Arte e ingegno nel cammino iniziatico
di L. Restrad
Alla fine del suo cammino nell’antipurgatorio Dante, guidato da Virgilio, incontra l’angelo della porta del Purgatorio. Alcuni aspetti del suo incontro e della sua conversazione con l’angelo sono particolarmente significativi.
Tra questi vi è da segnalare il fatto che l’angelo scrive sulla fronte di Dante le sette «P» che si cancelleranno una ad una gradualmente con il processo di rigenerazione nei sette gironi del Purgatorio. Si può forse ravvisare in questo avvenimento la presa di coscienza che ogni essere sulla via della realizzazione deve avere dei propri limiti e delle proprie qualificazioni prima di entrare nella fase di realizzazione effettiva[1].
L’episodio forse più significativo di tale incontro è però quello in cui l’angelo delle due chiavi, d’oro e d’argento, che aprono la porta del Purgatorio manifestando come la chiave d’argento, riguardante i piccoli misteri, necessiti di molta arte ed ingegno per essere usata.
Così si esprime Dante:
Più cara l’una; ma l’altra vuol troppa
D’arte e d’ingegno avanti che disserri.
Perch’ella è quella che nodo disgroppa.[2]
Sembra così che il cammino del Purgatorio sia possibile quando contemporaneamente si disponga di una preparazione dottrinale adeguata concernente anche i grandi misteri, la chiave d’oro che è più preziosa (cara), e di una volontà di operare in conformità con i principi per la rigenerazione psichica, la chiave d’argento «che nodo disgroppa».
Si manifestano in tal modo indirettamente le qualificazioni principali per il cammino iniziatico di cui parla René Guénon ampliamente nella sua opera, cioè l’orizzonte intellettuale «sufficientemente ampio» e l’aspirazione iniziatica capace di «bruciare le scorie»[3].
Nell’ammonimento dell’Angelo a Dante vi è però un riferimento all’uso «dell’arte e dell’ingegno» nel manovrare la chiave d’argento che merita un approfondimento. A tale scopo è indispensabile comprendere il significato specifico dato da Dante a tali termini.
Il mondo contemporaneo ha completamente capovolto il principio medioevale e tradizionale «fatti non foste a viver come bruti ma per seguir “virtute e conoscenza”, infatti oggi l’assunto principale non è più la virtù e la conoscenza, ma la massima soddisfazione dei bisogni prevalentemente materiali.
In questo disegno capovolto non si soddisfano i bisogni primari per poter adempiere agli scopi umani più nobili, legati all’esercizio della virtù e all’ampliamento della conoscenza, ma al contrario l’ingegno umano e la scienza sono asservite allo sviluppo di bisogni primari e secondari concernenti la sfera fisica e i piani più bassi di quella psichica. A sua volta la mentalità consumistica genera necessariamente la tensione verso il profitto, cioè non si producono più delle opere qualitative da vendere ad un prezzo equo che permetta di continuare ad operare ed esercitare la «virtù propria», ma piuttosto la massima quantità di pezzi anche poveri di qualità che permetta il massimo profitto e quindi di possedere delle «cose».
In questo clima abbruttito dall’inversione della gerarchia dei valori tradizionali si manifesta una polarizzazione del mestiere (ministerium): da una parte, l’artista inteso in senso moderno, che produce pochi pezzi ad un prezzo molto alto e riservati ad una cerchia ristretta di individui «facoltosi», e dall’altra l’industria che produce cose «utili» ad un prezzo più basso, ma prevalentemente spoglie di contenuti qualitativi.
Senonché anche le cosiddette produzioni artistiche moderne poco hanno a che fare con quelle del passato per varie ragioni.
Tutte le tradizioni sono d’accordo nell’attribuire all’arte l’obiettivo di imitare la natura nel suo modo di operare[4]. D’altro canto si deve concepire la natura come la manifestazione dell’Arte Divina che si esprime attraverso la creazione.
Ma poiché ogni cosa creata è ancor prima concepita nella «Mente divina» (omnes enim rationes exemplaris concipiuntir ab aeterno in vulva aeternae sapientiae seu utero, S. Bonaventura In hexaem, coll. 20, n° 5), ne deriva che l’artista, imitando la natura, deve necessariamente riferirsi a dei paradigmi o delle «idee» divine nella sua opera. E questa è già una prima condizione per l’esecuzione di un’opera d’arte.
Vi è poi da considerare che non si può limitare l’attività artistica alla esecuzione di lavori sulla materia.
Secondo il pensiero medioevale (S. Tommaso d’Aquino, Summa Theologica I 14, 8 e I – II 57, 3) la scienza e l’arte riguardano la cognizione, ma, mentre la scienza si riferisce alla conoscenza, l’arte è ordinata ad una operazione esterna[5].
Da tale prospettiva molte materie che oggi sono considerate delle scienze, come quella medica o quella delle costruzioni, sono viste nel pensiero medioevale e tradizionale come delle arti. Se si concepiscono le scienze applicative come parte integrante di un’arte si può comprendere la formula del Maestro Costruttore Jean Mignot pronunciata a proposito della costruzione della cattedrale di Milano e in risposta a una diversa opinione: «ars sine scientia nihil».
Per converso «Omnis applicatio rationis rectae ad aliquio factibile pertinet ad artem»[6], da cui ne deriva che lo spettro delle attività artistiche si deve ampliare per comprendere le arti legate all’insegnamento, le arti legate al buon governo e al commercio, le arti mediche e infine tutte le arti legate alla lavorazione degli oggetti, alle colture agricole e degli animali.
In questo quadro poco importa che un’arte sia più nobile di un’altra; quello che conta è l’esecuzione magistrale dell’opera. Non vi è distinzione fra l’insegnante ed il carpentiere se non nella misura della qualità dell’opera «nec oportet si liberales artes sunt nobiliores, quod magis eis conveniat ratio artis». La capacità dell’artista di incorporare un’idea o un disegno divino o comunque un «archetipo» è la seconda condizione per l’esecuzione di un’opera d’arte in qualsiasi dominio essa si manifesti (recta ratio facibilium). Il necessario corollario di tale condizione è che la «sostanza» a cui deve essere attribuita una «forma» abbia i requisiti richiesti, sia che si tratti di esseri umani (ars docendi), di rapporti fra esseri umani, di oggetti fisici, o di qualsiasi altro supporto. Infatti il difetto nell’opera può dipendere sia da una carenza dell’artefice sia da una inadeguatezza del «materiale» da lavorare. A tale proposito vale la pena di ricordare tutte le considerazioni che fa Dante a proposito della lingua adatta ad esprimere il suo insegnamento, da cui ne deriva il suo abbandono del latino in favore della «lingua volgare» in certe circostanze (De vulgari eloquentia).
Per completare le condizioni atte al compimento di un’opera d’arte in senso tradizionale si dovrà fare un cenno anche ai fini che ci si propone. Si può affermare che in tutte le tradizioni, ivi compreso il pensiero medioevale come Dante stesso lo afferma[7], lo scopo più generale dell’arte è quello di educare. Attraverso le sue molteplici manifestazioni essa mira infatti a insegnare (docere) agli uomini l’ordine superiore delle cose incorporato a titolo di simbolo nelle stesse discipline artistiche e nelle varie produzioni che diventano di comune e corrente utilizzo.
Se questo è lo scopo generale bisogna ammettere che gli uomini non sono uguali e quindi l’arte per raggiungere lo stesso obiettivo deve tenere conto della natura degli esseri e delle circostanze ambientali. Non si possono insegnare a tutti né le arti marziali, né le arti liberali, ma solo a coloro che hanno una natura adeguata. Ne consegue che l’artista deve commisurare la propria produzione alla natura degli esseri e alle circostanze di tempo e di luogo (recta ratio agibilium). Questa è quindi la terza condizione perché sia compiuta l’opera d’arte come viene enunciata da S. Tommaso d’Aquino (Summa theologica: “Ars nihil quod recta ratio factibilium, omnis applicatio rationis rectae ad aliquid factibile pertinet ad artem sed ad prudentiam non pertinet nisi applicatio rationis rectae ad ea de quibus est consilium. Prudentia est recta ratio agibilium”).
Si è così messo in evidenza indirettamente che le produzioni artistiche moderne ben difficilmente possono soddisfare contemporaneamente i tre requisiti richiesti.
Non si è tuttavia ancora accennato all’altro termine dell’ammonimento dell’angelo a Dante, cioè all’ingegno.
Nel linguaggio corrente avere dell’ingegno è sinonimo di avere delle qualificazioni superiori alla media, prevalentemente nello studio o nell’esercizio di una attività. Ingegno deriva dal latino «Ingenium» e, se riferito ad un essere umano, potrebbe indicare lo stato di chi si è identificato con il proprio «genio».
A sua volta «genio» può essere assimilato al «Daimon» greco ed indicare in entrambi i casi il nume tutelare, l’angelo o l’influenza spirituale con cui ogni essere ha un rapporto privilegiato con il Principio. Essere in stato di «Ingenium» può così essere inteso, abbandonando l’uso corrente, come una condizione in cui l’anima sentimentale è influenzata o guidata da una superiore «coscienza».
S. Agostino considera lo stato di «Ingenium» come la condizione per l’esercizio dell’arte ed è grazie a questo stato che Dante può affermare: “I’ mi son un che quando amor m’ispira, noto, ed a quel modo ch’e ditta dentro vo’ significando”[8].
L’associazione dei due termini «arte e ingegno» completa quindi ed integra le considerazioni precedenti sull’arte. Si manifesta attraverso l’ingegno uno stato particolare dell’artista che rende possibile la realizzazione contemporanea delle tre condizioni precedentemente indicate. L’apertura verso l’alto, le migliori predisposizioni dell’essere e un’anima concupiscente sedata e dominata sono una garanzia che l’opera sia compiuta con scientia, recta ratio e prudentia. Quanto di più distante quindi dall’artista moderno desideroso solo di esprimere ciò che gli suggerisce la sua esperienza individuale interiore.
Prima di considerare le implicazioni sul cammino iniziatico di una tale visione dell’arte e dell’ingegno secondo la prospettiva tradizionale non sarà inutile fare anche qualche cenno al problema della vocazione. Si potrà, in tal modo notare degli ulteriori collegamenti fra la vocazione, la teoria del gesto, così come è stato accennato da René Guénon, e la nozione tradizionale di arte[9].
Tutte le tradizioni sono concordi nell’affermare che l’uomo è la creatura più nobile nel suo stato d’esistenza. La nascita umana, difficile da ottenere ed espressione di un grado raggiunto nella gerarchia degli esseri, è poi il presupposto, durante la vita e nei suoi prolungamenti, di un’ulteriore evoluzione, sotto la spinta del «divino amore» o, come afferma la tradizione cinese, in virtù della «attrazione del cielo».
L’uomo divide con gli animali la sensibilità, ma si distingue da essi per la specifica facoltà «mentale». Asservendo il mentale alle sensazioni, o come dice Dante sottomettendo la ragione al talento[10], l’uomo rinuncia alla propria specifica natura per divenire simile agli animali. Viceversa usando in modo appropriato delle «virtù» della specie egli può partecipare della attrazione del «divino amore» per compiere la sua evoluzione durante il suo ciclo di vita.
Né l’uomo ozioso né l’uomo che non usa la ragione (ratio) sono veramente umani in quanto non esercitano le facoltà per cui sono stati preordinati. Secondo Dante “ciascuna cosa è virtuosa in sua natura che fa quello a che ella è ordinata onde dicemmo uomo virtuoso, che vive in vita contemplativa o attiva, a le quali è ordinato naturalmente; dicemmo del cavallo virtuoso che corre forte e molto, a la qual cosa è ordinato”[11].
Senonché della frase esaminata da Dante ne deriva anche una «virtù propria» di ogni individuo corrispondente alla propria natura particolare. Così l’uomo risulta fatto per vivere in conformità alla sua natura di uomo (men – manas) ma anche alla «virtù propria», ed è proprio nell’esercizio di una tale attività che si manifesta la vocazione di ogni individuo. Poiché ciò per cui si è fatti è anche ciò che si fa meglio, è naturale che a tali atti si accompagnino anche soddisfazione e piacere. In definitiva quando vi sia l’assunzione della propria vocazione (curam propriam diligentiae suae) il piacere accompagna e completa l’atto.
Vocazione è anche partecipare nel proprio dominio all’ordine universale, cioè a quello che viene definito «il disegno del Grande Architetto dell’Universo». Ogni uomo che segua la propria vocazione è quindi potenzialmente un artista, qualsiasi sia la sua attività, ed escludendo naturalmente una vita di pura contemplazione il cui fine è puramente conoscitivo. Tuttavia fra i requisiti necessari per compiere un’opera d’arte figurano anche una «materia» adeguata all’opera. Ed è questa la saldatura fra l’ordine individuale e l’ordine cosmico.
Nelle condizioni attuali che sono state accennate precedentemente non solo è difficile all’uomo di scoprire la propria vocazione, di compiere l’opera incorporando un paradigma divino, di agire adattandosi alle esigenze degli individui a cui si rivolge, di tener conto delle circostanze ambientali di tempo e luogo, di ascoltare non la propria individualità psicofisica ma il proprio «ingegno», ma sopratutto vi è la quasi impossibilità di agire su una «materia» che non sia segnata in maniera indelebile dai pregiudizi e dai limiti del mondo moderno. E nulla cambia se tale materia è di ordine fisico, sociale o concettuale, ovunque si manifestano gli ‘stessi segni[12].
Tutto ciò può anche spiegare perché René Guénon[13] ha affermato che “… la ritualizzazione degli atti…” è ancora possibile almeno in ogni azione che è in rapporto con l’iniziazione. Si presuppone infatti che in un ambiente in rapporto con l’iniziazione, per una maggiore qualificazione degli individui, per una assenza o una minor partecipazione del punto di vista profano, per una protezione rituale e sopratutto per la presenza di una influenza spirituale siano ancora possibili dei compiti in cui si possa manifestare una «vocazione» e siano virtualmente possibili degli atti conformi all’arte, cioè in definitiva dei «gesti rituali»[14].
Fra i compiti possibili in un ambito iniziatico il principale è comunque quello del perfezionamento dell’individuo, al punto che è stato definito, almeno per quanto attiene i piccoli misteri, l’«arte reale». Tale definizione, nell’esprimere che si tratta di un’arte riservata agli Kshatria, stabilisce indirettamente anche una gerarchia. Il suggerimento di Dante d’impiegare arte ed ingegno per il cammino iniziatico è ancora attuale e realizzabile quando vi sia un ricollegamento iniziatico, un metodo ed una disciplina adeguate.
Il cammino iniziatico può essere alternativamente visto o come un viaggio o come un’opera (alchemica) da compiere. In un caso si tratta di navigare per giungere attraverso varie peripezie alla terra dei «salvati»; nell’altro caso si tratta di una serie di purificazioni o di eliminazioni di scorie che porteranno alla scoperta della forma perfetta (l’«oro alchemico»). Anche qui come nelle opere d’arte dei dominii più esteriori si impongono gli stessi requisiti già menzionati: scientia, recta ratio factibilium, recta ratio agibilium. Questo naturalmente se si esclude la vocazione, che in questo caso si trasforma nell’«aspirazione», e l’ingegno, che è suscettibile di manifestarsi attraverso il guru e gli upaguru esteriori proprio in proporzione all’atteggiamento di docilità assunta.
Naturalmente in questo caso per «scientia» si deve intendere la conoscenza dottrinale generale, il modello di riferimento a cui tende l’opera e le leggi che presiedono a tale cambiamento, o piuttosto a questa «trasformazione». È detto nella tradizione cinese che l’uomo saggio in procinto di dedicarsi al suo perfezionamento «scruta l’orizzonte» per identificare il cammino.
Ibn ‘Arabî, parlando dell’«Alchimia della felicità» (Kîmiyâ’ as-sa‘âdah), afferma che essa è la «scienza dell’elisir» e comporta delle vie di applicazione[15], specificando: “… l’oggetto della ricerca si trova nascosto fra una piega nascosta e un flusso che sgorga, ugualmente il come e il quando rientrano nella scienza della bilancia (misura)…”. Anche egli aggiunge “… Quando il saggio decide d’intraprendere l’opera alchemica esamina quale operazione sarà più agevole… egli inizia quindi a consultare il cielo…”.
Un atteggiamento non diverso da quello di Dante che volge il pensiero a Beatrice e lo sguardo al «monte». Lo scrutare l’orizzonte e lo sguardo rivolto verso l’alto evocano simbolicamente sia l’aspirazione ad una «conoscenza» sia la direzione da cui essa deve venire. È fin troppo evidente che nel caso specifico dell’«opera alchemica» o del «cammino iniziatico» si tratta in primo luogo della dottrina così com’è stata trasmessa attraverso i «libri sacri». Vi è però anche una dottrina espressa dai modelli di comportamento degli esseri che hanno raggiunto un grado di perfezionamento.
Un tale processo di assimilazione della «scientia», lungi dal compiersi istantaneamente, è il risultato più o meno lungo di una serie di operazioni o di «misure» del modello di riferimento. In prima istanza è già molto se l’iniziato si comporta come un artigiano che imita fedelmente un modello senza capirlo nella sua essenza. Ma per compiere l’opera è indispensabile che l’artigiano divenga un artista e i suoi atti non siano più servili ma liberi. Come dice A.K. Coomaraswamy: “… se l’artista non è conformato lui stesso alla cosa che egli è in procinto di creare egli non conosce veramente questa cosa e non può lavorare in maniera originale…”[16].
Lo stesso Dante afferma un analogo concetto:
Poi chi pinge figura
se non può esser lei, non la può porre[17].
Si può notare, attraverso una attenta lettura dell’Inferno e del Purgatorio, che le prime intuizioni di Dante e la sua preparazione dottrinale sono arricchite e completate dai suggerimenti dottrinali di Virgilio o di altri personaggi così come in varie circostanze vengono illustrati dai comportamenti esemplari riconducibili, pur nella loro varietà, al prototipo dell’uomo perfetto.
Si può concepire in tal modo che si configuri così gradualmente nell’iniziato il modello di riferimento a cui tendere, cioè la forma da dare alla sua opera, non disgiunta dalla conoscenza delle leggi che presiedono a tale grado di manifestazione. In tali condizioni si può dire che sia soddisfatto per l’iniziato il primo requisito per il compimento dell’opera d’arte su se stesso. La prospettiva suggerita da Dante di operare con «arte ed ingegno» ha il notevole pregio di combinare il simbolismo del viaggio iniziatico con il simbolismo dell’opera da compiere, il master piece del maestro massone. In tale prospettiva può prendere nuova luce anche il concetto evocato a più riprese da René Guénon della conoscenza teorica. Non si tratta così solo della conoscenza dottrinale ma anche di vedere in speculo cioè teoricamente «l’uomo nuovo» che deve formarsi, cioè il fine a cui tende il viaggio o l’opera. Un modello che, come si è detto, non si produce immediatamente, ma viene messo a fuoco per fasi successive a mano a mano che la mente si libera delle sue impurità ed è maggiormente atta a rispecchiare un grado elevato di perfezione.
Questo spiega perché l’imitazione del prototipo di riferimento (il Profeta, il Maestro, il Saggio, l’Inviato) sia dato comune a tutte le tradizioni e di tutte le forme iniziatiche. Un’imitazione che è necessariamente prima esteriore per poi adeguarsi alla essenza del modello per successive approssimazioni. L’appello alle «muse» di molti artisti o l’esecuzione di riti propiziatori prima di compiere un’opera sono poi un monito per l’esecuzione di questa prima fase conoscitiva.
Viene così adombrata la necessità di creare le migliori condizioni per cui si possa manifestare una «ispirazione» dall’alto, la quale deve necessariamente giungere attraverso la forma tradizionale propria dell’artista.
Quando poi questa opera consiste nel cammino iniziatico tali operazioni preliminari assumono un ruolo anche più importante. E ciò spiega perché venga dato tanto rilievo nelle scuole iniziatiche allo scrupolo nel rispetto delle norme di comportamento e nell’esecuzione dei riti, e ai ritiri spirituali. Il silenzio imposto all’apprendista nella tradizione massonica assume in tale quadro un valore significativo. Bisogna che l’uomo rivolga l’attenzione verso il suo interno e non verso le cose esteriori.
Se la conoscenza del modello è il primo passo per il compimento dell’opera d’arte, la sua esecuzione nella giusta misura (recta ratio) ne è il secondo. Come nessun artista si accingerebbe al lavoro senza conoscere i pregi e i difetti, cioè le caratteristiche, della materia su cui lavorare, ugualmente importa in primo luogo in tale fase conoscere «oggettivamente» la natura dell’individuo.
René Guénon[18] ricorda che per la costituzione dell’élite, cioè di coloro che sono suscettibili di ottenere un certo grado di realizzazione effettiva, è indispensabile che “essi stessi prendano coscienza delle loro qualificazioni”. D’altro canto la realizzazione del perfetto equilibrio implica la completa neutralizzazione di tutte le tendenze opposte che generano gli squilibri[19]; conseguentemente la presa di coscienza di tali limiti risulta propedeutica per il lavoro iniziatico così come la coscienza delle proprie qualificazioni.
Tali sono i presupposti per il processo iniziatico che si compie nell’ambito di una organizzazione la quale, è opportuno ricordarlo “… deve trovare presso i suoi membri, ad ogni grado e in tutte le funzioni, una collaborazione cosciente e volontaria, implicante tutta la comprensione effettiva di cui ciascuno è suscettibile; e nessuna vera gerarchia può realizzarsi e mantenersi su una altra base che quella…”[20].
Questi accenni si collegano con quanto è stato detto inizialmente a proposito della iscrizione delle sette «P» sulla fronte di Dante. Spinto dalle sollecitazioni del Maestro e dalla sua «aspirazione», che è anche una espressione delle sue qualificazioni, Dante chiede che gli venga aperta la porta del Purgatorio. Ma è proprio in queste circostanze che gli appaiono i suoi limiti:
Devoto mi gittai a’ santi piedi;
misericordia chiesi che m’aprisse
ma pria nel petto tre fiate mi diedi
Sette P nella fronte mi descrisse
col punton della spada, e “Fà che lavi,
quando sé dentro, queste piaghe” disse[21]
Si inizia così il processo di realizzazione iniziatico vero e proprio, preceduto solo dalla fase preliminare della «discesa agli inferi». Sappiamo che il superamento di ogni sfera del Purgatorio corrisponde ad un grado effettivo di realizzazione, ancorché riguardante i piccoli misteri. Sappiamo anche attraverso René Guénon che l’iniziazione effettiva comincia quando un essere prende coscienza della finalità del «piano del Grande Architetto dell’Universo» per quanto lo concerne[22].
Non si può concepire che una tale condizione si sia manifestata se preliminarmente non è stata riconosciuta la totale dipendenza dell’essere dal Principio[23], non come affermazione verbale ed esteriore, ma come profonda ed assoluta certezza.
Uno stato che potrebbe essere evocato dai tre colpi al petto di Dante, espressione di un pentimento in senso exoterico e di una metanoia in senso esoterico. Si può così concludere che a questo punto preciso del processo iniziatico, in cui viene preso in attenta considerazione il «materiale» per compiere l’opera, si aprono le porte del Purgatorio e vi deve essere per l’iniziato anche la presa di coscienza del piano divino per quanto lo riguarda. Un piano che, come dice René Guénon, ha delle analogie con la evoluzione e le fasi della vita umana individuale in quanto in ambo i casi essi procedono “…da un «archetipo» unico, piano universale tracciato dalla volontà suprema, che è designata simbolicamente come il Grande Architetto dell’Universo…”[24].
Il simbolismo della «vita terrestre» e dalla «vita umana» deve quindi essere suscettibile quando meditato in condizioni appropriate di generare, come ogni simbolo, un assentimento e una comprensione, in virtù della «intuizione intellettuale» del piano del Grande Architetto dell’Universo. D’altra canto i veri “… centri spirituali devono essere considerati come rappresentanti la volontà divina in questo mondo…”[25].
Vi è quindi per i singoli individui un momento che segna la loro partecipazione volontaria ed effettiva alla tradizione, in cui viene presa coscienza del piano del Grande Architetto dell’Universo per quanto li riguarda. Vi è anche nei veri centri spirituali la coscienza del piano più generale concernente i propri affiliati. Ed è solo cosi che si può manifestare quella «collaborazione cosciente e volontaria» a cui si è accennato precedentemente.
Nelle fasi preliminari a tale condizione solo la «docilità» e un certo grado di «presentimento» possono supplire e rendere comunque possibile un certo cammino[26]. L’atteggiamento manifestato da Dante nell’Inferno e nell’antipurgatorio nei riguardi di Virgilio e delle regole tradizionali evoca chiaramente queste predisposizioni iniziatiche, espressione delle stesse qualificazioni dell’individuo.
Per comprendere le operazioni di «rettificazione”, che vengono compiute nel processo di rigenerazione proprio dei piccoli misteri, può essere utile l’attenta lettura della parte della Divina Commedia che tratta dei sette gironi del Purgatorio[27].
Uno studio di prossima pubblicazione, sui “sette gironi del Purgatorio”, metterà in evidenza il succedersi di tali fasi secondo un preciso ordine così come le modalità di «rettificazione» di ciascuna fase. Si potrà notare che si tratta in definitiva di correggere una serie di squilibri applicando la tendenza opposta al fine di giungere alla recta ratio, cioè ripristinando una misura armonica nell’individuo. Un’opera non diversa da quella che compie l’artista sulla «materia» prima della sua opera. Ora, avendo così fatto qualche cenno sulla trasposizione dell’opera dell’artista dal piano esteriore o materiale a quello interiore per quanto attiene le prime due condizioni necessarie alla esecuzione dell’opera d’arte, rimane da parlare della terza condizione, definita precedentemente con la formula medioevale: Recta ratio agibilium.
Si tratta qui della giusta misura, non nei rapporti intrinseci dell’opera, ma nei rapporti estrinseci con l’ambiente umano e cosmico esteriore. Parlando indirettamente di tale argomento René Guénon ha ammonito di non considerare le circostanze esteriori come puramente «fortuite» ma piuttosto l’espressione di leggi e tendenze riguardanti l’ordine generale, quello umano e quello cosmico a cui è opportuno conformarsi[28].
Dante nel suo pellegrinare nei gironi dell’Inferno, prima, e in quelli del Purgatorio, poi, non mostra una diversa attitudine rispettando sia i preposti alle varie funzioni sia i ritmi temporali o ambientali. Così lo vediamo arrestarsi, come è prescritto, durante la notte nel suo cammino nel Purgatorio e tener conto delle difficoltà del cammino. Talvolta, aiutato da Virgilio, egli giunge a cavalcare anche delle sinistre entità come Gerione pur di proseguire il cammino.
La fortuna viene descritta da Dante come una entità indifferente al volere degli uomini e preposta da Dio a «permutare»:
… a tempo li ben vani,
di gente in gente, e d’uno in altro sangue[29]
Una tale concezione della fortuna sembra possa rientrare, così come il destino inteso come “… una sorte di volontà oscura della natura…”, nell’“… insieme di tutte le influenze che emanano dall’ambiente cosmico e agiscono sull’individuo per determinarlo esteriormente…”[30]. Questo insieme di influenze agisce così sull’uomo mentre come dice Dante non tocca la libertà divina:
La contingenza, che fuor dal quaderno
de la vostra materia non si stende,
tutta è dipinta nel cospetto eterno[31].
Così l’uomo alleandosi alla «Provvidenza» divina, libera, e ai suoi piani, “… può fare equilibrio al destino e arrivare a neutralizzarlo…”[32], ottenendo in tal modo un certo grado di libertà. L’adagio dei Rosacruciani citato da René Guénon «sapiens dominabitur astris» non esclude però affatto di tener conto delle circostanze esterne.
Molte osservazioni fatte precedentemente a proposito del cambiamento di mentalità e della docilità assumono in tal modo un significato «tecnico» specifico per il compimento dell’opera. Per esempio le stagioni della vita che orientano gli esseri nei primi due quarti (infanzia e giovinezza) verso l’esterno e nei secondi due quarti (senettude e senio) verso l’interno sono circostanze che hanno un certo rilievo per il compimento dell’opera e possono suggerirne diversi modi di agire. Un ambiente particolarmente inquinato dai ritmi e dai pregiudizi del mondo moderno, se assorbito senza delle contromisure in termini di riti e letture tradizionali, può generare una lenta e graduale perdita di vigore nello sforzo iniziatico. Al punto che è stato detto da un maestro dell’esoterismo islamico “… la frequentazione dei profani è un veleno mortale per l’iniziato…”[33].
Il mondo moderno con la sua esasperata attenzione alle questioni di carattere materiale studia a fondo i vari problemi d’inquinamento dell’ambiente fisico ma trascura totalmente quelli riguardanti il dominio psichico, i quali, oltre ad essere molto più gravi, giocano un ruolo causale sui primi. Sappiamo che le varie tradizioni pur avendo una origine unica rappresentano un adattamento alle condizioni di tempo e di luogo. Sappiamo che lo stesso Dante ha nascosto se stesso e la propria opera «dietro il velarne de li versi strani». E così è ovvio pensare che un iniziato debba ugualmente porsi verso il mondo esteriore con modalità adeguate alle circostanze, in vista di raggiungere in modo prioritario le finalità iniziatiche che si propone. È noto anche che vi sono momenti e luoghi più adatti e meno adatti per accingersi a questo o a quella impresa, tuttavia, spesso, non solo siamo incapaci di coglierne i segni distintivi per mancanza di osservazione ed atrofia delle facoltà preposte a tale funzione, ma non ci poniamo neppure il problema delle qualità dell’ambiente cosmico che ci circonda.
Queste brevi osservazioni dovrebbero essere già sufficienti per mettere in evidenza l’importanza, ai fini del compimento dell’«opera», della giusta misura nell’agire (recta ratio agibilium). La terza delle tre condizioni per compiere un’opera d’arte. Non si può dire, come nel caso dei riti esoterici, che questa condizione sia indispensabile per il compimento dell’opera d’arte, tuttavia come afferma René Guénon a proposito dei riti, si avrebbe torto a trascurare l’aiuto che questi possono dare; ugualmente si avrebbe torto a trascurare l’importanza della giusta misura dell’agire. In un caso come nell’altro si tratta di una necessità di convenienza. D’altro canto nessun artista compirebbe la propria opera d’arte con gli stessi materiali e con le stesse «misure» e precauzioni dovendole eseguire ed esporre all’interno o all’esterno di un edificio.
Con queste ulteriori osservazioni riguardanti la trasposizione della «recta ratio agibilium» al cammino iniziatico si possono così concludere queste note suggerite dal richiamo di Dante all’arte e dell’ingegno nel cammino dei piccoli misteri.
È auspicabile che questo insieme di considerazioni possa favorire la necessaria predisposizione per una più approfondita comprensione dei sette gradi della rigenerazione psichica descritti magistralmente da Dante nel Purgatorio, cioè al sacrificio di sé stessi o, per meglio dire, della propria individualità. L’opera da compiere si manifesta in tal modo in tutta la sua complessità ed appare evidente la necessità di una dedizione e di una diligenza che, nei tempi attuali, non possono sussistere senza una preventiva gerarchizzazione in senso tradizionale degli scopi della vita umana. Né, d’altro canto, la teoria da sola può servire alla realizzazione[34].
L’uomo «limitato» è però provvidenzialmente soccorso dall’aiuto divino, quando manifesta una tendenza o una intenzione sufficiente: questo concetto è evocato da Dante che fa dire all’angelo le istruzioni avute da Dio a proposito della visita del Purgatorio:
… dissemi ch’io erri
anzi ad aprir, che ha tenerla serrata
pur che la gente a’ piedi mi s’atterri[35]
Guai, però, a coloro che si guardano indietro :
… Entrate; ma facciovi accorti
che di fuor torna chi ‘ndietro si guata[36]
Una punizione e una caduta verso le tenebre esteriori annunciate in un modo o in un altro in tutte le tradizioni per chi si volge indietro e ricade nei precedenti errori.
Nelle tradizioni abramiche tale situazione è evocata dalla vicenda di Lot[37]; egli si allontana dalla città corrotta con la propria famiglia prima che giunga il castigo di Dio e la distruzione del suo popolo che lo aveva abbandonato. La moglie di Lot uscendo dalla città non ubbidisce all’ammonizione di non volgersi indietro e segue così la sorte di tutti gli altri; secondo la tradizione essa viene trasformata in una statua di sale.
Fonte: “Oriente e Occidente”, n. 1, aprile 2010.
NOTE
[1] René Guénon, Considerazioni sull’Iniziazione, Cap. XLIII, “Sulla nozione del’élite”.
[2] Dante, Purgatorio, IX, 124-126.
[3] René Guénon, La Grande Triade.
[4] A.K. Coomaraswamy, La philosophie de l’art Chretienne dans l’occident, pag. 38.
[5] Idem, pag. 31.
[6] Idem, pag. 24.
[7] Dante, Epistola a Can Grande, pag. 15-16: “L’opera intera fu intrapresa con uno scopo pratico e non uno scopo speculativo…. lo scopo dell’opera essendo di far uscire gli uomini dal decadimento e condurli a uno stato di benedizione”.
[8] Dante, Purgatorio, XXI, 52.
[9] Ved. anche Considerationes sur la Théorie du geste, in Etudes Traditionnelles, n° 502-512.
[10] Dante, Inferno, V, 39.
[11] Dante, Convivio, trat. I, Cap. V, VII.
[12] È evidente che, per converso, in un contesto tradizionale come quello medioevale in occidente o come quello Indù, alle prime tre caste dei «due volte nati» (iniziazione: seconda nascita) è possibile avere una vocazione (artistica o meditativa), mentre ai Shudra non rimangono che le attività servili e la soddisfazione dei bisogni primari. Il mondo attuale impedendo l’espletazione di una vocazione riduce tutti gli esseri di fatto allo stato di Shudra. Ma poiché la felicità per molti esseri non si esaurisce con la soddisfazione dei bisogni ne risulta anche per il disordine generale uno stato diffuso di infelicità presso gli uomini, che è uno dei segni del mondo moderno. Per contro il non manifestare alcun segno di tale infelicità è già di per sé stesso un marchio significativo delle qualificazioni di un individuo.
[13] René Guénon, Iniziazione e realizzazione spirituale, cap. XVIII.
[14] Naturalmente per ritualizzazione degli atti si deve intendere il compimento di atti conformi all’ordine in cui si coniuga la conformità dell’atto con l’ordine universale e la conformità dell’individuo all’atto; cioè quanto si è evocato a proposito di arte e vocazione.
[15] Ibn ‘Arabî, L’alchimie du bonheur parfait, pag. 32-38.
[16] A.K. Coomaraswamy, La philosophie… cit. Come suggerito da René Guénon (Iniziazione e realizzazione spirituale) nel trattare questo argomento ci si è riferiti ai lavori sull’arte di A.K. Coomaraswamy. Quest’ultimo riferendosi sopratutto alle condizioni attuali considera arte servile quella dell’artigiano, che imita senza conoscere un modello, e arte libera quella dell’artista, che ha concepito direttamente il modello. Per converso secondo René Guénon quando vi sia la concezione diretta nell’intelletto del modello divino non vi è “… dal punto di vista tradizionale alcuna distinzione da fare fra arte e mestiere e neanche fra artista e artigiano…”.
[17] Dante, Convivio, trattato IV, canzone III, 53-54.
[18] René Guénon, Considerazioni sull’Iniziazione, Cap. XLIII , “Sulla nozione dell’élite”.
[19] Idem, Cap. XIV, “Delle qualificazioni iniziatiche”.
[20] Idem. Taluni, facendo riferimento a situazioni che si possono trovare talvolta transitoriamente nel mondo profano, vagheggiano una condizione di lavoro delle organizzazioni iniziatiche in cui tutti si amano e non vi sono contrasti. Si confonde in tal modo un punto di partenza con un punto di arrivo. Quando, come nel mondo profano, non vi è alcuna costrizione e ciascuno può fare quello che vuole, gli esseri risultano appagati nelle loro valenze inferiori. Vi può essere quindi una certa apparente conformità nel «decipere» destinata ad esaurirsi a mano a mano che il potenziamento dell’individualità riduce lo spazio lasciato libero dal «vicino». Per converso la via iniziatica ha lo scopo fondamentale di correggere e rettificare l’individuo, mettendolo necessariamente in stato di privazione. L’individuo se non dimentica sotto la spinta delle sofferenze o delle passioni lo scopo dell’iniziazione, che è il perfezionamento dell’uomo, accetta liberamente tali privazioni, sapendo che esse mirano a ripristinare il suo equilibrio eliminando il turbinio delle passioni. Al termine del viaggio ma solo allora, egli ritroverà la «pace» vera e non quella precaria del suo stato profano. In questo caso si produce un’alleanza fra l’individuo e l’organizzazione iniziatica che lo sottomette alle «prove». Si può così parlare di una collaborazione cosciente e volontaria e di un rapporto gerarchico fra l’individuo e l’organizzazione. Quando invece l’individuo intende partecipare ai lavori dell’organizzazione, ma non sopporta di accettare le privazioni, poiché la sua anima è afflitta dalla malattia di “obbedire alle sue passioni e di essere in accordo con il suo buon piacere” (Sheykh Al-Sulami, Les maladies de l’ame, pag. 62), allora la collaborazione cosciente e volontaria non è più possibile. Infatti le finalità dell’organizzazione, che sono in conformità anche al disegno del Grande Architetto dell’Universo, di uno sviluppo spirituale degli esseri risultano in opposizione con quelle dell’individuo, volte al consolidamento delle sue tendenze e alla soddisfazione dei suoi piaceri. In queste condizioni non vi è più una collaborazione volontaria e cosciente e quindi il riconoscimento dell’autorità è solamente formale. L’autorità può esistere, basta che di fatto non eserciti il «suo» ruolo, divenendo in tal modo solo un «simulacro». In questi casi bisogna però distinguere fra due diverse condizioni come ha specificato un Maestro dell’esoterismo islamico . Vi è “chi sbaglia e sa che non può evitare l’errore, ma tuttavia si rende conto di essere in errore”, ed in tal caso è sempre possibile un pentimento, e “ci si può costruire uno scudo con i riti, contro le tentazioni, i falsi bisogni ed i desideri illusori che il mondo moderno ci presenta”. Vi è invece “colui che sbaglia, ma che si rivolta e non ammette di essere nell’errore”, e questo corrisponde all’atteggiamento di Iblîs. In queste condizioni non è possibile evidentemente alcun lavoro iniziatico. Ed è per questo che il predetto Maestro suggeriva, non solo per gli uomini, ma anche per le donne in Occidente, che “le candidate siano già informate sui loro futuri obblighi, ma l’importante è che abbiano una solida base dottrinale, essendo tenute ad aver letto l’opera di René Guénon, devono aver ben compreso che lo scopo è la morte dell’individualità”. La fatica che Dante prova nel salire la montagna del Purgatorio, e che si attenua dopo l’esaurimento dei suoi limiti nelle cornici più basse, esprime chiaramente che il cammino iniziale implica notevoli sforzi. Uno stato diverso da quello – ex ante – dei profani e da quello – ex post – del Paradiso terrestre, in cui regnano l’ordine, la fratellanza e la pace (René Guénon, Il simbolismo della Croce, cap. «La guerra e la pace»).
[21] Dante, Purgatorio, IX, 109-114.
[22] René Guénon, Considerazioni sull’Iniziazione, Cap. XXXI, “L’insegnamento iniziatico”.
[23] René Guénon, Iniziazione e Realizzazione Spirituale, Cap. XV, “Sul preteso orgoglio intellettuale”.
[24] René Guénon, Considerazioni sull’Iniziazione, Cap. XXXI, “ L’insegnamento iniziatico”.
[25] René Guénon, Considerazioni sull’Iniziazione, Cap. X, “I centri iniziatici”. Per comprendere il segno o almeno la tendenza del piano del Grande Architetto dell’Universo si potrebbe riflettere su quanto scritto da René Guénon nel suo articolo sulla conoscenza innata. Gli esseri dotati di tale qualificazione vengono posti dalla Provvidenza divina in un grado di esistenza tale per cui è possibile il completamento della loro evoluzione. Tali esseri possono così partecipare effettivamente al lavoro dei centri spirituali che risultano come esecutivi del piano del Grande Architetto dell’Universo. Un compito di guida che ha le stesse finalità del lavoro compiuto da ciascuno su sé stessi e che si esaurisce necessariamente solo quando venga a mancare la vocazione. Ne risulta che la carenza di vocazione o di qualificazione e la chiusura di tali centri sono i due termini dello stesso problema, quello dello allontanamento ciclico dal Principio.
[26] D’altro canto, come è stato detto da un Maestro dell’esoterismo islamico, un’organizzazione iniziatica in Occidente ha qualche possibilità di sopravvivenza e quindi essere il punto di riferimento dei suoi affiliati solo se non è composta da individui tiepidi, meno importa se il «calore» e l’impegno della partecipazione sono dati dalla chiara coscienza della partecipazione al disegno del Grande Architetto dell’Universo o solo provvisoriamente dalla prefigurazione di tale stato di cose che si esprime con lo zelo, lo scrupolo e la docilità necessarie.
[27] Vi è chi, interpretando in maniera schematica certi passaggi di R. Guénon sul lavoro collettivo (Iniziazione e realizzazione spirituale ,Cap. XXIII, “Lavoro iniziatico collettivo e presenza spirituale”) ritiene che tali rettificazioni siano possibili solo in presenza di un vero maestro o attraverso dei fatti «miracolosi» ad opera delle influenze spirituali, e senza la partecipazione attiva dell’iniziato. Una tale prospettiva è spesso frutto di una carente ispirazione che fa rinunciare ad ogni sforzo ed iniziative preliminari con i mezzi a disposizione, i quali possono invece rendere possibile le condizioni perché si manifestino poi questi eventi straordinari di cui parla René Guénon a proposito dell’intenzione (Il Re del Mondo Cap. III, “Il centro supremo nascosto durante il Kali-yuga”). In un rituale massonico è detto che si riconosce il grado degli iniziati «da i segni che danno». Quando l’uomo è in contatto con la natura è normale che riconosca la presenza di animali attraverso le tracce che essi lasciano nell’ambiente. Un’attenta osservazione di tali tracce permette di comprendere non solo il tipo di animale ma anche le condizioni in cui si trova, se fugge, se è affamato o ferito. Non diversa è la pratica medica in oriente, e nel passato anche in occidente, dove si deduceva il tipo di malattia dal modo di camminare o dalle posizioni assunte, cioè dai segni esteriori o dalle tracce presenti nel corpo. Se si accetta che l’uomo decaduto ha analogamente un insieme di squilibri ‘psichici’ è inevitabile accettare anche che tale squilibri si manifestino nella condotta verso sé stessi, la famiglia, la tradizione e il mondo esterno. Il non manifestare o nascondere tale condotta, nell’intento di apparire ciò che non si è, risulta così come il primo ostacolo che impedisce di beneficiare del lavoro collettivo. Si deve sottolineare l’importanza degli «altri», sia gli altri iniziati che partecipano al lavoro sia coloro che ci circondano in modo più generale, “… i quali – come è stato detto – sono come lo specchio in cui dobbiamo guardarci, è questo sforzo di riflessione che conta: bisogna che l’iniziato guardi sé stesso con l’occhio della severità e che in questo modo persegua lo scopo del proprio perfezionamento…”. Poi chiunque sia preposto alla guida di una organizzazione in modo legittimo e regolare, anche se opera per delega di un Maestro senza avere lui stesso tale qualificazione, può comunque essere utile nelle prime fasi del cammino (Iniziazione e realizzazione spirituale, Cap. XXIV, “Sulla funzione del Guru”; Cap. XX, “Guru e Upaguru). Vi è da presumere infatti che, anche nel peggiore dei casi, un individuo preposto legittimamente ad un ramo di un’organizzazione, quando non sia troppo deviata o degenerata possa, in virtù della funzione e delle istruzioni ricevute e delle sue esperienze con il Maestro, o con l’organizzazione che lo ha delegato, essere un aiuto per l’iniziato, se non per rettificare gli squilibri più gravi, almeno per identificare le principali «preformazioni disarmoniche» attraverso la «lettura» attenta e ripetuta delle «tracce» che si manifestano nella «condotta». Ma perché ciò succeda bisogna che l’iniziato si esponga volontariamente e con la giusta disposizione all’osservazione e al colloquio sincero con chi esercita l’autorità. Per l’analogia del lavoro, citata da René Guénon, fra i rami delle organizzazioni iniziatiche prive di un vero Maestro e la Massoneria, si potrebbe estendere il compito di guida più sopra menzionato anche al Venerabile delle logge massoniche, durante il periodo di validità del suo mandato. In tal caso appare evidente che l’assunzione dell’incarico di Venerabile implica prima di ogni cosa il compito di «comprendere», «elevare» e «correggere». Bisogna che nell’esecuzione del mandato si rifletta, prima ancora del consenso e della partecipazione dei fratelli, la volontà divina volta al perfezionamento degli esseri. Infatti una Loggia per operare correttamente deve uniformarsi all’orientamento dei centri spirituali i quali “… devono essere considerati come rappresentanti la volontà divina in questo mondo…” (Considerazioni sull’Iniziazione, Cap. X, “Sui centri iniziatici”). Chi esercita l’autorità, in un modo o in un altro, deve adoperarsi così per correggere delle prospettive iniziatiche sbagliate prima che esse si propaghino, e, all’occasione, intrappolare lui stesso, impedendo il raggiungimento degli obbiettivi essenziali dell’organizzazione. Tra quest’ultime prospettive figura quella di considerare il lavoro iniziatico «operativo» compiuto una volta che si rispettino i landmarks della tradizione, si partecipi alle riunioni periodiche e si compiano i riti iniziatici minimi prescritti. Di fatto tutto ciò costituisce solo il presupposto del vero lavoro iniziatico. Si è così tracciato solo il confine di un campo che deve essere dissodato e coltivato. Per queste ultime operazioni occorre uno sforzo personale di assimilazione dottrinale e di correzione degli squilibri, inattuabile senza un «confronto» franco e sincero, che costituisce il «vero» lavoro iniziatico.
[28] René Guénon, Il Regno della quantità e i segni dei tempi, «Prefazione».
[29] Dante, Inferno, VII, 79-80.
[30] René Guénon, La Grande Triade, Cap. XXI, “Provvidenza, Volontà, Destino”.
[31] Dante, Paradiso, XVII, 37-42
[32] René Guénon, La Grande Triade, Cap. XXI, “Provvidenza, Volontà, Destino”.
[33] Sheykh Tadîlî, La Vie Traditionnelle c’est la sincerité, Editiones Traditionnelles, Paris.
[34] René Guénon, Iniziazione e Realizzazione Spirituale, Cap. XVII, “Dottrina e metodo”.
[35] Dante, Purgatorio, IX 127-129.
[36] Idem, 131-132.
[37] Corano 11:79-84.