Siria, Yemen, Najd e il “Wahhabismo”
di Paolo Sampaoli
«Non si muove atomo nei cieli o sulla Terra che nel proprio movimento non abbia una, due, dieci, mille saggezze divine (…) come recita il poeta:
‘Per Dio, in ogni moto, in ogni quiete puoi sempre contemplare Dio.
Ogni cosa porta con sé un segno, che indica che Egli è l’Unico’».
(Zakariyyâ’ b. Muhammad al-Qazwînî, Le meraviglie del creato e le stranezze degli esseri, Milano 2008, p. 25. Trad. F. Bellino).
I recenti avvenimenti geopolitici che hanno coinvolto diverse regioni mediorientali (se non addirittura tutte) hanno anche evidenziato l’importanza (non solo geopolitica) di alcune aree che rappresentano luoghi privilegiati – in bene o in male – della storia degli arabi e, più generalmente, dei musulmani. Non si tratta soltanto del teatro di irradiazione della primitiva espansione islamica, ma anche di luoghi associati alla tradizione arabo-islamica in modo simbolico, aventi quindi un particolare effetto sulla mentalità dei popoli coinvolti.
Come noto l’Islam, in modo analogo alla maggior parte delle altre tradizioni spirituali, assegna allo spazio ed al tempo un carattere “qualificato”, contrariamente alla mentalità che ha prevalso nel mondo moderno, secondo la quale spazio e tempo sono soltanto dimensioni convenzionali appartenenti alla descrizione fisica del mondo “esterno”, niente più che coordinate geometriche di un sistema di riferimento, necessarie per esprimere delle equazioni matematiche.
Per le diverse tradizioni, invece, e per quella islamica in particolare, lo spazio (come pure il tempo) possiede una gamma di varietà qualitative, legate al suo rapporto con la realtà metafisica di cui esso costituisce una proiezione simbolica. È questa concezione che permette, ad esempio, di assegnare alla Ka‘ba (al-baytu l-harâm, “la Sacra Dimora”) la qualifica di “tempio al centro del mondo”, quasi rappresentasse l’intersezione con il piano terrestre di un asse cosmico che intercetti un analogo tempio (al-baytu l-ma‘mûr, “la Dimora Frequentata”) nel settimo cielo.
Nell’ambito della letteratura arabo-islamica si è sviluppato un genere avente per oggetto proprio le “meraviglie del creato” (‘ajâ’ib al-makhlûqât, che tra l’altro è il titolo dell’opera di al-Qazwînî citata in esergo), ma che trova nel Corano e nel hadîth (tradizione profetica) il suo fondamento. Moltissimi versetti fanno riferimento alla specificità di ogni parte del creato: spesso si insiste, anzi, affinché gli uomini meditino sulla manifestazione prendendola come simbolo e supporto di conoscenza [1]. Inoltre è facile incontrare nelle tradizioni del profeta Muhammad invocazioni di grazia nei confronti di questo o quel luogo, ovvero benedizioni ed eulogie verso un certo popolo o una certa tribù.
Fra le regioni geografiche più lodate dal Profeta vi sono appunto la Siria (indicata con il termine Shâm, che comprende in realtà un’area sensibilmente più estesa dell’attuale Repubblica Siriana, includendo anche Libano, Palestina e Giordania) e lo Yemen.
Queste due regioni hanno ricevuto il nome in relazione all’orientazione tradizionale islamica; secondo un hadîth:
«Lo Yemen fu così chiamato poiché situato alla destra della Ka‘ba, mentre lo Shâm perché ubicato alla sinistra della Ka‘ba». (Bukhârî, Sahîh, libro 61, n° 9 (3499)). [2]
Esse corrispondono rispettivamente all’angolo meridionale della Ka‘ba, posto alla destra (yamîn) di chi guardi ad oriente, e all’angolo settentrionale, situato alla sua sinistra (shâ’im).
La tradizione registra quindi una serie di “virtù eccellenti” (fadâ’il) di queste due regioni. Eccone alcune:
«”La benedizione sia sullo Shâm”. I Compagni chiesero: “Perché (dici) questo, o Inviato di Allâh?” Rispose: “Perché gli angeli del Misericordioso stendono le loro ali su di esso”». (Tirmidhî, Jâmi’, libro 49, n°4335).
«Disse il Profeta a Ibn Hawâla: “Sai che cosa dice Allâh riguardo a Shâm? Dice: Shâm, tu sei il più puro dei Miei paesi (safwatî min bilâdî) ed Io ti farò abitare dall’élite dei Miei servi”». (Tabarânî, cit. in Haddad, pag. 45). [3]
«Il Profeta disse a Ibn Hawâla: “Devi andare in Shâm, perché è il paese preferito da Allâh su tutta la terra. Egli protegge gli eletti fra i Suoi servi, inviandoli lì. Se non volete andarci, allora dovete dirigervi in Yemen e abbeverarvi ai vostri fiumi, poiché Allâh ha concesso a me una garanzia su Shâm e il suo popolo.”». (Cit. in Haddâd, pag. 43).
«Il centro del mondo islamico è in Shâm (‘uqru dâr al-Islâm bi-l-Shâm)» (Tabarânî, cit. in Haddâd, pag. 57).
Shâm è il luogo nel quale risiede la Moschea Remota (al-masjid al-aqsâ a Gerusalemme), dalla quale il Profeta ha intrapreso il suo Viaggio Celeste (al-mi‘râj):
«Gloria a Colui che trasportò di notte il Suo servo dal tempio sacro (al-masjid al-harâm) al tempio più remoto (al-masjid al-aqsâ) di cui abbiamo benedetto il recinto, per mostrargli una parte dei Nostri segni». (Cor. 17:1).
mentre il suo nome è diventato con il tempo un sinonimo della città di Damasco, la quale, oltre a vantare origini molto antiche (risalenti al secondo millennio a.C.), è altresì nota nella tradizione islamica per avere dato rifugio a Gesù e sua madre Maria durante un avvenimento che, secondo gli interpreti del Libro, è evocato in questi termini da un versetto coranico:
«E abbiamo fatto del figlio di Maria e di sua madre un segno. Abbiamo dato loro rifugio su un monte quieto, bagnato dalle sorgenti». (Cor. 23:50).
Damasco e Shâm giocano poi un ruolo centrale negli eventi escatologici riferiti nelle profezie muhammadiane. Queste narrano, infatti, che non solo rimarrà in questa regione un gruppo di uomini pii che preserveranno intatta la tradizione fino alla fine dell’umanità, ma che sarà proprio sul minareto bianco nella parte orientale della città (appartenente alla Grande Moschea detta degli Umayyadi) che scenderà il profeta ‘Isâ b. Maryam (Gesù) negli ultimi giorni, quando dovrà ritornare sulla terra per combattere e sconfiggere l’Anticristo (al-Dajjâl).
Anche per quanto riguarda lo Yemen, paese dall’antichissima civiltà, esistono tradizioni che esaltano le qualità spirituali della sua gente. A parte la fama associata al regno della regina dei Sabâ’, cui fa esplicito riferimento il Corano (27:20-44), ecco solo alcuni fra i numerosi riconoscimenti da parte del Profeta dell’Islam:
«Orgoglio e arroganza sono caratteristiche proprie dei beduini (allevatori di cammelli), mentre la calma è tipica di coloro che allevano gli ovini. La fede (invece) è una delle caratteristiche degli yemeniti, come pure la saggezza». (Bukhârî, Sahîh, libro 61 n° 9 (3499)).
«Sono giunti da voi esponenti del popolo dello Yemen: sono dolci nel cuore e sottili nella comprensione; la fede e la saggezza sono qualità specifiche della gente yemenita». (Tirmidhî, Jâmi‘, libro 49, n°4314).
In modo analogo esistono delle affermazioni del Profeta che sembrano alludere ad uno stato di sventura associato a certi luoghi, i quali sarebbero destinati a generare deviazioni nella religione e sciagure agli esseri umani. In particolare diversi ahâdîth alludono ad una regione della penisola arabica, in relazione alla quale, per l’appunto, gli eresiografi musulmani si sono sbizzarriti nell’identificare l’origine di molti moti sediziosi prodottisi nel corso della storia.
Riportiamo un paio di tali “previsioni”:
«Disse (un giorno) il Profeta: “Allâh, elargisci la Tua grazia (bârik) sul nostro Shâm e sul nostro Yemen”. Chiesero (coloro che erano presenti): “E sul nostro Najd ?”. Ripeté il Profeta: “Allâh, elargisci la Tua grazia sul nostro Shâm e sul nostro Yemen”. Chiesero (nuovamente coloro che erano presenti): “E sul nostro Najd?”. (Allora il Profeta) disse: “Esso [i.e. il Najd] sarà origine di terremoti e sedizioni (fitan) e da lì uscirà il corno di Satana”». (Bukhârî, Sahîh, libro 15, n° 32 (1037)).
La regione oggetto di questo hadîth si trova nella parte centrale della penisola, esattamente all’Est di Medina e, come specificato dall’importante tradizionista Al-Nawawî:
«Il Najd è la regione che si estende fra Jurâsh (nello Yemen) fino alla periferia rurale di Kûfa (Iraq), mentre sul suo confine occidentale c’è il Hijâz. Come ha scritto l’autore di al-Matâli‘, il Najd comprende tutta la provincia di Yamâma». (Cit. in Haddâd, pag. 23).
Un’altra narrazione tradizionale riferisce invece di un episodio che è sempre stato enfatizzato dagli studiosi musulmani come la prima manifestazione, coeva dei primi Compagni, della setta dei Khawârij (“Fuoriusciti”), termine con cui vengono solitamente designati coloro che, molto più tardi – al tempo del Califfo ‘Alî – fomenteranno una rivolta armata, animati da una concezione della Legge particolarmente restrittiva e intollerante, che li spingerà non solo a ribellarsi contro l’autorità califfale ma anche a compiere numerosi eccidi di musulmani, colpevoli di professare un’interpretazione della religione islamica diversa dalla loro.
«Narra Abû Sa‘îd al-Khudrî: “Eravamo con l’Inviato di Allâh, il quale stava distribuendo (alcune spoglie di guerra), quando venne da noi Dhû l-Khuwaysira, un membro della tribù dei Bânû Tamîm [una delle più importanti tribù del Najd], che disse: ‘O Inviato, cerca di essere equo!’. Il Profeta rispose: ‘Guai a te (disgraziato), e chi potrà essere giusto, se non lo sarò io?’. Allora intervenne ‘Umar: ‘O Inviato, permettimi di tagliargli la testa’. Ma il Profeta lo fermò: ‘Lascialo; egli ha dei compari che pregano e digiunano in una maniera che tu considereresti il tuo digiuno irrilevante confrontato con il loro. Essi recitano il Corano (continuamente), ma la loro recitazione non scende al di sotto della loro gola; abbandoneranno l’Islam con la stessa velocità con cui una freccia trapassa un corpo». (Bukhârî, Sahîh, libro 61 n° 117 (3610)).
L’ultimo riformatore in ordine di tempo che si è manifestato nel Najd è il giurista del XVIII secolo Muhammad Ibn ‘Abd al-Wahhâb (1703-1792), fondatore della corrente puritana denominata dai suoi avversari “wahhabismo”. Questa “scuola” costituisce attualmente la dottrina ufficiale di diversi paesi che si affacciano sul Golfo Arabico. Dopo una prima fase all’inizio del secolo XIX in cui la guerra scatenata della famiglia dei Sa‘ûd, alleatasi con il riformatore, era riuscita a conquistare persino le due citta sante di Mecca e Medina, le milizie wahhabite furono ricacciate nell’altopiano (il Najd), arroccandosi nella loro capitale Riyâd. È solo grazie alle guerre coloniali dell’inizio del XX secolo che i loro epigoni, gli “Ikhwân” – come si facevano chiamare – potranno riappropriarsi del Hijâz e instaurare la monarchia che attualmente domina su tutta la penisola. Nello stesso periodo quella che era stata considerata una “eresia” dalle scuole sunnite, cominciò ad influenzare una parte di coloro che promuovevano la riforma dell’Islam, nella fattispecie il discepolo più importante di Jalâl al-Dîn al-Afghânî e di Muhammad ‘Abduh: Rashîd Ridâ’ [4]. In seguito, nel corso del XX secolo, la dottrina wahhabita andrà permeando le ideologie dei gruppi più radicali, che la utilizzeranno per scopi strettamente politici, fino ad arrivare alle manifestazioni attualmente note [5].
Il fondatore di questa corrente, erroneamente associata alle scuole sunnite, dirà di sé:
«Ti parlerò di me stesso. Nel nome di Allâh, all’infuori del quale non c’è divinità, ho ricercato la scienza e quelli che mi hanno conosciuto pensano che ne abbia un po’. Tuttavia a quel tempo non sapevo il significato di “non c’è divinità se non Allâh”, né conoscevo la religione dell’Islam prima di questa benedizione (khayr) che Allâh mi ha elargita. Analogamente nessuno dei miei insegnanti lo conosceva. Se qualcuno degli studiosi di ‘Ârid ha l’ardire di affermare che egli conoscesse il significato di “non c’è divinità se non Allâh”, o il significato dell’Islam prima di questa epoca, o ritiene che qualcuno dei suoi maestri lo conoscesse, egli mente, inventa, porta la gente fuori strada e loda falsamente se stesso». [6]
Quindi il riformatore ha avuto, lui stesso, la pretesa di affermare che, prima della pubblicazione dei suoi “insegnamenti”, nessuno fra i suoi contemporanei o fra i suoi predecessori avrebbe professato una dottrina “ortodossa” dell’Islam [7]. Sarà proprio questo atteggiamento esclusivista e settario che condurrà alcuni gruppi a proclamare la scomunica (takfîr) contro il resto dei musulmani per poter giustificare le sedizioni armate, le ribellioni e gli eccidi.
Un’ultima notazione circa la curiosa affermazione del fondatore del “wahhabismo”, il quale sembra ricordare, nella sua stessa ammissione, analoghe “investiture” di altri riformatori che hanno posto a cardine della loro missione la critica e la contestazione proprio degli aspetti “illuminativi” presenti nelle tradizioni che intendevano riformare [8]. Tanto è vero che la loro furia si è spesso abbattuta sugli elementi tradizionali che postulano un rapporto più spirituale con la Divinità; si sono quindi prodotti con estrema virulenza nella distruzione di immagini o di altri supporti simbolici, e nella demolizione di templi, mausolei, sacelli di profeti, santi, uomini pii. E non si tratta semplicemente dell’abbattimento di quelli che potrebbero essere considerati “idoli” associati alla Divinità, ma di ogni riferimento che possa evocare una sacralizzazione del mondo o una teofania della natura. Da tale punto di vista tutti questi movimenti riformisti, ben lungi dall’essere “medioevali” (come sovente viene erroneamente affermato) costituiscono piuttosto una delle manifestazioni più evidenti della mentalità moderna.
Non sarà comunque da trascurare la singolare contraddizione che caratterizza spesso i personaggi all’origine di queste riforme, i quali, nel momento stesso in cui contestano, con tutta la loro violenza (non necessariamente sempre e solo verbale), la legittimità dell’illuminazione e della conseguente autorità spirituale rivendicata dai maestri della tradizione, propongono se stessi come degli “illuminati”.
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NOTE
[1] Diversamente da quanto viene spesso affermato, la vera ed essenziale differenza fra il mondo moderno (quello cioè che ha preso inizio in Occidente a partire dalla fine del Medio Evo ed i cui effetti si sono imposti successivamente al resto dell’umanità) e quello tradizionale non risiede tanto nello sviluppo materiale, scientifico-tecnologico, economico, ecc. (per quanto indubbiamente notevoli siano le variazioni intercorse nel passaggio dall’uno all’altro), ma piuttosto nella mentalità dell’essere umano, il quale ha subito una vera e propria mutazione antropologica. La caratteristica cardinale del mondo moderno è il “disincanto”, come ha ben compreso chi ha forgiato al proposito tale fortunata espressione, mentre i “mondi tradizionali”, per quanto differenti possano essere fra di loro, e persino opposti sotto più di un aspetto, hanno tutti in comune l’ ”incantamento”, cioè la visione multidimensionale della realtà, che non viene circoscritta unicamente al suo aspetto materiale e/o psicologico come accade nell’era moderna. Tale “incantamento” – che non ha niente a che vedere con le “superstiziosa fantasia popolare”, anche se il “popolo” contribuisce spesso alla trasmissione di importanti depositi simbolici – è a sua volta strettamente legato all’ ”incantazione”, ovvero a quella modalità di realizzazione spirituale che, almeno stando agli insegnamenti impartiti nelle varie scuole iniziatiche, permette di acquisire la conoscenza metafisica mediante la contemplazione delle realtà sottili, presenti sia nei “segni” del mondo – manifestati attraverso le meraviglie della Natura intesa come Teofania – sia nei versetti delle Scritture, cioè nel supporto fondamentale della contemplazione che è il dhikr, il “ricordo/menzione/incantazione”: non è casuale che gli uni e gli altri abbiano un significato simbolico e siano designati in arabo con lo stesso termine (âyât).
Naturalmente siamo coscienti del fatto che da molti le differenze fra civiltà ed epoche vengano imputate a cause soprattutto, se non esclusivamente, economiche, le quali costituirebbero la “struttura” di una pretesa “legge storica”, laddove ogni altro fattore fungerebbe da “sovrastruttura”. Noi al contrario riteniamo che una simile concezione sia dovuta, per riprendere le parole di qualcuno, al fatto che i moderni, essendo «mossi da interessi soprattutto “economici”, pretendono spiegare tutti gli avvenimenti storici riportandoli a cause di quest’ordine».
[2] È possibile consultare le principali raccolte di tradizioni profetiche (ahâdîth) al seguente indirizzo: http://sunnah.com/
[3] Jibril Fouad HADDAD, The Excellence of Syro-Palestine – Al-Shâm – and Its People. (“Forty Hadîth Series”, Damascus: Maktabat al-Ahbâb, 2002). Consultabile qui: http://eshaykh.com/?s=syro-palestine
[4] V. il nostro intervento: “Integralismo e disintegrazione”, Eurasia, 29 (1/2013): pp. 183-209.
[5] Fra i quali, per l’appunto, quelli che tentano di sovvertire la Siria e lo Yemen…
[6] Frammento di una lettera di Muhammad Ibn ‘Abd al-Wahhâb, citato in Michael COOK, “On the Origins of Wahhâbism”, JRAS, series 3, 2.2(1992), p. 202.
[7] Almeno al di fuori della circoscritta cerchia dei seguaci dei giuristi medioevali cosiddetti “neo-hanbaliti”, Ibn Taymiyya e Ibn Qayyim al-Jawziyya, come si può dedurre dal contesto delle elaborazioni dottrinali di Ibn ‘Abd al-Wahhâb, che generalmente riprendono in maniera pedissequa, portandole all’estremo, le tesi di quegli studiosi. La posizione di questi ultimi poi è a sua volta abbastanza problematica, nell’ambito della tradizione islamica di obbedienza sunnita che va dal XIV al XVIII secolo.
[8] Tanto per limitarsi ad alcuni riformatori della tradizione cristiana (che presentano analogie non casuali con quelli musulmani) basterà ricordare l’ “illuminazione della torre” (Turmerlebnis), esperita da Martin Lutero mentre si trovava (a suo dire) “nella latrina della torre” del convento di Wittenberg, o quella del fondatore della setta dei Quaccheri, George Fox.