La crociera del “Britannia”. Intervista a Michele Rallo
Il Discrimine incontra Michele Rallo, storico, opinionista e deputato al Parlamento, nei ranghi di Alleanza Nazionale, per due legislature (sito personale e di studi: http://www.europaorientale.net/). Gli abbiamo posto alcune domande su un suo recente opuscolo dedicato alla Crociera del “Britannia” (sottotitolo: I retroscena delle privatizzazioni italiane ricostruiti attraverso quattro interrogazioni parlamentari, Centro Studi Dino Grammatico, Custonaci (TP) 2014).
Per prima cosa, ti ringrazio per aver accettato quest’intervista.
Vorrei cominciare con un inquadramento storico-politico del problema. Il 2 giugno 1992, un gruppo selezionato di esponenti del mondo politico, economico, finanziario e culturale italiano viene invitato a bordo del panfilo personale della Regina d’Inghilterra, in acque territoriali italiane, per presenziare ad un “seminario” in tema di “privatizzazioni” tenuto da esperti della City. Ci sono rappresentanti del mondo della borsa e delle banche d’affari inglesi che, a detta dei partecipanti, si limitarono ad esporre le loro idee in materia.
Ma meno di quattro mesi prima era scoppiato lo scandalo del Pio Albergo Trivulzio, che avrebbe prodotto il ciclone politico-giudiziario denominato “Mani Pulite”. Sappiamo tutti com’è andata: i “gioielli di famiglia” sono stati privatizzati ed una classe politica più attenta all’interesse nazionale è stata spazzata via.
Quanto alla tanto sbandierata “moralizzazione” della politica, beh, lasciamo stare.
Quali furono le motivazioni che ti spinsero a chiedere delucidazioni al governo su questo specifico argomento, ovvero la cosiddetta “crociera del Britannia”? E quali risposte ottennero le tue interrogazioni?
Innanzitutto, voglio precisare una cosa. Quelle quattro interrogazioni vennero presentate una prima volta, sul finire dell’XI Legislatura, dall’onorevole Antonio Parlato; il quale, poi, impossibilitato a ripresentarle perché nominato Sottosegretario al Lavoro nel I° governo Berlusconi, le passò a me ed al collega Landolfi, che le ripresentammo all’inizio della XII Legislatura.
La motivazione che mi spinse ad “adottarle” – se così posso dire – era quella di ottenere notizie su un episodio di grande rilievo. Nella convinzione – aggiungo – che la nuova coalizione di governo (di cui faceva parte il MSI non ancora diventato Alleanza Nazionale) avrebbe fornito risposte chiare ed inequivocabili, peraltro assumendo in tema di privatizzazioni una posizione nettamente diversa rispetto a quella dei precedenti governi. Cosa che, invece, non avvenne. Né, tantomeno, il mio partito di allora svolse una funzione moderatrice in tema di privatizzazioni. Quanto alle interrogazioni, naturalmente, non ebbero risposta.
Questo ci fa già capire quali siano i supposti “poteri” del Parlamento, quando c’era qualcuno che si prefiggeva di “aprirlo come una scatoletta” per poi scoprire che la “scatoletta” è vuota…
Ma passiamo alle cose serie, maledettamente serie.
Possiamo infatti affermare, senza alcun pericolo di essere smentiti, che a partire da “Tangentopoli” gli italiani hanno perso, un pezzo dopo l’altro, consistenti e significativi elementi che configuravano la loro sovranità, seppur nel quadro di un Paese uscito sconfitto da una guerra ma che nel bipolarismo Usa-Urss aveva saputo ritagliarsi discreti spazi di manovra, conquistati con le unghie e coi denti (omicidi Mattei, Moro ecc.).
Poi, cambiando gli equilibri di potere internazionali, anche l’Italia avrebbe dovuto riposizionarsi, perché se guardiamo alla storia, alla geografia e alla cultura nel senso più ampio del termine avremmo dovuto chiudere una volta per tutte con l’atlantismo, l’occidentalismo, e volgerci finalmente verso la Russia. Ma chi ci tiene sotto scacco ha pensato bene di non mollare la presa sull’osso (cioè l’Europa occidentale), così ha avviato a ritmi accelerati il “processo d’integrazione europea” che altro non s’è rivelato se non un progressivo inglobamento nell’alveo occidentalista.
Se l’analisi è corretta, quale ruolo hanno avuto gli ambienti della finanza apolide basati nella City, e che cosa ha significato, simbolicamente e concretamente, il seminario sulle privatizzazioni tenutosi sul panfilo di Sua Maestà britannica?
La tua analisi mi sembra corretta. Quanto al convegno sul “Britannia”, secondo me fu una sorta di avviso ai naviganti. Come a dire: fino ad oggi in Italia si è soltanto parlato di privatizzazioni; da oggi in poi si farà sul serio. Messaggio recepito supinamente dalle forze politiche italiane; forse non immediatamente dal MSI, ma sicuramente, un paio d’anni dopo, dalla sua erede Alleanza Nazionale.
Certo, quello delle privatizzazioni era solo un aspetto della completa acquisizione dell’Italia al dominio coloniale dell’unica superpotenza sopravvissuta alla guerra fredda. D’altro canto, dopo la morte di Moro, Berlinguer e Almirante, e dopo la liquidazione politica di Craxi e Andreotti, non c’erano più politici in grado di opporsi al disegno americano.
Naturalmente, concordo anche con il giudizio sul cosiddetto “processo d’integrazione europea”. In realtà, un processo anti-europeo, finalizzato a spalancare le porte dell’Europa alla globalizzazione pro-americana.
Adesso sarebbe interessare parlare dei partecipanti al famigerato convegno. Ovviamente si trattava di “invitati”, quindi di personaggi ritenuti in un modo o nell’altro ricettivi rispetto ai “consigli” elargiti dagli esperti di finanza e privatizzazioni. Alcuni di questi partecipanti ce li troviamo oggi in posti di rilievo delle cosiddette “istituzioni”, nazionali ed europee. Sono quelli che forniscono “direttive”, impongono “austerità”, passano per salvatori della patria con “iniezioni di liquidità”. È inutile persino nominarli, tanto sappiamo tutti chi sono. A mio avviso sono solo dei vili traditori, che in un mondo normale dovrebbero guadagnarsi la fine che spetta a questa infame categoria. Purtroppo non viviamo in un mondo normale, pertanto non desta alcuno scandalo – a partire dalla cosiddetta “libera stampa” – che alcuni politici, economisti e funzionari dello Stato si mettano a disposizione di privatissimi interessi, per giunta stranieri.
Ma nel muro di gomma della “stampa libera” all’epoca si aprì una falla. Puoi parlarci di come trapelò la notizia del convegno del “Britannia”? Quali furono le reazioni politiche? E quali, nello specifico, quelle della parte politica che in qualche modo era vicina alle posizioni del settimanale che rivelò lo scandalo? Un settimanale che non avrebbe avuto vita lunga…
La prima notizia – che mi risulti – fu data dalla “Executive Intelligence Review”, la rivista di di Lyndon La Rouche. La Rouche (più volte candidato “minore” alla nomination democratica per la Presidenza degli Stati Uniti) è il capofila degli ambienti americani che si oppongono alla politica USA di colonizzazione dell’Europa e di aggressione alla Russia. In Italia la notizia venne rilanciata con grande evidenza da “L’Italia settimanale”, la rivista diretta da Marcello Veneziani. Il deputato missino Antonio Parlato ne fece oggetto di una serie di interrogazioni e, successivamente, argomento di un polemico intervento in Commissione Finanze nel corso di una audizione di Mario Draghi, all’epoca Direttore Generale del Tesoro.
Poi – come già detto – nella successiva Legislatura le medesime interrogazioni vennero ripresentate dal collega Landolfi e da me. Naturalmente, neanche noi – come in precedenza Parlato – ricevemmo risposta dal governo, che all’epoca era il primo gabinetto Berlusconi. Intanto, “L’Italia settimanale” subiva una serie di fatti spiacevoli: dalla giubilazione di Veneziani alla cessione della testata ad un editore uruguayano, poi fallito.
Quanto ai partecipanti, nelle interrogazioni si citavano i nomi che erano stati fatti dai giornali. Su tutti spiccavano quelli di un politico e di un tecnico, rispettivamente il senatore Beniamino Andreatta e il dottor Mario Draghi. Il primo era un esponente di punta degli ambienti italiani pro-privatizzazioni, nonché padrino politico di Romano Prodi. Il secondo (che preciserà di aver svolto soltanto l’intervento introduttivo) era l’ex Direttore generale della World Bank, da un anno Direttore generale del nostro Ministero del Tesoro; i suoi successivi incarichi sono noti: Vicepresidente della Goldman & Sachs, poi Governatore della Banca d’Italia e, infine, dominus incontrastato della Banca Centrale Europea.
Tutto ciò può essere semplicemente “un caso”? Direi proprio di no, se consideriamo Tangentopoli e l’ondata di privatizzazioni e dismissioni del patrimonio pubblico – oggi ancora in corso – che alla fine degli anni Novanta poteva dirsi completata per quanto riguarda i capitoli principali.
A mio modesto avviso, il nostro problema, di Italiani, è che sono in pochi quelli che vogliono effettivamente bene al loro Paese. La maggioranza di chi fa politica o di chi regge le redini dell’industria e della finanza o è preda di suggestioni della sua epoca (“liberalizzare”, “privatizzare” ecc.) o, molto più plausibilmente, è un cacasotto, che capisce l’antifona e perciò s’adegua; per non parlare di chi, coscientemente, vende la sua Nazione per un tornaconto personale.
Che cosa è possibile fare oggi, concretamente, a parte informare, una volta che il danno è stato in gran parte fatto? Ci sono uomini in grado di invertire la tendenza? Pensi che le giovani generazioni – a differenza di chi, allegramente, si bevve la favola della “moralizzazione” – possano comprendere il livello del crimine realizzato, oppure siamo un popolo senza speranza che si rassegnerà a vivere da schiavo?
Personalmente oscillo tra momenti d’ottimismo ed altri di pessimismo: da un lato, mi sembra che “la fine delle ideologie” abbia aperto la possibilità di una comprensione migliore anche del passato, ed inoltre oggi esiste, su molti siti internet, un’informazione meno irreggimentata; dall’altro, però, la forza del condizionamento operato attraverso i consueti canali come la scuola e la cultura (compreso il cinema), nonché il modo di vita che va imponendosi sempre più anche in Italia, non giocano a favore di una “riscossa” di cui ci sarebbe un estremo bisogno.
Certo, la tentazione del pessimismo è forte. Vedere come quasi tutte le forze politiche – di cosiddetta destra e di cosiddetta sinistra – si adeguino agli ordini di scuderia che arrivano dall’alto è una cosa che fa schifo: tutti “moderati”, tutti atlantisti, tutti a pendere dalle labbra della BCE o del Fondo Monetario Internazionale, tutti a spalancare le porte di casa nostra alla marea migratoria, tutti pronti a privatizzare, tutti pronti a sostenere le “riforme” che hanno sotterrato il nostro benessere, dalle pensioni al Jobs Act.
Eppure, un elemento di speranza c’è: un movimento di rivolta che va crescendo e che si concretizza nelle urne, con il successo di nuove formazioni che, a destra come a sinistra, sembrano voler seriamente opporsi al “suicidio assistito” dei paesi europei… assistito dagli americani, s’intende. Qualche cosa comincia a muoversi, anche in Italia. Io spero molto in Salvini e in Landini, senza dimenticare le cose interessanti che dice Grillo quando non gioca a fare il Robespierre in sedicesimo. Spero molto nella reazione democratica, elettorale degli italiani e degli europei. Perché è solamente nelle urne che il disegno antieuropeo targato Unione Europea può essere battuto. Spero che la gente smetta di astenersi e vada a votare, e che impari a votare bene. Naturalmente, non penso ad una alleanza Salvini-Landini-Grillo, ma piuttosto ad un patto di non aggressione, ad una intesa per contrastare – ognuno dalle sue posizioni – le porcherie del fronte collaborazionista.
Il fattore fondamentale – al di là del “coraggio” e dell’abilità politica di ciascuno di questi personaggi – sarà quello della buonafede di costoro. Abituati come siamo a tradimenti e giravolte, bisogna stare sempre col ‘fucile puntato’ contro chi si presenta in un modo ed in realtà agisce in un altro. Proprio chi proviene dall’Msi, poi An, dovrebbe saperlo bene…
Quanto all’astensionismo, l’ho sempre trovato funzionale agli interessi che ci dominano, tant’è vero che in America va a votare una metà circa (quando va bene) della popolazione e la “democrazia” non ne soffre affatto. Anzi, dicono che quella è una “democrazia matura”.
Oltretutto, la stessa storia italiana ci offre un chiaro esempio di come, per via elettorale, e perciò “legale”, si possa “fare la rivoluzione”. Naturalmente mi riferisco al Fascismo. Anche se dobbiamo essere coi piedi per terra e considerare che oggi, a differenza di allora, non c’è una generazione reduce dalle trincee…
Adesso ti voglio fare l’ultima domanda, forse al limite della fantascienza, ma di sicuro attinente alla “fantapolitica”.
Stabilito che, in nome delle “riforme”, il grosso del danno è stato fatto, quali sarebbero le necessarie misure che un governo italiano sinceramente patriottico dovrebbe prendere una volta insediatosi col favore del consenso elettorale per ribaltare la nefasta tendenza avviatasi simbolicamente (e non solo) a partire dal convegno sul Britannia?
Ci ho pensato spesso. Quando questo sistema imploderà (è solamente questione di tempo) bisognerà iniziare la “ricostruzione”, come dopo una guerra. Allora – è il mio personalissimo parere – si dovranno abbandonare definitivamente le nostre vecchie industrie, peraltro proprietà degli stranieri, ed iniziare a costruirne altre, mettendovi dentro – se così posso dire – l’inventiva, l’intelligenza, la capacità che i nostri padri avevano riversate nell’imprenditoria del dopoguerra. Dovremmo lasciare agli stranieri i vecchi marchi, i contenitori svuotati del genio italiano, e dovremmo crearne di nuovi, dove profondere tutte le energie di un Paese rinato. Naturalmente, penso anche ad altro: penso ad un sistema bancario nazionalizzato, che possa essere di supporto alla “rinascita”; e penso alla fine – non soltanto alla attenuazione – della folle politica di “accoglienza” praticata oggi.
Quando sarà possibile tutto ciò? Quando la nostra crisi economica e sociale avrà raggiunto e superato i livelli di quella greca. E quando la situazione sarà diventata a tal punto insostenibile da indurre gli italiani a preferire l’incognita dell’uscita dall’euro piuttosto che la certezza di una morte per asfissìa. Certo, dovremo affrontare un momento assai difficile (anche perché i poteri forti ci bersaglieranno) ma, superato quel momento, potremo iniziare la ricostruzione economica, sociale e morale della nostra Nazione.
(intervista a cura di Enrico Galoppini)