazionale irachena del 1941 contro gli inglesi. Si tratta, come in questo caso, di avvenimenti che solo una storiografia volutamente distratta ha relegato al limite della curiosità, ma che invece, grazie proprio all’indole curiosa dell’Autore, una volta tratte dall’oblio si rivelano estremamente interessanti ed istruttive.

Ne spieghiamo subito il motivo. L’interesse, se non addirittura la simpatia, dimostrato verso l’Italia fascista e la Germania nazionalsocialista dai governanti degli Stati musulmani indipendenti, dai leader nazionalisti emersi nel seno di «colonie», «mandati», «protettorati», e l’entusiasmo sincero di ampi settori dell’opinione pubblica arabo-musulmana per quei due regimi, è un fatto che ci parla delle strategie messe in atto da popolazioni emergenti per svincolarsi da una tutela che spesso assumeva i contorni dello sfruttamento («democratico»…) vero e proprio.

Ad alcuni, sentire di tutto questo non piace, perciò tentano di travisarlo per fini di bassa propaganda filo-americana e filo-sionista: di qui una dietrologia che ancora oggi affibbia assurde accuse di «antisemitismo» ai palestinesi[1], l’attribuzione di un’improbabile dignità scientifica all’inedita categoria del “fascismo verde”[2], la costruzione – sfruttando l’oliato meccanismo dei riflessi condizionati – di esilaranti complotti che vedrebbero protagonisti Hitler e il Gran Mufti al-Husaynî, passando per Saddam Hussein, Khomeyni, Gheddafi, fino a giungere al novello “Veglio della montagna” Osama Bin Laden[3]. Il tutto naturalmente condito dall’insinuazione che i popoli di fede islamica, proprio in virtù delle vicende studiate dallo stesso Fabei, abbiano – ogniqualvolta che decidono di prendere in mano il proprio destino – un chissà che di «nazista»…

L’Afghanistan degli anni tra le due guerre mondiali è ancora lo «Stato cuscinetto» la cui esistenza si giustificava in ragione della competizione anglo-russa esplosa nell’Ottocento. Con due fondamentali differenze però.

afghanistan_indiaLa prima è che in seguito al Trattato di Rawalpindi dell’8 agosto 1919 stipulato al termine della breve terza guerra anglo-afghana[4], l’Emirato di Afghanistan – mai ridotto a colonia – diveniva a tutti gli effetti uno Stato indipendente, differenziandosi fondamentalmente da altri Stati musulmani coevi, i quali potevano definirsi tali solo sulla carta (tipico esempio, l’Iraq). L’emiro riformatore Amânullâh, conscio che un Paese arretrato in tutto non avrebbe mai potuto svincolarsi da quel destino imposto (quello di «Stato cuscinetto», appunto), aveva rinunciato d’acchito alla sovvenzione interessatamente elargita dagli inglesi ai suoi predecessori, aveva ripreso le redini della politica estera ed aveva aperto il Paese a tutti coloro che fossero in grado di contribuire alla realizzazione del suo ambizioso programma. Già dagli anni Venti giunsero così a Kabul esperti italiani[5] e tedeschi[6], ma l’emiro, per bilanciare le diverse influenze, intessé buoni rapporti con tutti, compresi i russi[7] invisi agli inglesi, i quali pretendevano di mantenere una posizione di privilegio.

Il sogno di Amânullâh era in effetti quello di “fare dell’Afghanistan la terra miracolosa cui avrebbe guardato in breve, come a segnacolo di libertà, tutta l’India dal Kashmir a Delhi”[8], e malgrado il suo tentativo fosse abortito agli inizi del ’29 per degli eccessi nei modi e nei tempi con cui era stato condotto, il suo lascito morale non venne dimenticato, ed anche i suoi successori – certo con maggior cautela – si adoperarono per far uscire il Paese dal suo «medioevo».

Amánullâh Khân, in carica dal 28 febbraio 1919 al 14 gennaio 1929

Amánullâh Khân, in carica dal 28 febbraio 1919 al 14 gennaio 1929

Il secondo fattore che interviene negli anni Trenta a modificare il significato e la portata della presenza dello «Stato cuscinetto» è l’ascesa della nuova Germania hitleriana, in cerca di nuovi mercati per una produzione industriale in prodigioso aumento. Gli inglesi, che individuavano nell’Afghanistan la culla del movimento insurrezionale antibritannico nel cuore dell’Impero, l’India, abitato da sessanta-settanta milioni di musulmani, non vedevano di buon occhio l’espandersi dell’influenza tedesca presso il reggente Hâshim (1933-1946), il quale tentò per così dire una sorta di “terza via” diplomatico-commerciale in grado di affrancare l’emirato dal consueto pendolare tra l’orso russo e il leone britannico.

Gli inglesi dunque temettero che un Afghanistan ammodernato e rafforzato grazie all’apporto tecnico tedesco e italiano (ed invaso in misura crescente dai prodotti giapponesi) finisse per trasformarsi in una sorta di “Piemonte dell’India”, per riprendere un’espressione di Gandhi. E ne avevano ben donde, poiché in un Paese che intendeva divincolarsi dalla dipendenza economica dall’India britannica, la Germania “si conquisterà nel giro di pochi anni una notevole influenza […]. I tedeschi si vedranno ripagati con la stima e il rispetto per il loro prezioso contributo in campo tecnico e ben presto tutto ciò che giungerà dalla Germania godrà di indiscusso prestigio e sarà osannato a non finire: l’efficienza tedesca diverrà in Afghanistan un vero e proprio mito”[9].

Bandiera dell'Emirato dell'Afghanistan, adottata il 31 ottobre 1931/1348 H. (fonte: FOTW)

Bandiera dell’Emirato dell’Afghanistan, adottata il 31 ottobre 1931/1348 H. (fonte: FOTW)

Per alcuni esponenti nazionalsocialisti poi, l’interesse per l’Afghanistan traeva origine dalla convinzione di un’affinità razziale con genti migrate agli inizi del II millennio a. C. dal nord verso il subcontinente indiano e l’altopiano iranico. Migrazioni di cui resta traccia anche nei Rig-Veda, che contengono toponimi afghani quali Kubha (Kabul), Savasta (Swat), Rasa (Kunar), Balhika (Balkh) eccetera[10]. Queste tribù ariane si stabilirono anche nelle terre dell’odierno Afghanistan, e una di queste erano i pashta, il gruppo etnico afghano più consistente oggi noto con il termine pashtun[11]. Gli afghani si lasciarono ammaliare volentieri dalle argomentazioni tedesche sulla loro discendenza dalla stirpe ariana, in quanto abitanti dell’antica Aria (Herat) e dell’Ariana citata da Strabone, ed accantonarono l’altra leggenda sulle loro origini, che li vede discendere da una tribù di ebrei giunta nell’Hazarajat dalla Babilonia retta da Nabucodonosor (VI sec. a. C.).

Dagli anni Trenta non pare che l’idea della filiazione ebraica dei pashtun abbia più visto risollevarsi le proprie quotazioni, se anche i principali studiosi afghani contemporanei rigettano quella che con tutta evidenza appare una leggenda inventata a suo tempo di sana pianta per conferire una patente di nobiltà a tribù convertite di fresco all’Islam[12].

L’interesse tedesco per l’Afghanistan derivava inoltre da considerazioni di carattere geopolitico. A differenza di russi e inglesi, che avevano imposto all’Afghanistan un’esistenza da «vuoto geopolitico» (difatti non verrà occupato come l’Iran), per la Germania esso rappresentava una base da cui muovere per azioni di disturbo della potenza inglese in India, dove molti nazionalisti sia musulmani che indù erano pronti a schierarsi con l’Asse per la liberazione della loro Patria.

Vessillo di Nadîr Shah (fonte: FOTW)

Vessillo di Nadîr Shah (fonte: FOTW)

Di grande ausilio per azioni di quel tipo era la politica di rigida neutralità del Paese fissata a chiare lettere dal sovrano Nadîr Shah nel suo discorso d’inaugurazione del parlamento afghano, il 6 luglio 1931, e mantenuta con dignità per circa un decennio: “L’Afghanistan osservi la neutralità, e nei riguardi degli Stati vicini ed amici esso mantenga relazioni basate su metodi tali che non siano contrari agli interessi dell’Afghanistan, e dia nello stesso tempo pratiche garanzie a questi vicini di mantenere nei loro riguardi un equilibrio perfetto…”[13].

Una volontà di equilibrio mal digerita dagli inglesi, che corsero ai ripari patrocinando il patto di Sa‘dâbâd (luglio 1937), con cui si costituiva un cordone sanitario attorno all’Unione Sovietica: Turchia, Iraq, Iran e Afghanistan.

Strano destino quello delle terre che compongono l’Afghanistan. Storicamente terre di passaggio, crocevia di culture (si pensi all’arte del Gandhara), di mercanti (la Via della seta), di eserciti che di lì sciamavano in India. E’ proprio quest’ultimo fattore quello che ad un potere giunto nell’India dal mare fece percepire quelle terre come un pericolo da irreggimentare entro confini meticolosi, altrimenti difficilmente spiegabili. La talassocrazia britannica non aveva difatti più bisogno delle antiche vie di comunicazione, anzi fece di tutto per farle andare in rovina.

Karl Haushofer (1869-1946)

Karl Haushofer (1869-1946)

Strano destino anche quello della Geopolitica. Una scienza caratterizzata da un approccio organico che è l’esatto contrario di quel determinismo in cui incappò il  suo estimatore Adolf Hitler: l’aspirazione ad un accordo con l’Inghilterra e l’attacco alla Russia (deprecato da Karl Haushofer) non vanno disgiunti da un determinismo biologico contraddittorio (abbiamo detto dell’insistenza tedesca sulle «origini» dei pashtun) e cattivo consigliere.

Abû Fâdil aveva scritto nel 1560: “Quello degli Stati europei che riuscirà a diventare padrone del territorio afgano, affermerà il proprio incontrastato dominio su tutta quella parte del globo che dal Caspio e dal Golfo Persico va sino all’Oceano Indiano e al Mar Giallo”[14].

I russi ci hanno provato (o sono stati indotti a provarci…) ed è stato l’inizio del loro tracollo: l’accerchiamento operato dagli angloamericani attorno all’Heartland siberiano centroasiatico sembra procedere più spedito che mai. A meno che gli Usa non rimangano invischiati in un nuovo Vietnam e che la loro pretesa di dominio del continente per eccellenza camuffata da «guerra al terrorismo» si risolva, come già accaduto agli inglesi nella prima guerra anglo-afghana, in una disastrosa fatal retreat.

NOTE

[1] Cfr. Alberto Rosselli, La strana alleanza tra Hitler e la Lega arabo-palestinese, «Storia in Network», n. 65, marzo 2002 (http://www.storiain.net).

[2] Le Totalitarisme islamiste à l’assaut des démocraties di Alexandre del Valle, in uscita nel settembre 2002, sarà il compendio di una teoria che va facendo proseliti tra tutti gli ‘occidentalisti’ ad oltranza.

[3] Cfr. Marco Gregoretti, I signori degli anelli, «GQ», n. 27, dicembre 2001, pp. 134-141.

[4] I termini delle relazioni diplomatiche con il Regno Unito verranno stabiliti con il Trattato di Kabul del 22 novembre 1921 (ratificato il 6 febbraio 1922).

[5] Nel dicembre 1923 arrivò la missione tecnica guidata da Gastone Tanzi, seguita l’anno seguente da quella medica. Cfr. Gastone Tanzi, Viaggio in Afganistan, Edizioni “Maia”, Milano 1929.

[6] Una Società commerciale germano-afghana esisteva dal 1921, mentre dal 1922 risiedeva nella capitale l’ing. Walter Harten, consigliere dell’emiro per i lavori pubblici, che prevedevano strade, ponti, ferrovie, lavori per l’irrigazione, bonifiche e la costruzione della nuova capitale di rappresentanza Dâr al-Amân.

[7] La collaborazione russa si esplicò soprattutto in campo aeronautico.

[8] Camillo Maria Pecorella, Fardà. Tavolozza di Afghanistan sotto l’emiro Amanullah, Casa Editrice Remo Sandron, Palermo 1930, p. 237.

[9] Antonio Barletti, Afghanistan prima e dopo, Vallecchi, Firenze 1981, pp. 133-134.

[10] Cfr. ibidem, p. 24.

[11] Indicati in alcune zone come pakhtun (i pathan degli inglesi). Il termine «afghano» si applica invece al cittadino dello Stato unitario sorto nell’Ottocento attorno a Kabul, che può appartenere sia all’etnia pashtun che a quella tagica, uzbeca, nuristana, hazara, turkmena eccetera. Dunque i pashtun sono solamente uno specifico gruppo etnico maggioritario in Afghanistan, insediato anche nell’attuale Pakistan (Peshawar). Di qui le ricorrenti rivendicazioni per la creazione di un «Pashtunistan» comprendente parti degli Stati afghano e pakistano. Cfr. Giorgio Vercellin, Iran e Afghanistan, Editori Riuniti, Roma 1986, pp. 22-23.

[12] Cfr. Ustûra hawla “yahûdiyya” al-bâshtûn! [Una leggenda sull’“ebraicità” dei pashtun!], “as-Safîr”, 4 febbraio 2002.

[13] Cit. in Maria Vismara, Ripercussioni della guerra nel Medio Oriente. L’Afganistan, “Le vie del mondo”, a. VIII, aprile 1940, p. 1012.

[14] Cit. in G. Tanzi, op. cit., p. 255.

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