Civiltà di rumore e morte e nostalgia

di Loris B. Emanuel

Tuba, mirum spargens sonum

Per sepulcra regionum

Coget omnes ante thronum

Dies irae

silenzio1Da qualche parte Schopenhauer confessa tutta la propria insofferenza per la città di Danzica: il rumore delle fruste per i cavalli gli impediva di pensare. Riandare oggi a quell’umore non può che far sorridere: se il filosofo vivesse in una qualsiasi città moderna forse andrebbe dritto dritto ai matti (identico motivo per cui Schopenhauer era un filosofo e i filosofi di oggi non lo sono). Inquinamento acustico, si dice. Buone lezioni sin dalle elementari hanno insegnato a generazioni di bambini italiani l’esistenza di quest’altro tipo d’inquinamento. Lo sferragliare dei tram, i segnali acustici delle autovetture, ruspe e martelli pneumatici, rombi di motore, antifurti: tutto ciò e molto altro, si apprendeva, crea e incrementa l’inquinamento acustico, tipico del mondo degli adulti, in ogni caso dei “grandi”. Ma quelle generazioni di bambini poco o per nulla furono messe in guardia da un pericolo paradossalmente peggiore: presto sarebbero diventati loro stessi “grandi” e pertanto, inevitabilmente, produttori di rumore. Fu un peccato d’omissione, al quale va aggiunto un dettaglio non dappoco: col velocizzarsi (rumoroso) del tempo, quelli che un tempo divenivano “adulti” dopo i diciotto, venti-venticinque anni, lo sarebbero diventati molto prima, con tutti i difetti degli adulti e senza tuttavia la loro responsabilità: adultoidi, pertanto.

È innegabile che all’oggi chiunque produca rumore, ovunque e in qualsiasi maniera. Non c’è esercizio commerciale, locale di ristoro, treno, autobus e, si badi, casa privata in cui il rumore non regni sovrano. Carmelo Bene aveva riassunto in una frase che poi divenne celebre – anche se non intesa a sufficienza – che «tutta la storia è storia della phoné», e phoné vuol dire propriamente rumore. Oggi potremmo parlare senza alcun distinguo di civiltà della phoné, quindi del rumore. Un rumore sempre crescente e onnipervasivo, invadente fino alla malvagia protervia. Auricolari potentissimi lasciano esondare i singulti infernali d’una batteria e gli stridii d’una chitarra elettrica, invadendo l’incolpevole e silenzioso passeggero d’un treno. Ogni pizzeria è dotata di televisori al plasma e radiodiffusione con la scelta delle peggiori immagini e dei peggiori suoni. Persino in certe grandi librerie la radio vomita cacofonie nelle orecchie dell’avventore, che vorrebbe scegliere un libro in santa pace, senza che qualcuno lo distragga con commenti e musichette. Quasi totalmente assuefatti ai lavori in corso estivi e allo sfrecciare d’una motoretta con la marmitta truccata, ormai l’invasione proviene da miriadi di punti di fuoco. Anche nei luoghi dove un tempo non penetravano, oggi i rumori dominano pressoché incontrastati. Si pensi al moltiplicarsi nelle case dei televisori. Due o tre, a volte accesi in contemporanea, muri sempre più sottili per la nota speculazione edilizia consentono l’accesso del rumore da appartamento ad appartamento, che si somma a quello domestico, come se vivessimo in alveari di cartapesta. Persino la voce umana, adoperata così quasi sempre a sproposito, diventa infine phoné.

La produzione è sempre più crescente, inarrestabile nella sua voracità. Se si pensa, al di là della cafonaggine con cui sono maneggiati, al fastidio che producono i telefoni portatili non si può che prenderne atto; e di recente notavo un’altra, assai diffusa, moda, che per giunta copre pressoché tutto lo spettro anagrafico: dai ragazzini agli uomini maturi: gli zaini trascinabili. Avete ben presente ciò di cui parlo ma ne offro una breve descrizione per chi ancora non se ne fosse avveduto: si tratta di zaini che una volta si portavano sulle spalle e che ora invece, come i cosiddetti trolley da viaggio, si trascinano per terra su delle ruotine. Professionisti e studentelli, che prima imbarcavano sulle loro schiene libri e documenti, ora sono sollevati dall’insostenibile peso e ne scaricano altro sul prossimo, ingrassando il già obeso rumore urbano.

silenzio_rumoreRicordo lo spavento – letteralmente – di una ragazzina di tredici o quindici anni quando, entrata in una libreria con la madre, quest’ultima dovette rassicurarla: in una libreria (indipendente, la gestiva lo scrivente) quel silenzio era normale, doveroso, non era una discoteca (o una libreria di catena). Ho visto facce imperterrite immerse nel rumore, facce di esseri assuefatti come se quella stordente cacofonia fosse la normalità.

Intervistando nella sua dimora di campagna un noto cantautore italiano, oasi di pace e silenzio, un (si noti) musicologo a un certo punto chiese all’ospite di accendere il televisore: vivendo in città egli non era più abituato all’assenza di rumori, un’assenza che lo atterriva, per sua stessa ammissione. Ma al di là della semplice – anche se non per tutti ovvia – constatazione, c’è da capire perché la società moderna, anziché rifiutare il rumore, sempre più lo incrementa, vi si assuefa e trova addirittura anomalo il silenzio. Credo che ciò costituisca una parte della funzione di rimbecillimento della televisione: non solo immagini e parole tanto vuote quanto colorate e roboanti ipnotizzano, drogano le persone, ma la violenza della phoné costante è servita ad abituare l’essere umano moderno al vero motivo per cui esiste il rumore: per impedirgli di pensare.

Anni fa, prima che il terremoto del 2009 ne portasse via metà, visitai la cattedrale dell’Aquila, superbo e umilissimo monumento fatto erigere dallo stupor mundi, il mai troppo rimpianto Federico II di Svevia. Ero accompagnato da una guida sui generis, che s’occupava, tra una lavoro manuale e l’altro, di simbologia, specialmente relativa al capoluogo abruzzese, in tal senso ricchissimo. Mentre mi mostrava alcuni glifi pavimentali, mi invitò ad ascoltare ciò che circolava nell’aria. Era un canto gregoriano, bellissimo, diffuso con altoparlanti. Soffuso, invero, e pertinente con l’ambiente. Ma tutto qui. La mia guida mi fece infatti notare: «Lo fanno per impedirci di pensare». Fu come se ricevetti una sveglia. Perché, mi chiesi in seguito per anni, e chiesi, saturare di rumori, fossero anche “pertinenti”,ogni luogo della terra? La risposta era tutta lì. Infatti anche la musica, la più bella delle musiche, se non suonata al momento e nel luogo opportuni, è solo rumore.

L’ulteriore passo da compiere in questo tentativo di comprendere l’anomalia-anomia – proprio etimologicamente: privazione della legge e dell’ordine – sta nel chiedersi: che cosa non si deve pensare? È semplice: a se stessi, alla propria condizione di uomini del sottosuolo ma nati per risalire «a riveder le stelle». Infine: alla morte, che dà senso alla nostra vita. Più fonti, sacre e profane, ci soccorrono in tal direzione; e forse vieppiù quelle profane, orbe coscientemente d’un nómos tuttavia inscritto irreversibilmente ed eternamente in ognuno di noi, che, per l’appunto, emerge repente, senza avviso e senza che noi si sia preparati a riceverlo e proprio per questo in un certo qual senso più vero perché non mediato, naturalissimo.

cageCiteremo due fonti. La prima, più “sospetta”, proviene dall’intelligentissima riflessione che Roberto Calasso fa su John Cage. Lo definisce un inventore, e «la sua invenzione specifica è stata quella di introdurre discretamente, infantilmente, un po’ di Vuoto nella musica, e perciò nella nostra vita. Ora, quel vuoto ha per noi una funzione salutare, come una brezza per un asfittico. Perché una delle malattie più gravi di cui soffriamo è quella del pieno: la malattia di chi vive in un continuo mentale occupato da un vorticare di parole smozzicate, di immagini stolidamente ricorrenti, di inutili e infondate certezze, di timori formulati in sentenze prima che emozioni. Tutto questo produce molti disastri – ma soprattutto uno, da cui discendono gli altri: la mancanza, l’incapacità di attenzione […]. In una camera acusticamente isolata non ascoltiamo il silenzio (che è, se mai, una categoria metafisica) ma il quasi impercettibile suono della circolazione del nostro sangue. Cage ha invitato i suoi ascoltatori a rivolgere il loro orecchio a questa realtà. Ma, per farlo, non bisogna tanto esercitare l’orecchio quanto la mente a costruire al suo interno un po’ di Vuoto dove accogliere i suoni. Questa pacata proposta può facilmente provocare reazioni violente, perché proprio al Pieno molto sono pateticamente incollati (altrimenti – temono con ragione – non saprebbero a cosa appigliarsi). Perciò, credo, Cage è tanto fischiato».

La seconda la troviamo in un saggio di Pietro Citati su Kafka, in cui leggiamo: «Kafka conosceva benissimo lo Straniero [una condizione “platonica” dell’essere umano secondo lo scrittore boemo, ndr] che portava in sé stesso: sapeva che voleva il silenzio perché desiderava la morte. “Quanto più profonda ci si scava la fossa, tanto più silenzio si ottiene” [è Kafka che parla, ndr]. Eppure continuava a cercare il puro, immacolato silenzio: quel silenzio che gli uomini violano, offendono e straziano con le loro voci, perché non vogliono accettare la morte». Nell’avversativo citatiano «eppure» possiamo scorgere un piccolo-grande vulnus: sarebbe stato più preciso dire e pertanto, dacché è esattamente la morte che l’uomo cerca inconsapevolmente. E qui ci inoltriamo nei terrifici penetrali.

Ancora Citati: «…lo Straniero odiava soprattutto il chiasso, il frastuono, il rumore della vita: detestava il minimo bisbiglio, il colpo di tosse, l’infinitesimo sussurro, il fruscio che subito si perde nell’aria, il canto lieve degli uccelli: perché il suono è il segno distintivo della vita, ciò che la differenzia dalla silenziosa morte; e attraverso il suono qualcuno aveva introdotto il peccato nel Paradiso terrestre».

L’osservazione di Citati su Kafka potrebbe apparire ancor più anomala, dicendo che il peccato è stato introdotto nel Paradiso terrestre attraverso l’introduzione del rumore. È abbastanza semplice cogliere la perfetta ortodossia di questo asserto. Che cos’è il peccato? È deviazione, distrazione: l’etimo è blindatissimo, cogente al massimo grado. E che cosa produce il rumore se non, appunto, distrazione? La natura dell’uomo è contemplativa perché come per esempio dice Dio nel Corano, «Non ho creato gli uomini e jinn se non affinché Mi adorino» e l’adorazione, commenta l’autorevolissimo Ibn Abbas, altro non è che conoscenza.

Il silenzio ha un immediato portato: il vuoto potenziale. E qui torniamo all’essenza dell’essere umano, del suo progetto sulla terra, che è puramente contemplativo, ossia conoscitivo. Ecco, potremmo dire che il rumore, prodotto, ricercato, amplificato persino amato, è il “contravveleno” al Paradiso. È noto che nei proverbi e nelle espressioni popolari si concentrano dosi altissime di saggezza. Uno di essi parla non a casa di rumore infernale.

kafkaBisogna intendere il concetto di suono in Kafka proprio come phoné, perché altrimenti si rischia d’incorrere in un errore gravissimo. Il suono puro infatti è l’Aum principiale, ciò con cui, secondo tutte le tradizioni, fu creato l’universo. (Si pensi alla bellissima descrizione “pagana” con cui inizia il Silmarillion). Ma nel di-qua quasi sempre il qualcosa è l’esatto contrario di ciò che essa rappresenta ed è nel di-là, per inevitabile corruzione; quindi il suono, che è cosa in sé nobile e sacra, nelle mani dell’essere umano, vieppiù moderno, si trasforma in phoné. D’altra parte non esiste, come qualcuno ha rilevato, per esempio l’otologo Alfred Tomatis, il silenzio. Esiste sempre un’asintotica approssimazione al silenzio, perché ciò che è nato dal suono non può estinguerlo del tutto, deve sussistere sempre una traccia, un ricordo di esso (lo scorrere del sangue, della vita quindi, un improrogabile memento). Ed è proprio questo ricordo che l’uomo non vuole ascoltare, perché in buona sostanza gli direbbe che tutto ciò che sta facendo è solo phoné. La ricerca del silenzio da parte di certi individui, poi, è piuttosto la ricerca del suono primordiale, così come d’altra parte ogni musica è originariamente e inconsciamente ricerca di quel suono, tentativo di ri-creazione d’esso. Ma prima di quest’ultimo esisteva il Niente, l’Assenza-Assente-di-Tutto, ciò che nello zen si chiamerebbe vuoto, che è invece totale pienezza-plenitudine, e torniamo così all’approssimazione: la ri-creazione del suono (primordiale) è il tentativo di anticipare il riassorbimento nel silenzio, più ci spingiamo verso il suono primigenio più abbiam possibilità di scorgere la Culla principiale.

Resta da chiarire il concetto di morte, che dalle parole di Citati-Kafka sembrerebbe essere un ominoso incontro. Ci sono due tipi di morte: una è quella che per esempio Dostoevskij, saccheggiato e straziato da Freud, ha ben tratteggiato in Memorie dal sottosuolo. Gli indù parlerebbero di tamas, il terzo guna, infernale, che ci «zieht uns… hinab» (anziché, come la goethiana Margherite, hinan, di natura invece sattvica). Non è la discesa agli inferi, bensì quella nel forno avernale. L’altra è la morte iniziatica, preceduta proprio dalla discesa agli inferi. E qui si vede un’altra inversione: il rumore infernale non è un dazio per la discesa agli inferi, bensì la sua contraffazione. Vera prova iniziatica e iniziale della discesa agli inferi è invece proprio il silenzio. Ossia l’assordante visione-conoscenza della nostra rumorosa nullità. Ma c’è pur sempre un’insopportabilità dell’assenza reale di suono, che dichiara l’impossibilità dell’uomo, qui e da sveglio, di accedere integralmente alla Presenza. Una dimostrazione fattuale proviene dall’Est Europa, dalla Romania.

In un centro sperimentale universitario di Iasi, alcuni scienziati hanno predisposto una stanza in cui si è creato, a conoscenza e memoria d’uomo, il più fondo silenzio concepibile. Un silenzio talmente totale che tutti coloro i quali hanno voluto esser chiusi nella stanza, dopo circa un quarto d’ora hanno dovuto desistere implorando di aprire la porta. È stato infatti accertato che l’esposizione anche breve a un tale silenzio può suscitare vere e proprie psicosi. Un profondo silenzio ottenibile nel mondo, e al di là del sottofondo del suono primordiale, è pur sempre accompagnato da un minimo di suono, soffuso, in lontananza, ovattato, ma qualche traccia di rumore terrestre permane. In una stanza in cui invece ogni singolo suono – il fruscio della camicia, il contatto del piede sulla pavimentazione, un’unghia che gratta una zona del corpo, forse la stessa circolazione sanguigna – è ipso facto assorbito dalla sua struttura, che cosa disturba un uomo sino fino a fargli rasentare la patologia psichica e a chiedere di essere liberato da quello stato? Forse sono proprio i suoi stessi pensieri, il vuoto sensibile che si crea prima ancora di quello interiore e sottile a imporgli un indicibile terrore. (Ed è uno stato inesprimibile, perché di fatto nessuno di quanti è stato in quella stanza ha saputo fornire una spiegazione razionale e ragionevole su quel terrore; e d’altra parte anche in condizioni di silenzio assai meno denso quasi nessuno ha la facoltà di razionalizzare la sua insopportabilità). Il rumore non può mai essere del tutto eliminato perché il primo è quello prodotto dalla nostra mente; e un essere umano degno di questo nome dovrebbe, anzitutto, tramutare la propria interiorità in un correlativo di quella stanza in Romania, in modo da assorbire ogni singolo rumore proveniente dall’esterno e soprattutto dall’interno di ognuno di noi.

San_Pietro_Martire_che_ingiunge_il_silenzioD’altra parte la regola del silenzio imposta ai monaci e nelle confraternite sufi, soprattutto in certi momenti, è il simulacro vivente di quell’altro silenzio ed è propedeutico ad esso. Non si tratta di bon ton, vuoto formalismo. Il giusto comportamento, che nella terminologia arabo-islamica si chiama adab, è la conditio sine qua non risulta pressoché impossibile accedere alla presenza spirituale incarnata da un maestro e della zawiya, ossia il luogo dove è impartito l’insegnamento spirituale, e si presenta come, appunto, vera e propria propedeutica alla scienza sacra, tanto che alcuni sommi maestri – per esempio lo sheykh tijani Mohammad al-Hafiz del Cairo – mettevano al primo posto nella gerarchia gnoseologica dell’aspirante, seguita da riti e studio. E di più: nelle pratiche spirituali più estreme c’è quella dell’isolamento, che, ancora per togliere un esempio dalla ricchezza di questo mondo, nel sufismo si chiama khalwa, letteralmente isolamento (1). Il discepolo è introdotto in una stanza dotata solo dell’essenziale e a volte nemmeno di questo, e lasciato dai tre ai quaranta giorni, ripetibili, lontano da pressoché ogni contatto umano (tranne quelli indispensabili per espletare necessità fisiologiche, ma anch’esse nel totale silenzio). Egli praticherà solo lo dhikr, il ricordo di Dio, delle precise giaculatorie. Ciò è l’analogo della pratica eremitica dei padri del deserto. E lì, in quell’isolamento e in quel silenzio, avvengono le lotte più dure, feroci, mortali perfino. Lì, nel deserto, per esempio sant’Antonio fece a pugni col demonio. Prototipo di tutto ciò sono i quaranta giorni nel deserto del Cristo: lì, nel silenzio, l’umanità è costretta a vedere e a lottare coi propri demoni interiori, la cui realtà agiografica altro non è che una proiezione plastica pedagogica. Per converso e ancora nella tradizione mediorientale, il suk, così colorato e sovente piacevole, è il teatro dell’apparizione e dell’azione di satana o di altri demoni; e il suk è il luogo più distruttivo e rumoroso che in un certo senso si possa concepire.

Come però diceva Baudelaire e come insegnano antiche sapienze, da un apparente male può nascere un bene, più o meno importante, più o meno rilevante. Per esempio senza il rumore, non avrei mai dovuto produrre né il rumore delle mie dita sulla tastiera, né queste stesse righe. Per aggiungere rumore ad altro rumore, s’intende.

Note:

(1): Il termine arabo khalwa (Corano, XXXV, 22) ha una radice triconsonantica khâ’-lâm-wâw che implica essenzialmente i seguenti significati: “essere o diventare vuoto”, “essere libero da qc.”, “essere privo”. Da qui il senso di “stare solo” insito nel vocabolo coranico. Lo stesso Libro sacro (LXXXIV, 4) presenta un verbo (takhallâ) riferito alla terra quando “si svuota”. Nell’uso ordinario della lingua araba, il verbo khallâ, di largo uso nei cosiddetti “dialetti”, significa “lasciar andare”, “lasciar perdere”, “abbandonare”. Un altro verbo (akhlâ) implica l’idea di “sgombero” ed “evacuazione” (di un alloggio), mentre la stessa toponomastica d’Arabia ci offre il cosiddetto “Quarto vuoto” – cioè completamente desertico – nella parte sud-orientale della Penisola: ar-Rub‘ al-Khâlî.

Da tutto ciò si evince che nella pratica del “ritiro spirituale” (khalwa) si cerca essenzialmente “il vuoto” attraverso “l’abbandono” di tutto ciò che ci distrae dal supremo obiettivo.

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