Pagine di Benedetto Croce di estrema attualità
a cura di Bennato Bennati
Ho reperito sulla solita bancarella dei libri vecchi ed usati un aureo volumetto (204 pagine, indice compreso) di uno dei maggiori italiani (se ne condividano o meno tutte le opinioni: ad esempio, quando parla di religioni, andrebbe precisato che, sempre che si tratti di religioni autentiche, conducono al fanatismo solo quando in esse lo spirito viene scavalcato dalla lettera) partoriti dal Bel Paese dalla fine del XIX secolo ad oggi, oggigiorno non ricordato (e non onorato) come si dovrebbe (soprattutto, dai tanti, spesso e volentieri, sedicenti “liberali” dell’ultim’ora), Benedetto Croce, dal titolo “Due anni di vita politica italiana” (1946- 1947) che fu pubblicato da Laterza nel 1948 nella celebre (e benemerita) collana “Biblioteca di cultura moderna”.
Dal volume, ritenendo di fare cosa gradita a lettori, estraggo la recensione dedicata dal filosofo ed uomo politico abruzzese–napoletano (fu anche Presidente del Partito Liberale Italiano), al libro di Arthur Koestler “Buio a mezzogiorno”, Milano, Mondadori, 1946, di un’attualità senza tempo, ché ben potrebbe essere intitolato “Del fanatismo, delle sue cause e fenomenologia”.
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Questo romanzo, o questa storia in veste di romanzo, ha colpito vivamente,
e, direi, turbati, i lettori italiani, facendoli assistere al processo di pressione psicologica onde nel regime bolscevico si ottiene che innocenti si accusino di delitti che non hanno mai commessi e si porgano alle condanne di morte, sotto la suggestione che quel loro sacrificio è necessario ed è meritorio per il trionfo della causa bolscevica, alla quale essi, per concetti manifestati anche in cose meramente tecniche, sono di ostacolo o di pericolo: il che offre la spiegazione dei processi e delle esecuzioni dei più antichi comunisti, compagni di Lenin, che rimasero misteriosi fuori della Russia. È naturale che un racconto di questa sorta dia il brivido che si prova innanzi a un precipizio, un misto senso di orrore e di attrazione. – Potrebbe accadere anche in me lo stesso? – si domanda il
lettore. – Homo sum, con quel che segue.
Ma, considerando a mente fredda il caso, che il libro del Koestler ci presenta e che ora ha luogo in un vasto paese dell’Europa, non è nuovo, perché rientra nella storia, antica e medievale e moderna, ed europea e asiatica e di altri continenti, di quel che già presso i romani prese il nome, che ancora ritiene, di “fanatismo”.
Il fanatismo, nel suo intrinseco, è l’assunzione di una regola unica o suprema, che sopprime o soverchia e mette a tacere il pensiero che pensa e che esercita la critica, e la coscienza morale, che moralmente si risolve e crea le azioni solo a sé conformi. Che quella regola, la quale disumana l’uomo traendolo fuori di sé stesso, si fondi sopra una rivelazione religiosa o sopra un falso raziocinio o sopra un concetto astrattamente concepito e unilaterale, o sopra un’immaginazione scambiata per realtà, o sopra l’autorità di un uomo o di un istituto, comunque essa sia nata, comunque si impianti e si fissi nell’animo, l’essenziale, come si è detto, sta nella soppressione e sostituzione che essa esegue del pensiero critico e della coscienza morale.
E nella misura in cui questa soppressione e sostituzione è non intera ma più o meno parziale e, sia pure contraddittoriamente o in modo indiretto, lascia ancora operare pensiero e moralità, il caso è meno grave e sovente sta piuttosto nelle parole e nelle inerti credenze che non nel fatto. Ma quando è intera, quando si ha il vero e proprio fanatismo, si apre un processo di follia, di lucida follia, che percorre tutti i gradi fino alla più terribile pericolosità.
Il caso studiato dal Koestler ha il carattere essenziale di sopra enunciato, tanto che la regola onde si attuerebbe il rinnovamento totale e radicale della società umana e si produrrebbe il pieno affratellamento degli uomini, non viene derivata né sorretta ne corretta dalle forze spirituali che si sono ricordate, ma, asserita dommaticamente, è affidata per l’esecuzione alla “Storia”, la quale, usa a compiere i grandi rivolgimenti col versar fiumi di sangue, anche d’innocenti, anche di uomini degni, che potrebbero in qualche modo contrastare e ritardare e infiacchire il suo rettilineo andamento, impone quella regola. Sennonché la Storia, nella sua semplice, nella sua realistica verità, non è altro che la tela tessuta dei sentimenti, dei pensieri, della volontà degli uomini, proponenti, dibattenti, contrastanti, modificanti le loro idee, e in nessuna parte di essa s’incontra la persona della signora Storia, il nuovo Geova o il nuovo Moloch, che impera e comanda quello che può nascere come risultato solo dalla testa e dal cuore dell’uomo, nella pienezza dell’umanità e degli umani dolori e delle miserie altresì e degli impeti generosi e sublimi, la storia che non ha termine finale, ma in ogni suo momento si soddisfa e non si soddisfa, si adempie e continua. La conosciamo l’altra, la “Signora Storia”, o “Signora Necessità storica”, quando dal campo dell’intendimento è trasferita all’altro, che non le spetta, della risoluzione morale; l’abbiamo conosciuta in formato minore e l’abbiamo vista fiorire per un ventennio sulle labbra di coloro che non osavano né accettare come cosa del loro pensiero e della loro coscienza il cosiddetto fascismo né opporvisi, ma pur gli cedevano contro coscienza e in quest’atto procuravano di salvare, con quella formula, la loro faccia. E quanto all’argomento della disumanità della storia, testimoniata dalle stragi che approva e attua nelle guerre e in altri modi, è sofistico, perché le guerre con mosse, in circostanze date, da bisogni, sentimenti, ideali e doveri degli uomini, e non già fatte in ubbidienza a un idolo stupido e feroce. E non è vero che i fanatici, che chiudono gli occhi alla verità e alla moralità, compiano i fecondi rivolgimenti storici, perché questi dove furono fecondi erano sostenuti da altre ragioni e intimamente condotti da altri motivi, e la parte del fanatismo fu infeconda o feconda solo nel preparare reazioni e restaurazioni.
Contro il fanatismo, che ebbe il suo campo principale nelle divisioni e lotte religiose (tipico e leggendario insieme rimase tra l’undecimo e il tredicesimo secolo il capo degli Assassini, soprannominato il Vecchio della Montagna), spiegò l’opera sua l’illuminismo del Settecento in nome di una forza che avrebbe dovuto fugarlo per sempre, la Ragione; ed è noto, per restringere la citazione a un solo testo di quella copiosa letteratura polemica, l’articolo che in proposito scrisse il Delegre nell’Encyclopédie e che il Voltaire rifuse poi nel Dictionnaire Philosophique.
Ma poiché la Ragione o Raison dell’ illuminismo riteneva alcunché di trascendente a causa della sua astrattezza e della sua provenienza matematica e questa la predestinava a diventare la Dea del giacobinismo, che una famosa cerimonia religioso teatrale, accadde che proprio a un nuovo violento fanatismo, al quale seguì una lunga e varia reazione, e poi una trasfigurazione che serbò la libertà seppellendo il giacobinismo.
Un letterato di molto nome, Giovan Francesco Laharpe, o giacobino, voltosi dipoi al contrario, alla vecchia chiesa, 1797 un libro col titolo: “Du fanatisme dans la langue rivolutionnaire”, contro la persecuzione che “les barbares du dix-huitième siècle” facevano della chiesa e dei suoi ministri. Tutti ricorderanno la rappresentazione che del fanatismo giacobino diè nel suo romanzo: “Les dieux ont soif “, Anatole France; e Giorgio Sorel non risparmiò i suoi sarcasmi alle “grandi anime” che avevano molta simpatia per il carnefice, e che, a furia di ghigliottina, preparavano la “felicità del Genere umano”. Ma se il caso che è oggetto del libro del Koestler risponde di tutto punto allo schema tradizionale, così teorico come storico, del fanatismo, nella sua particolarità si lega alle disposizioni morali dei giorni nostri, e soprattutto allo scemato spirito d’ intrapresa morale e politica, d’inventiva, di libertà, e al tentativo di sfuggire allo sforzo e all’impegno che esso chiede a noi di noi stessi, alla responsabilità, donde l’adattamento al quadro di una società burocratica nella quale non si ricerca e non si discute ma si ubbidisce ad istruzioni precise e ad ordini. Perfino i poeti ora “humiliter se subjiciunt”: ma, in verità, sono in genere tali che la poesia non perde niente con la loro accettazione di un còmpito burocratico, sebbene sia da temere che al fanatismo rechino qualche loro contributo di torbido decadentismo. Più ingenuamente, una gentile signorina che si era fatta bolscevica, mi diceva anni addietro in Parigi: – Credetemi, sono felice: ho risoluto di un colpo tutti i miei problemi, cioè non ne ho più: mi sento il pezzo di una macchina che compie il suo lavoro. È proprio il contrario di quel che volevamo e ci proponevamo noi giovani e che avevamo accolto dall’insegnamento degli anziani, dei De Sanctis, e dei Carducci. Non esser felici così: essere inquieti, cercando il meglio che il nostro pensiero riusciva a conquistare, ponendo alla nostra volontà il segno che avevamo scelto e mantenevamo saldo, e insieme plastico, con la meditazione. Così ci pareva di vivere da uomini e non sognavamo felicità da pezzi di macchina. Come si è passato a un desiderio e a un ideale che ne è il preciso opposto? La meravigliosa fioritura politica, economica, intellettuale, artistica del glorioso ottocento ha prodotto una stanchezza, della quale sono stati effetti le “conflagrazioni”, come furono chiamate, o le guerre caotiche e contradittorie, in cui dalla parte dei vincitori e dei vinti erano le stesse tendenze buone e cattive, progressive e regressive (onde la parola “inutili stragi”, che fu pronunziata da un papa), e ora questo mondo sfiduciato e agitato, pauroso e ferocemente pronto a tutto.
Siamo prossimi a una crisi benefica o bisognerà che la società umana passi ancora per altre fasi patologiche? Nessuno di noi sa ciò; ma, per fortuna, ciascuno sa come deve condursi, per suo conto, per non troppo arrossire dentro sé stesso. Sehe jeder, wo er bleibe, Und wer steht, dass er nicht falle! come Goethe consigliava. “Veda ciascuno dove egli se ne rimanga, e chi sta, che egli non cada!”. Dicembre 1946 (Fondazione “Biblioteca Benedetto Croce”).