Renzi, la Boschi e la Banca Etruria: come uccidere le banche popolari
di Michele Rallo
C’erano una volta le banche… non le tentacolari banche “d’affari”, ma le normali banche commerciali, quelle che raccoglievano depositi ed erogavano prestiti, guadagnando su una ragionevole (ma non sempre) differenza fra il tasso d’interesse riconosciuto ai depositanti e quello richiesto ai debitori. In Italia c’erano tante di queste banche, e di tutte le dimensioni: si andava dai colossi in grado di rivaleggiare con i maggiori istituti di credito europei, alle banche di caratura e vocazione regionale, fino alla galassia di piccole banche locali.
Dal 1992 – anno dell’infausta nascita dell’Unione Europea – anche in Italia si è aperta la stagione di caccia alle banche, con l’obiettivo di farne fuori il maggior numero possibile: non con un colpo di doppietta – naturalmente – ma con l’arma più insidiosa (e più mortale) delle “acquisizioni” e degli “accorpamenti”. Ufficialmente, la motivazione era di dimensionare le banche italiane in modo da poter reggere alla concorrenza internazionale. Ma, se così fosse realmente stato, la “caccia” avrebbe riguardato principalmente gli istituti più piccoli. Così, invece, non era; perché le attenzioni dei cacciatori si concentravano subito sulle banche di dimensioni medie e medio-grandi. Qui da noi – si ricorderà – la Cassa Centrale di Risparmio e il Banco di Sicilia (pur con i camuffamenti del caso) furono gli obiettivi privilegiati dalla stagione di caccia. Intanto – contemporaneamente – iniziava l’infiltrazione delle banche straniere nelle grandi banche italiane. Era una manovra parallela a quella delle privatizzazioni: l’una e l’altra dirette ad espropriare l’Italia delle sue ricchezze reali, dei suoi asset strategici.
A tutto questo bailamme (con contorno di chiusura di agenzie e di personale in mobilità) restava comunque estranea una componente della nostra galassia creditizia, quella delle banche ufficialmente censite come “popolari”. Per legge, infatti, tali banche sono configurate come società cooperative, e nessun socio può detenere più dell’1% del capitale. Ciò le ha rese di fatto “non scalabili”, essendo praticamente impossibile che un unico soggetto possa ottenere il controllo di una proprietà così frazionata, con quote che nella gran parte dei casi sono ben al di sotto del limite dell’1%.
Stando così le cose, un bel gruzzoletto (i 450 miliardi di attivi gestiti dalle banche popolari) rischiava di sfuggire al controllo dei grandi gruppi della finanza internazionale.
Ma, niente paura… In Italia abbiamo la fortuna di avere un Presidente del Consiglio che è attento a creare le condizioni ottimali per “attrarre gli investimenti”. Poco importa se, per invogliare gli speculatori – pardon, gli “investitori” – sia necessario rottamare una istituzione del sistema creditizio italiano… L’importante è creare occasioni ghiotte per chi vuole fare soldi facili a spese nostre. Ecco, dunque, l’alzata di genio del Pifferaio dell’Arno (e dei suoi occhiuti consiglieri economici): “spopolarizzare” – mi si passi il termine – le banche popolari, e “metterle sul mercato”. Chi vuole se le prenda, magari a prezzi stracciati, magari arraffando solo il buono e lasciando il cattivo ad una bad bank di comodo, magari gettando sul lastrico una pletora di ingenui risparmiatori. Detto e fatto: un decretino leggero leggero, ed ecco che le banche popolari con patrimonio superiore a 8 miliardi di euro hanno un anno di tempo per trasformarsi da società cooperative in società per azioni, pronte per essere vendute al pubblico incanto.
Dimenticavo: tra le banche popolari che rientrano nel decretino c’è anche la Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio – per gli amici Banca Etruria – di cui è vicepresiedente Pier Luigi Boschi, padre della ministra Maria Elena; e di cui – cosa forse meno nota – è presidente Lorenzo Rosi, in rapporti d’affari con i genitori del Presidente del Consiglio.
Questi sono i fatti essenziali. Sorvolo sulle polemiche spicciole: l’allegra gestione degli affidamenti, il commissariamento, l’invocato conflitto d’interessi, la richiesta di dimissioni per la ministra dagli occhi azzurri, eccetera.
Non posso non ricordare – però – l’episodio di qualche mese fa che vide protagonista il ministro Lupi. Questi – non imputato né indagato – era soltanto colpevole di non aver respinto un costoso regalo per la laurea del figlio, e di aver poi raccomandato lo stesso per un piccolo (e legittimo) incarico tecnico. In quell’occasione, il Vispo Tereso fu lesto a scaricare il suo ministro, costringendolo in pratica alle dimissioni. Resosi così disponibile il posto di ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti (da cui dipendono fra l’altro le intriganti “grandi opere”) il Pifferaio dell’Arno vi piazzò fulmineamente il suo fidatissimo Graziano Delrio.
Nel caso Boschi, invece, il Piccolo Scrivano Fiorentino è diventato improvvisamente garantista. Intervistato circa l’ipotesi di dimissioni della ministra, il premier ha detto che no, la bella guagliona non deve assolutamente dimettersi, neanche nel caso che il suo genitore dovesse essere indagato. Poi ha rincarato la dose: allora dovrei dimettermi pure io, visto che mio padre è indagato da sedici mesi.
Ma guarda un po’, che atteggiamenti diversi: Lupi fuori dalle scatole, Boschi sei tutti noi. Decisamente, il moralismo del Presidente del Consiglio funziona a corrente alternata.
Fonte: “Social”, 22 gen. 2016 (per gentile concessione dell’Autore)