No, non siamo tutti Charlie Hebdo

di Francesco Lamendola

je_suis_charlieI fatti di Parigi sono estremamente gravi, e sottovalutarli sarebbe un ulteriore, imperdonabile errore, dopo i molti, troppi, da parte europea. Inoltre, l’attacco dei terroristi islamici è l’ennesima dimostrazione che, con quella galassia culturale, qualunque forma di dialogo è impossibile: pertanto esso va condannato categoricamente, incondizionatamente, radicalmente, e ci spinge a fare chiarezza in noi stessi: perché siamo di fronte ad una alternativa fra civiltà e barbarie, e dobbiamo scegliere da che parte stare.

Ciò detto, vi è ancora qualche importante considerazione da fare. Un giornale come «Charlie Hebdo» , che vive di satira spesso volgare, sempre provocatoria, a volte blasfema, non è e non può essere la bandiera sotto la quale l’Europa deve prendere posizione contro l’estremismo islamico. La filosofia che esso esprime non è la nostra: non è quella di quanti amano la cultura dell’Europa, la bellezza dell’Europa, la saggezza dell’Europa; è la figlia spirituale di Voltaire e dell’Illuminismo, massonico e anticristiano, che, avendo tolto di mezzo il proprio principale avversario, il Cristianesimo appunto, rivolge ora i suoi strali e il suo veleno contro chi una religione ce l’ha ancora e ci crede seriamente: un miliardo di fedeli musulmani.

Molti vorrebbero far passare i redattori di «Charlie Hebdo» per degli eroi della libertà e dei martiri dell’idea. Noi non siamo d’accordo. Non erano eroi della libertà, perché la vera libertà non può essere quel che loro avevano eretto a professione: la derisione, l’offesa e la ridicolizzazione sistematica dei sentimenti religiosi altrui. La vera libertà non è mai negativa, cioè diretta contro qualcuno o qualcosa, ma sempre e solo positiva, cioè diretta a costruire qualcosa e ad incontrare qualcuno. Ridicolizzare, offendere e deridere i sentimenti religiosi altrui non è solamente stupido: è anche un segno di suprema arroganza intellettuale. Significa rifiutare il dialogo e la critica costruttiva e sostituirli con il dileggio e lo sberleffo; significa considerare l’interlocutore indegno di un confronto civile e meritevole solo del nostro scherno. La provocazione ha un senso e una funzione pedagogica se è diretta a un amico (anche in senso ideale) o se è condotta, comunque, con un certo garbo, con una certa delicatezza: solo a tali condizioni può destare, forse, un pensiero autocritico nel nostro interlocutore ed aprire le porte a un dialogo, o, almeno, a una possibilità di dialogo. Se la provocazione è pesantissima, sistematica e fine a se stessa; se, cioè, ha il solo ed unico scopo di divertire e suscitare la solidarietà di chi condivide le nostre idee, compreso il nostro disprezzo e la nostra arroganza verso l’altro, certo non serve a gettare ponti verso quest’ultimo, verso il diverso; non serve letteralmente a nulla, se non a ferirlo, amareggiarlo, rinfocolare la sua rabbia e la sua brama di vendicarsi.

Non ci si venga a dire, pertanto, che quella di un giornale come «Charlie Hebdo» era una battaglia per la libertà, per la civiltà e la tolleranza: è vero tutto il contrario. Quei giornalisti – che sia concessa la pace alle loro anime e che sia fatta giustizia dei loro assassini – era una battaglia, sì, ma una battaglia a favore della divisione, dell’odio, dello scontro di civiltà. Nessun musulmano, per quanto moderato, poteva trovare il benché minimo spunto positivo in quella linea editoriale; così come non poteva trovarcelo nessun cattolico. Solo che il Cristianesimo ha elaborato, nella sua lunga storia, un valore più grande della stessa fede in Dio: il valore del perdono; e ne ha dato l’esempio lo stesso Gesù Cristo, invocando il perdono del suo Padre celeste nei confronti di coloro che lo stavano crocifiggendo. L’Islam non ha elaborato quel valore, anzi, ritiene che la vendetta sia la giusta e doverosa punizione dell’offesa fatta a Dio (e non a Dio soltanto); e qui entra in gioco una ulteriore problematica, la distanza dei rispettivi paradigmi culturali.

Ciò che rende difficile e intricata la vicenda del sangue sparso a Parigi in questi giorni è, appunto, l’intrecciarsi e il sovrapporsi di almeno tre diverse questioni, ciascuna delle quali meriterebbe, invece, una riflessione distinta, anche se è evidente che sono questioni strettamente legate l’una all’altra.

Prima questione: il terrorismo. Eravamo partiti da lì e ci ritorniamo: è chiaro che i terroristi islamici cercano degli obiettivi simbolici da colpire; se non fosse stato «Charlie Hebdo», sarebbe stato un altro: su questo non bisogna essere ingenui, né farsi illusioni. Ricordiamo Theo Van Gogh, ricordiamo Salman Rushdie. I fanatici hanno dichiarato guerra al mondo non islamico, una guerra santa: già da alcuni anni la combattono senza esclusione di colpi. In Nigeria, in Kenia, in Iraq e altrove, non hanno bisogno di provocazioni o di pretesti: ammazzano tutti i Cristiani che possono, rapiscono, stuprano, deportano intere popolazioni. E, se siamo in guerra, allora è chiaro che noi dobbiamo difenderci. Ma, attenzione: l’Europa non è la stessa cosa degli Stati Uniti; non ha le stesse responsabilità, dunque evitiamo di parlare, genericamente, di “Occidente”. Il terrorismo islamico di questi ultimi anni è frutto anche delle scelte politiche e militari scellerate compiute dalla Casa Bianca, particolarmente delle due Guerre del Golfo, 1992 e 2003, e degli interventi in Siria e in Libia. I due Bush, padre e figlio, andrebbero processati da un tribunale come quello di Norimberga, per crimini contro la pace (oltre che per palesi e gravissime violazioni del diritto: si pensi solo alla vergognosa vicenda delle torture nel carcere di Abu Ghraib e, poi, nella base di Guantanamo). Invadendo, con pretesi miserandi, degli Stati sovrani relativamente ordinati, rovesciando i dittatori laici (Saddam Hussein, Gheddafi) e attizzando il vespaio etnico-religioso (Sciiti, Sunniti e Curdi in Iraq; le diverse tribù e clan della Tripolitania e della Cirenaica, in Libia), gli Statunitensi hanno aperto una fase di instabilità cronica, che non si è più sedata e che ha visto, come prime vittime, le antichissime comunità cristiane dei Paesi nordafricani e mediorientali: alcune sono state letteralmente distrutte (Iraq), altre vivono ormai nel terrore (Copti dell’Egitto). Al posto dei dittatori sono stati insediati al potere dei leader “democratici” incapaci e corrotti (Afghanistan, Iraq, Libia) e si è messa in movimento la galassia terroristica, o le è stata fornita nuova esca, attirando combattenti da ogni parte del mondo islamico, Europa compresa (ecco gli immigrati di seconda e terza generazione pronti ad andare ad addestrarsi nei campi dello Yemen e, poi, a combattere o compiere attentati in qualunque parte del mondo).

Delle cosiddette “primavere arabe”, meglio non parlare: esse sono esistite quasi solo nella fervida immaginazione dei media e dell’opinione pubblica europea; dovunque, con la sola eccezione della Tunisia, si sono concluse con l’avvento di nuove dittature o con la vittoria elettorale dei partiti islamici radicali, come i Fratelli Musulmani in Egitto. L’idea, tutta americana – ma fatta propria anche da molti uomini politici e pseudo-intellettuali europei, specie di parte progressista -, che la democrazia sia un bene evidente in se stesso e che essa possa e debba essere esportata e trapiantata in tutto il mondo, è un’idea assolutamente sbagliata. Vi sono società che non sono pronte per essa, e imporla con la forza crea resistenze, tensioni o reazioni molto più gravi dei mali che si pretende, con essa, di avere eliminato. Noi Europei, noi Italiani, dovremmo saperlo, perché dovremmo ricordarcelo: la democrazia ci è stata portata dai “liberatori” Angloamericani, durante la Seconda guerra mondiale (stranamente alleati con i “liberatori” sovietici, che tanto democratici e tanto migliori dei nazisti non erano) a suon di bombe, eccidi e distruzioni. Non l’abbiamo creata noi, non l’abbiamo realizzata noi: è nata dal suicidio dell’Europa, e vi sono ragioni per pensare che gli Anglo-americani abbiano voluto il cataclisma della seconda guerra mondiale (ferme restando le responsabilità di Hitler e, naturalmente, anche quelle di Stalin) precisamente per avere il modo, attraverso l’imposizione di regimi democratici, d’instaurare il loro dominio politico e la loro supremazia economica e finanziaria. I “bravi ragazzi” yankee non sono venuti in Europa per un atto di generosità disinteressata e per “liberarci” dalle dittature (tanto è vero che erano alleati di Stalin, cui regalarono mezzo continente, Polonia compresa, a guerra finita: quella stessa Polonia per la cui difesa era stata scatenata, da Gran Bretagna e Francia, la seconda guerra mondiale), ma per completare l’opera iniziata nel 1917-18 e proseguita negli anni ’20: l’asservimento economico e finanziario, poi anche politico e culturale, dell’Europa.

Seconda questione: l’incontro e lo scontro di differenti paradigmi culturali. Nel mondo globalizzato di oggi, nell’Europa multietnica di oggi, le tensioni culturali, religiose, filosofiche, diventano incessanti e inevitabili: una società come quella francese, o italiana, o tedesca, non può riuscire a gestire tanta diversità. Una cultura impiega secoli o millenni a diventare quella che è, a elaborare i suoi valori, nel bene o nel male; la convivenza e la tolleranza verso altre culture non s’improvvisano e non sono mai facili, neppure dopo secoli di vicinanza: figuriamoci se tale vicinanza, anzi, se la più disordinata promiscuità, si realizza dall’oggi al domani, come è accaduto nell’Europa degli ultimi venticinque anni. Un cattolico riesce a tollerare gli sberleffi alla sua religione da parte di giornali come «Charlie Hebdo», perché ha elaborato una filosofia della pazienza e del perdono, nel corso di molti secoli: altre culture e altre religioni non hanno elaborato quel tipo di risposta, ma credono fermamente nella sacralità della vendetta. Questo è un problema: la mancanza di valori condivisi. Se un paziente musulmano rifiuta, in ospedale, di essere curato da una infermiera o da una dottoressa, perché individui di sesso femminile, questo è un problema culturale. Se picchia o uccide la figlia che si fidanza con un ragazzo europeo, questo è un problema culturale. Se una ragazza musulmana pretende di recarsi a scuola con il velo, o addirittura con il burqa, questo è un problema culturale, che diventa immediatamente un problema di convivenza civile.

Ora, sul piano culturale e spirituale, l’Europa di oggi non è più quella di una volta: non ha più certezze, non ha più fedi, non ha più valori – tranne il Dio denaro. L’Europa di oggi non è più l’Europa di Omero e di Dante, di Michelangelo e di Bach, di Cervantes e di Shakespeare: è l’Europa del nulla, dell’alienazione, dell’ignoranza, dell’oblio delle proprie radici, dell’edonismo spicciolo, dell’utilitarismo e volgare e del materialismo grossolano. Non crede più in niente, non ha niente da offrire ai suoi giovani – figuriamoci ai giovani figli degli immigrati. La natura, però, aborre il vuoto: il vuoto attira il pieno, per una legge fisica ben precisa. Il vuoto culturale e spirituale dell’Europa attira l’estremismo religioso, che, in questo momento storico, è quello islamico: ciò spiega il fascino e la forza di attrazione dell’Islam radicale, non solo verso i musulmani dell’Africa e del Vicino Oriente, ma anche di quelli immigrati in Europa e magari nati in Europa, da genitori, a loro volta, nati in Europa. Da una parte il nulla, il vuoto, la disperazione; dall’altra dei valori forti, qualcosa in cui credere, per cui vivere e per cui, eventualmente, morire.

Ci si meraviglia che gli immigrati di seconda e terza generazione non amino l’Europa; ma i giovani europei, amano la loro terra, la loro cultura, la loro civiltà? La risposta è, in molti casi, negativa: non le amano, perché neppure le conoscono. Al posto di Dante e di Bach, telefonini e televisione; al posto di Michelangelo e Shakespeare, hamburger e Coca-Cola da McDonald’s. Non più amore per la cultura, non più amore per la bellezza, non più rispetto per la saggezza. Oblio delle radici, disprezzo verso gli anziani, cattivo esempio dei genitori ai propri figli: con i beni materiali si crede di aver dato qualcosa ai giovani, mentre non si è dato loro nulla. Ci vorrebbe ben altro: amore per la famiglia; amore per il lavoro; amore e timor di Dio. Questi sono i valori che hanno fatto grande la civiltà europea, a cominciare dalla nostra nobile civiltà contadina, che per secoli ha cresciuto uomini e donne sobri, onesti, laboriosi, capaci di assumersi le proprie responsabilità nel corso della vita. Non erano dei santi: erano persone che sapevano sacrificarsi per i propri cari, che si sarebbero vergognate di rubare il pane che mangiavano. E scusate se è poco.

Terza questione: gli immigrati; e, specificamente, gli immigrati musulmani. Calcoli ragionevoli fanno stimare che, nel 2050, più di metà degli Europei saranno di origine straniera (considerato anche il diverso tasso d’incremento demografico). Ciò significa che gli Europei “indigeni” diverranno minoranza: forse minoranza tollerata, forse perseguitata. L’Europa, allo stato attuale, non è in grado di integrare gli immigrati (i quali, da parte loro, non ne hanno alcuna intenzione), perché non possiede alcuna superiorità morale, alcuna forza di attrazione spirituale. Può offrire solo migliori condizioni di vita materiale – anch’esse, peraltro, assai relative -, ed è questo che attira milioni di Nordafricani, di Mediorientali, e così via. Troppo poco. I frigoriferi pieni non sono un valore etico: e sono solo i valori etici che creano la coesione sociale, il senso di appartenenza, l’amore verso una nuova patria. Una società non si regge se tutto ciò che tiene insieme i suoi membri sono i frigoriferi pieni; senza contare che, se i frigoriferi si svuotano – come sta accadendo con la crisi attuale – viene a cadere perfino quell’unico elemento, e non restano che la frustrazione e la rabbia delle speranze deluse, delle aspettative tradite. La conclusione è semplice: o l’Europa ritrova l’anima, o è perduta…

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