Un “elogio dell’intolleranza” del maggiore filosofo del liberalismo
di Bennato Bennati
Sfogliando un vecchio numero de “Il Borghese” (del 28 Luglio 1966, probabilmente mi avrà fatto compagnia qualche mattina al mare sotto l’ombrellone) ho trovato questo ELOGIO DELL’INTOLLERANZA di Benedetto Croce (da “Filosofia dello Spirito” III “Filosofia della Pratica, Economica ed Etica., pp. 43-44, Laterza 1932) che, in tempi in cui è la “tolleranza” (e quale ne sia il costo in termini morali e sociali) ad essere l’opzione la più ricorrente non dirò nel coro, ma nel belato generale, ritengo sia utile riproporre ai lettori che non intendano confondersi col gregge (bèheee), non perché lo scrivente sia uno zelatore dell’“intolleranza”, ma per ricordare che nessuna tesi qualsivoglia può stare da sola, senza la sua antitesi, il suo complementare, e che se si invoca la tolleranza, nel mondo della molteplicità e delle opposizioni, altrettanto, mutatis mutandis, deve farsi per l’intolleranza, un corno dell’alternativa non potendo sussistere senza l’altro, e che, se si aspira alla libertà e alla pace, non serve optare per nessuno degli elementi in confronto, occorrendo portarsi in spirito oltre il loro cozzo, in quel punto (che è “metafisico”, non appartenente cioè al “fisico”) noto ai soli iniziati, in cui essi si sintetizzano nella indistinzione del comune principio.
Al di fuori di quel punto, evviva la tolleranza, ma anche l’intolleranza quando ci vuole, ci vuole.
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“Giustificazione della repressione pratica dell’errore.
Conseguenza dello stabilito principio è la giustificazione di misure pratiche che inducano coloro che errano teoreticamente a correggersi, castigandoli quando questo giovi ad ammonizione ed esempio. Mezzi d’altri tempi (si dice); ora siamo in tempi di libertà e non è più lecito adoperarli; ora si deve contare sulla sola forza persuasiva del vero. Ma coloro che così dicono non hanno occhi per guardare intorno a sé. La Santa Inquisizione è veramente santa e vive perciò della sua eterna idea: quella che è morta, era nient’altro che una sua contingente incarnazione storica. E anche questa incarnazione contingente dovette essere, per un certo tempo, giustificata e benefica*, se popoli interi la invocarono ne difesero, se uomini di altissimo animo la fondarono e severamente e imparzialmente la ressero e gli stessi avversari l’applicarono per loro uso, e i roghi furono contrapposti ai roghi, onde Roma cristiana perseguitò gli eretici così come Roma imperiale aveva perseguitato i cristiani e i protestanti bruciarono i cattolici, così come i cattolici i protestanti.
Se ai giorni nostri certi espedienti feroci si sono messi da banda (si sono abbandonati definitivamente o non persistono sotto diversa apparenza?), non perciò si cessa dal premere praticamente sui manipolatori di errori. Di codesta disciplina nessuna società può fare di meno, quantunque il modo di applicarla vada soggetto a sua volta alla deliberazione pratica (utilitaria o morale).
Si comincia dall’uomo bambino, la cui educazione mentale è insieme e soprattutto educazione pratica e morale, educazione al lavoro e alla sincerità (né alcuno è stato mai seriamente educato che non abbia ricevuto, a dir poco, qualche provvida ceffata o tirata di orecchi), e si continua con le pene comminate nei codici per le negligenze e le ignoranze colpevoli, via via fino alla spontanea pedagogica sociale, per la quale l’artista che produca il brutto o lo scienziato che insegni il falso sono redarguiti dagli intellettuali e cadono presso costoro in discredito: al che povero e precario compenso è il plauso e il credito illegittimo e passeggero che ottengono talora dagli intelligenti e dalle moltitudini. La critica letteraria e artistica ha sempre di necessità, e quanto meglio intenda l’ufficio suo, energia pratica e morale. Che si concilia con la più pura esteticità e teorecità nell’esame intrinseco delle opere”.
*Questo concetto fu già difeso da Joseph de Maistre in “Lettere ad un gentiluomo russo sull’inquisizione spagnola”, rieditato da Edizioni PiZeta, nel 2009.