Migranti, profughi, rifugiati… idee poche, confusione molta
di Michele Rallo
Abbiamo sempre insistito sulla differenza tra rifugiati e migranti, anche quando nessuno sembrava farci caso e la parola d’ordine era: accogliere chiunque fosse “in cerca di una vita migliore”.
Adesso, di fronte all’emergenza di quest’estate, sembra che si incominci a fare qualche distinzione fra chi “ha diritto” e chi “non ha diritto” all’accoglienza. Dimenticando, peraltro, che nessuno “ha diritto” ad entrare in uno Stato di cui non ha la cittadinanza. È lo Stato, ogni singolo Stato, ad avere il diritto di accogliere o di respingere chicchessia. Ciò posto, gli Stati dell’Unione Europea aderiscono ad una convenzione ONU che fissa i parametri (rigorosi) per il riconoscimento dello status di rifugiato (o rifugiato politico). Sintetizzando al massimo: rifugiato è colui che è costretto ad emigrare «per fondato timore di persecuzione per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale od opinione politica»; migrante, invece, è colui che volontariamente lascia lo Stato di appartenenza, per motivi economici o per qualsivoglia altra causa. Fin qui – e chiedo scusa per essere stato costretto a ripetermi – la distinzione di fondo, detestata – manco a dirlo – dai buonisti in servizio permanente effettivo.
Stando così le cose (e, piaccia o non piaccia alla Boldrini, stanno proprio così), come fare per aggirare l’ostacolo e costringere l’Europa a non opporsi a questa invasione migratoria telecomandata? Semplice: ricorrendo ad una terza figura, che in maniera surrettizia si vuole sovrapporre e far coincidere con quella di rifugiato. Mi riferisco alla categoria del profugo, «termine generico – cito dal sito del Consiglio Italiano per i Rifugiati – che indica chi lascia il proprio paese a causa di eventi esterni (guerre, invasioni, rivolte, catastrofi naturali)». Ma, attenzione – e qui sta il punto – senza avere lo status giuridico di rifugiato, presupposto indispensabile per ottenere la “protezione” dello Stato ospitante.
Perché questa fondamentale differenza? Semplice: perché il rifugiato politico è una figura individuale, è una singola persona che – se ricondotta nel proprio paese – rischia una ingiusta (si presume) punizione, se non anche la perdita della vita. I profughi, invece, sono una categoria plurima, sono un insieme di persone che fuggono da un pericolo generico ancorché grave. Il rifugiato è talora costretto a prolungare nel tempo la propria permanenza all’estero, talché potrebbe integrarsi nello Stato ospitante e successivamente richiederne la cittadinanza. I profughi, al contrario, essendo solitamente in numero rilevante, possono ragionevolmente aspirare soltanto ad una ospitalità temporanea, per il periodo strettamente necessario al ritorno della normalità nel paese di origine: periodo che potrà durare anche alcuni anni, ma che dovrà necessariamente avere termine. Ecco perché – di solito e senza che qualcuno ne organizzi l’esodo “spontaneo” – sono ospitati in campi di raccolta posti generalmente poco oltre la frontiera degli Stati confinanti.
E veniamo ai profughi di cui si parla in questi giorni, quelli che arrivano dalla Turchia in Grecia, marciano attraverso Serbia, Ungheria ed Austria, per raggiungere infine la Germania. Sono profughi che riscuotono la generale simpatia, perché – direttamente o indirettamente – sono vittime della barbarie dell’ISIS. Ma in che misura costoro possono essere considerati “profughi”? Perché – si faccia attenzione – non ci troviamo di fronte a gente che fugge dal proprio paese, ma a persone che hanno già trovato un asilo oltre le frontiere siriane, segnatamente in Turchia, in Libano e in Giordania. Dopo di che, in una fase successiva, hanno deciso di affrontare un viaggio per raggiungere una destinazione migliore, di solito nell’accogliente Europa. Naturalmente, lascio ai giuristi decidere se il viaggio verso l’Europa possa essere considerato la prosecuzione della fuga dalla Siria in fiamme, o non piuttosto una “migrazione economica” da un asilo all’altro.
V’è, poi, un altro aspetto che dovrebbe consigliare una valutazione più attenta del fenomeno, specie dal punto di vista della sicurezza collettiva. Secondo alcune voci, infatti, in Turchia si assisterebbe ad un traffico vastissimo di passaporti siriani falsi. Si parla di svariate decine di migliaia di pezzi. Provenienza? Chissà, forse i soliti “trafficanti di uomini”, o forse altri personaggi con altro genere d’incombenze, turchi o stranieri che possano essere. Se la notizia dovesse essere confermata, è probabile che mezza Europa sia ormai piena di “migranti economici” afgani, pakistani, egiziani che hanno dichiarato di essere siriani. Ed è parimenti probabile che, tra i falsi siriani, ci siano anche molti soldati dell’ISIS, mandati in Europa per preparare future azioni terroristiche.
Intanto, assai misteriosamente, la cancelliera tedesca ha cambiato opinione, così di botto, sull’immigrazione. Adesso, la stessa gentile signora che aveva fatto piangere la ragazzina palestinese che chiedeva soltanto di terminare il corso di studi in Germania, la stessa cancelliera del Quarto Reich – dicevo – è diventata improvvisamente buona, buonissima, dolce, zuccherosa, gelatinosa… gronda comprensione e solidarietà da tutti i pori, ed assicura che la Germania accoglierà centinaia di migliaia di profughi e che – attenzione a questo passaggio – «molti tra loro diventeranno cittadini tedeschi». Che dire? Mi pare una conversione che sa di miracoloso; come quando il premier greco Tsipras ha cambiato idea, dalla sera alla mattina, sulla politica di rigore che ha disastrato la Grecia. Cose che succedono in questa strana Unione made in Maastricht.
Se poi allarghiamo lo sguardo fino agli orizzonti atlantici, ci accorgiamo che accadono cose ancor più strane. Come la sporca guerra d’aggressione contro il regime siriano di Assad – condotta in sostanziale alleanza dall’ISIS e da un esercito “democratico” finanziato dagli americani – guerra che è la causa diretta di tanti cataclismi geopolitici, ivi compresa l’ondata di profughi che oggi preme alle porte dell’Europa.
È strana questa guerra? No, è una guerra in linea con tutti gli altri disastri provocati dagli americani in questi ultimi anni (Somalia, Iraq, Libia, eccetera). Ciò che è strano è che nessuno fra i capi di governo europei abbia sentito il bisogno di chiedere agli USA e alla NATO di seguire una politica meno contraria agli interessi dei nostri paesi. Misteri, misteri…
Fonte: “Social”, 18 set. 2015 (per gentile concessione dell’Autore)