La “lotta alla corruzione” è made in Usa
di Enrico Galoppini
C’è qualcosa che non torna in tutta questa “moralizzazione” a colpi di avvisi di garanzia e processi strombazzati che, anziché tenersi nelle sedi deputate e nei tempi stabiliti, si svolgono anzitempo sulle prime pagine dei giornali e i titoli d’apertura dei tiggì.
Ogni politico vive praticamente con la spada di Damocle dello “scandalo” sulla testa. Ma di questo avevamo già scritto, spiegando perché è praticamente impossibile, in regime liberaldemocratico, svolgere attività politica onestamente, attenendosi alle “regole”.
Vi sono infatti altre ‘regole’, non scritte, che tutti, volenti o nolenti, devono rispettare. Altrimenti inceppi l’ingranaggio e fai la figura del rompiscatole o dell’alieno.
Intendiamoci, i più s’adeguano più che volentieri alle consuetudini del magna magna, ma la precisazione andava fatta per non sembrare di quelli che pensano che in giro sono tutti corrotti tranne lui. Ci sarà pure qualche onesto, ma se c’è dovrà attendere, per fare politica, che finisca l’era della “democrazia”.
In regime democratico, un politico non dura in eterno, quindi arraffa quel che può per il tempo della cuccagna che gli è capitata. Ma obiettando correttamente che in effetti esistono politici sulla cresta dell’onda per decine di anni, l’argomento principe per spiegare perché la democrazia si risolve in una cleptocrazia è che essa non seleziona i migliori, bensì i peggiori.
Tutto ciò fa ovviamente comodo a chi comanda per davvero, cioè l’alta finanza, poiché di fatto la liberaldemocrazia è una ferrea oligarchia del denaro. Che usa il denaro come strumento per imporre un sistema coercitivo, a suo uso e consumo, verso la gran massa dei sudditi (che la retorica democratica definisce “cittadini”).
Ora, è un dato di fatto che questi “signori del denaro” possono gettare nel cestino i loro camerieri-politici come e quando vogliono. A questo punto ciò è chiaro a tutti, compresi i politici più rampanti e spregiudicati.
Basta un po’ di polverone mediatico e, dopo qualche “rovente polemica”, l’infangato di turno toglierà il disturbo. Il che non significa affatto che finirà nella cacca per sempre. Viene semplicemente tolto dal suo incarico, ma il più delle volte, fatti salvi i grandi festival della “moralizzazione” come Tangentopoli, quando il sangue deve scorrere a fiotti, egli casca in piedi e non lo ritroveremo ad iscriversi alle agenzie di lavoro temporaneo o al semaforo a pulire i vetri delle macchine.
Le superstar di tutta quest’ipocrita operazione di “pulizia” condotta oramai a ritmo continuo sono i magistrati. Quelli che – come scrive Maurizio Blondet – hanno vinto “o’ concuorso” e che vengono accolti col tappeto rosso da Fabio Fazio in adorante ammirazione.
La magistratura, nel modo di vedere di una certa opinione pubblica, incarna tutte le virtù. Ci sono alcuni che probabilmente vorrebbero vivere in un Governo dei giudici assai simile al proverbiale Paese dell’Utopia. Un’Italia trasformata in un Terrore giacobino permanente, con “le toghe” detentrici dell’insindacabile diritto di vita o di morte. I “cattivi” al rogo e le masse “progressiste” in spasmodica attesa di sapere quale sarà il prossimo messo alla graticola. E poi s’indignano per l’Inquisizione o “la Shari’a”!
Purtroppo va detto che un simile sentire, bigotto e puritano, è assai diffuso, specialmente tra gli elettori della cosiddetta “sinistra”. I quali, essendo innamorati dell’America (dell’America “buona”, naturalmente, di Martin Luther King e delle “battaglie per i diritti civili”, del melting pot, della “frontiera” kennediana, di Obama e delle sue “visioni”, dell’I care importato da Veltroni, ed altre amenità), sono il naturale destinatario – in veste di pubblico mugugnante e “indignato” – della tendenza a montare, ad ogni piè sospinto, un qualche “scandalo” che dia l’illusione di fare un po’ di pulizia e di mettere ordine negli affari pubblici.
Va da sé che questo tipo d’opinione pubblica che grosso modo corrisponde allo zoccolo duro di un certo elettorato, “democratico” e “progressista”, ed elevatosi al rango dell’immacolata società civile”, si sente “migliore” degli altri. Cioè “più morale”, “più civile” degli altri. Che di volta in volta sono “i democristiani”, “i berlusconiani” eccetera. Non arrivano a dire “i fascisti” giusto perché s’incartoccerebbero nella contraddizione di dover dare conto della corruzione, ai livelli minimi, all’epoca del Ventennio.
Insomma, chi va in estasi per il tintinnio di manette è lo stesso che tiene in tasca il santino di Berlinguer, che della “questione morale” aveva fatto la sua bandiera. Alla faccia del Comunismo, della “lotta di classe” e del trionfo della rivoluzione proletaria in tutto il mondo. Altro che soviet: è rimasta solo la collettivizzazione degli avvisi di garanzia.
In fin dei conti, a questi “eurocomunisti” che avrebbero poi prodotto i professionisti della cosiddetta “altra Italia” (quella “onesta”, “contro tutte le mafie” ecc.), bastava vedere in galera gli altri, quelli dell’odiata parte avversa, col permesso, gentilmente offerto dai “padroni del denaro”, di continuare a rubare senza dover incorrere nelle “inchieste” di procure compiacenti perché simpatizzanti e, forse, “obbedienti” agli stessi superiori incogniti…
Di tutto questo, naturalmente, ancora una quarantina d’anni fa non v’era traccia. Anche allora gli Usa mettevano eccome il becco, mandando in rovina presidenze, governi e carriere politiche, ma non era ancora stato inaugurato un perenne ‘festival della moralizzazione’ che, di questo passo, finirà per auto-svalutarsi automaticamente producendo indifferenza ed assuefazione persino nei suoi più strenui appassionati.
I magistrati non erano dei “protagonisti” da talk show, né si voleva far credere che la democrazia – cioè la partitocrazia imposta dalle bombe dei “liberatori” – non avesse il suo prezzo da pagare in termini di sprechi ed inefficienza. Alla fine tutti avevano la minestra nel piatto: che importava se c’era chi si prendeva le mazzette? Tutta questa “indignazione” contro “la casta” non poteva invece che essere montata “in tempi di crisi”, quando la maggioranza deve tirare la cinghia e perciò mal sopporta di sapere che c’è chi magna a quattro palmenti coi suoi quattrini.
Ma se questa è la democrazia che piace tanto, che almeno non si faccia finta che possa funzionare diversamente. Eppure devono sempre inventarsi qualche alibi per sostenere che la “vera democrazia” non s’è ancora realizzata. E la colpa è sempre degli “altri”. Di qualche “cattivo” che si mette di traverso alla marcia verso il “sol dell’avvenire”.
È la stessa storia del “socialismo reale”: là edificavano il Comunismo, ma siccome non era tutto questo capolavoro ci si doveva raccontare che quello non aveva nulla a che fare col mondo disincarnato delle idee, che è l’unico che conta e che prima o poi avrebbe fatto irruzione nella storia. Per ora, però, ci si doveva accontentare del “meno peggio”.
Se vi fosse un minimo di buona fede e d’acume, proprio chi si lamenta di continuo dello sperpero di denaro pubblico e delle cose da fare che non si fanno potrebbe utilmente studiare il periodo immediatamente precedente la nostra “liberazione”, scoprendo aspetti assolutamente “sbalorditivi”. E cioè che in un anno venivano tirate su delle cittadine, accadendo persino che si registrassero degli avanzi di cassa rispetto ai costi preventivati. E non scomodiamo l’attivo col quale – ministro delle Finanze tal Pellegrini Giampietro – chiuse i suoi giorni la Repubblica Sociale Italiana.
Ma questo era il “Male assoluto”, direbbe un certo Fini applaudito a scena aperta da tutto il “partito antinazionale” che comprende pure quello “delle manette”.
Vogliamo allora considerare allora – dal punto di vista della “corruzione” – l’istituto monarchico? Ai moralizzatori in servizio permanente effettivo, essendo dei giacobini, le monarchie non piacciono affatto, tranne quelle camuffate: come quella di “re Giorgio”, dimessosi da poco per dare spazio ad un governo diretto dei magistrati (Grasso, Mattarella).
La monarchia, a proposito di “corruzione”, offre effettivamente spunti interessanti da meditare. Stiamo ovviamente parlando di una monarchia non costituzionale, senza partiti, parlamenti, lacci e lacciuoli ad inficiarne il corretto funzionamento. Che non è nemmeno la “monarchia assoluta”, la quale, inibendo di fatto il ruolo della nobiltà preparò inesorabilmente la sua fine.
In un regime compiutamente monarchico, dove ogni membro di ciascuno “stato” svolge la funzione cui è preposto, la questione della “corruzione” non esisterebbe nei termini nei quali viene proposta ossessivamente oggidì, semplicemente perché il re è il detentore, in ultima e suprema istanza, dell’autorità. Un’autorità che deve unicamente al fatto di rappresentare, in terra, l’Autorità per antonomasia, ovvero quella divina. Per questo, una volta cadute le monarchie “di diritto divino”, le monarchie rimaste non sono altro che dei simulacri di un’istituzione che non è “assolutista” come crede chi s’è fatto fregare dalla scuola, ma dovrebbe riflettere in quest’ordine terrestre l’unità e l’unicità principiali da cui origina anche questo nostro piccolo mondo di uomini che s’illudono oggigiorno di essere più “liberi” perché han tagliato la testa al re.
Detto più francamente, fuor da ogni filosofia, se tutto quanto appartiene al re, e cioè se la “cosa pubblica” coincide con la sua esclusiva proprietà, il sistema monarchico è da preferire a quello democratico per svariati motivi, non ultimo quello che qui stiamo analizzando.
Un re, infatti, non può essere definito “corrotto” perché ha accettato un orologio in regalo. Semmai potrà essere considerato un re cattivo se non svolge la funzione per la quale ha ricevuto l’investitura. Un re malvagio non è un re che prende le mazzette, insomma, per il banale fatto che non ne ha bisogno. Ci si lamenterà di un re solo nell’esclusivo caso in cui il re in questione non facesse quello che i suoi sudditi – ciascuno al proprio livello – si aspettano da lui. E allora si dovrà eventualmente insorgere per avere un buon re, e comunque sarà un problema che dovranno risolvere i nobili, non il volgo, che in una situazione normale non avrebbe “idee politiche” buone solo a dargli l’illusione di contare qualcosa e di “capirci” negli affari pubblici, come fanno al bar dello sport tutti quelli che pensano di essere il commissario tecnico della nazionale.
La questione della “corruzione” potrebbe riguardare i ministri del re, scelti – com’è normale che sia – secondo il suo insindacabile giudizio. Ma un conto, dal punto di vista del popolo, è aver a che fare con un ministro eventualmente corrotto che in ogni momento, una volta beccato dal re, può vedersi staccata la testa; un altro dover sopportare legioni di “professionisti della politica”, di gente insomma che non ha mai lavorato e che nella politica ha oculatamente scorto la greppia da cui mangiare ad libitum, con tutto il codazzo di portaborse arrivisti e senza scrupoli.
Ma non c’illudiamo che, dati i nostri tre o quattro lettori, queste considerazioni possano avere la benché minima possibilità d’incidere sulla realtà. Figuriamoci se masse sempre più “desideranti” (C. Preve) possono sopportare l’idea di essere governati da un re. Ciò significherebbe essere giunti alla corretta conclusione che ciascuno dovrebbe starsene al suo posto.
Al contrario, chi si sente parte dell’elitaria schiera dei “buoni” pensa che i guai, tra cui quello della “corruzione”, provengano sempre da un “deficit democratico”, dalla scarsa presa delle “istituzioni repubblicane”, dalle pene troppo lievi per “i cattivi” (cioè la parte avversa). Per cui, avanti tutta, a colpi di “inasprimenti” ed “autorità anti-corruzione”, verso la nostra trasformazione finale in un clone dell’America, dove la guerra ai corrotti, come quella contro “il razzismo”, “la droga” eccetera vanno avanti imperterrite, in mezzo al plauso della “società civile”, mentre il governo e tutto un modo di vivere e d’intendere la gestione degli affari pubblici fan di tutto per porre in essere le condizioni che generano il razzismo, i drogati e, per l’appunto, la mitica “corruzione”.