Albertazzi e la RSI: c’è ancora chi ha il coraggio d’insultare

di Giovanni Di Martino

giorgio-albertazzi1La scomparsa di Giorgio Albertazzi, decano di prestigio della recitazione italiana, ha consentito per l’ennesima volta alla stampa commemorativa di facciata di dare il peggio di sé. Questa volta però l’assist era comodo e risaputo, perché Albertazzi non si è mai scrollato di dosso l’appellativo dispregiativo di “repubblichino”. Né ha mai fatto nulla per scrollarselo, ammettendo bellamente di essere stato “repubblichino”.

Anzitutto analizziamo cosa significhi “repubblichino”, ossia, nel senso comune, combattente delle forze armate della Repubblica Sociale. E, stando così le cose, Albertazzi repubblichino lo è stato per davvero (non come Dario Fo “partigiano“), avendo egli prestato servizio come ufficiale niente meno che nella Legione Tagliamento della Milizia, tra il ’43 e il ’45. La Legione Tagliamento era stata creata con quanto rimaneva della vecchia formazione di Camicie Nere che in Russia si era coperta di onore e di medaglie, tanto da meritarsi la dignità di togliere i fasci dalle mostrine e metterci le “emme” rosse stilizzate. Una formazione di tutto rispetto, anche se l’utilizzo che ne è stato fatto è stato, per ragioni logistiche, più di polizia che di guerra (ma tanto per la guerra non sarebbe stata attrezzata perché priva di armi pesanti).

albertazzi_mercante_veneziaIl nostro Albertazzi ci arriva dalla scuola ufficiali GNR di Lucca e si presuppone che la scelta delle Camicie Nere di Renato Ricci rispetto all’Esercito di Graziani sia derivata dalla umana e comprensibile necessità di non allontanarsi troppo da casa. Albertazzi, infatti, apparteneva alla classe 1923, la prima delle tre che vengono chiamate alle armi dalla neonata Repubblica Sociale. Rispondere alla chiamata avrebbe significato finire nelle quattro divisioni regolari della così detta “Grande Unità” (poi ribattezzata Armata Liguria), con partenza immediata per l’addestramento in Germania. Ovvio che il ventenne Albertazzi abbia preferito – si suppone – la scuola allievi ufficiali della GNR, a pochi chilometri da casa.

E l’essere ufficiale di una forza armata, comporta che il relativo adempimento del dovere imponga determinate azioni, soprattutto in tempo di guerra, quali la partecipazione ad un conflitto a fuoco, la decisione per la sorte propria e dei propri sottoposti, o il comando di un plotone di esecuzione. Questo in tutte le forze armate di tutti gli Stati del mondo dall’inizio della storia. Era così nell’esercito di Annibale, in quello di Napoleone e in quello di Eisenhower. E nessuno a guerra finita ha chiesto conto ad alcuno del sangue versato. Anche alla fine della Prima guerra mondiale, gli italiani, benché vincitori, non hanno imputato a Hötzendorf le impiccagioni diffuse ad opera dei soldati austro-ungarici, benché sconfitti.

Ma con la Seconda guerra mondiale le cose cambiano: i vinti sono destinati alla dannazione eterna, una dannazione aspaziale ed atemporale, assoluta dunque. Che una volta stanato ti porterà in tribunale in qualunque parte del mondo, in barella, col respiratore meccanico, o anche nella cassa da morto, come è capitato all’attore Horst Tappert, il cui servizio prestato nella SS Totenkopf gli ha procurato l’eliminazione dai palinsesti di programmazione mondiali (e per inciso anche Tappert era del ’23, e quindi non avrebbe potuto sottrarsi alla chiamata alle armi a meno di essere fucilato).

Dopo settant'anni, e appena morto, c'è ancora chi specula sulle stesse cose...

Dopo settant’anni, e appena morto, c’è ancora chi specula sulle stesse cose…

Secondo dati abbastanza certi, alle Forze armate della Repubblica Sociale aderirono circa 800.000 uomini (e donne nel SAF). Di questi un sacco, essendo ventenni o poco più, divennero famosi nel dopoguerra come calciatori (Benito Lorenzi), attori (Walter Chiari, Raimondo Vianello, Dario Fo) o statisti (Giovanni Spadolini, che però aderì senza combattere in quanto riformato per la famosa insufficienza toracica). A ciascuno di loro, la vita ha riservato, oltre ad un destino, una gogna mediatica differente. Inizialmente (fino agli anni Sessanta) si è passati sopra quasi tutto: la guerra era ancora troppo vicina e troppe bugie non se ne potevano raccontare. Dal 1995, grazie allo sdoganamento politico (il congresso di Fiuggi), istituzionale (le dichiarazioni di Violante) e culturale (le canzioni di De Gregori), si è iniziato a pensare che i reduci “repubblichini” sopravvissuti fossero anche loro degli esseri umani, che però avevano sbagliato. Nei trent’anni in mezzo però la caccia a chi è stato fascista, o peggio “repubblichino”, è stata spietata: se c’è stato chi non ha mai rinnegato il passato senza però ricordarlo (Tognazzi, Vianello, Walter Chiari) ed è sostanzialmente stato lasciato in pace, chi ha rivendicato le proprie posizioni politiche espressamente (Enrico Ameri, Lando Buzzanca) ha perso il posto di lavoro. In mezzo ci sono state figure proprio come Giorgio Albertazzi, che sicuramente non si è detto mai fascista, ma a quelli di destra stava simpatico perché la RSI l’aveva fatta fino in fondo (cioè senza passare dall’altra parte un mese prima della fine), e lo rivendicava senza vantarsene. “A vent’anni la pensavo così, per me la patria era quella…”. Fine del discorso.

Se però la sua fama è stata sempre minata dalla nomea di “repubblichino”, la sua carriera di attore non ne ha risentito più di tanto, per il semplice fatto che ha sempre privilegiato il teatro, rispetto al cinema ed alla televisione. Occorrerebbe magari celebrare proprio la sua carriera di attore, anziché dargli del boia, dal momento che non sarà stato Gassman o Carmelo Bene, ma era sicuramente meglio di Benigni, Pieraccioni, Ceccherini e quel sottobosco insopportabile di toscani che aspirano ogni parola e di cui i media ci hanno riempiti negli ultimi vent’anni.

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There is 1 comment for this article
  1. BENNATO BENNATI at 6:42 pm

    Da toscano, quale sono e fui, anche a me i toscani che aspirano ogni parola stanno sulle palle e in particolare mi ci sta il modo di parlare fiorentino ( ” icché tu sei””, ” la mi dica ” e via di questo passo ), sempre pregno di una carica di violenza mal repressa.
    Quanto al purissimo italiano, lo sentii parlare una volta da un anziano campagnolo che moltissimi anni fa mi chiese un passaggio in auto in Val d’Orcia ( Siena ).

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