Quelle strane similitudini tra parole di diverse “famiglie linguistiche”…
di Enrico Galoppini
Che cosa possono avere in comune una lingua così ‘esotica’ come l’Arabo ed altre a noi più familiari come l’Inglese, il Francese, lo Spagnolo, (talvolta) il Tedesco e, naturalmente, l’Italiano?
Al di là dei “prestiti linguistici” (in ogni direzione) e delle analogie sintattiche (incredibilmente numerose quelle tra l’Arabo e l’Inglese), molto più di quanto comunemente si creda, a patto di non assolutizzare quel confine, potente anche nell’immaginario, tracciato dalle cosiddette “famiglie linguistiche”.
L’Arabo è stato inscritto infatti tra le “lingue semitiche” (al pari dell’Ebraico, dell’Aramaico ecc.), mentre le altre summenzionate sono state assegnate alla famiglia delle “lingue indoeuropee” (lasciando perdere i sottogruppi di entrambe le famiglie).
Le classificazioni, escogitate in un periodo – il Sette-Ottocento – in cui tutto, per gli studiosi occidentali, doveva essere sistematizzato (per meglio essere “controllato”), possono avere la loro utilità, ma è bene evitare di trarne deduzioni forzate e pretestuose, che dal mero campo linguistico finiscono per coinvolgere gli ambiti della psicologia, della sociologia e addirittura della mentalità di un parlante Arabo piuttosto che Inglese, Italiano eccetera.
Con questo non vogliamo dire che le lingue “sono tutte uguali”, con ciò intendendo che una “traduzione” di un vocabolo o di una frase basta ad esprimere tutta la gamma di sensazioni, immagini e concezioni di cui solo una data lingua è veicolo privilegiato a differenza di altre. Ogni lingua, in effetti, è particolarmente adatta per esprimere determinate idee invece che altre.
Talvolta la questione è facile da capire: se l’informatica ha avuto uno sviluppo preponderante negli Stati Uniti, va da sé che l’Inglese ne è il veicolo privilegiato (ciò non toglie che si potrebbe evitare un eccesso di termini inglesi nelle altre lingue); così com’è noto che gli archeologi devono imparare un po’ di Tedesco, mentre i musicisti e professionisti del “bel canto” sarà bene che s’impratichiscano con l’Italiano, se non altro perché nel primo caso molti studi “classici” in materia sono stati redatti nella lingua di Goethe, mentre nel secondo è ancor più risaputo che l’Italia ha dato i natali al fior fiore dei musicisti e dei cantanti d’opera.
Ma qui si tratta ancora di fattori d’ordine storico, sociale, economico ed anche politico a farla da padrona. Mentre vogliamo invece sottolineare un aspetto poco considerato oggi, ovvero la capacità di una lingua di poter esprimere “idee spirituali”, di fungere da sostegno per una ricerca interiore.
Ora, tutti sanno che la lingua del Corano, il testo sacro dell’Islam, è l’Arabo. Dunque, chi vuole penetrare nei significati più reconditi del Libro (con la maiuscola) non può prescindere dall’apprendimento dell’Arabo. Lingua araba e religione dell’Islam sono inscindibilmente correlati.
Ma al di là di tutto questo, vi è, per così dire, a monte, la sensazione di una sorta di “unità d’origine del linguaggio” (v. A. Trombetti, L’unità d’origine del linguaggio, Bologna 1905): se la Verità, da cui promana tutto il resto, è una, anche la lingua non può che essere, originariamente, una.
Ecco che si spiegano così alcune ‘inspiegabili similitudini’ tra vocaboli di lingue appartenenti a “famiglie” diverse che esprimono “idee fondamentali”: all’inglese Earth e al tedesco Erde, fa eco l’arabo Ard; la parola araba Daw’ (“luce”, non quella ‘originaria’, Nûr) è ricollegabile alla stessa radice dei nostri Dì e Diurno; Lugha (“lingua”) ricorda in maniera impressionante Logos; Sûfiyya (da cui “sufismo”) evoca immediatamente la Sofia, la Divina Saggezza. Il tedesco Zahn (“dente”) ha a che fare con l’arabo Sinn?; strano, ma fino a un certo punto, che “gemello” in arabo si dica taw’am, dalla radice di due, two ecc.; Jins (“genere”, “sesso”) chissà perché è così simile a Gens e Genus. E come mai gli inglesi chiamano Breakfast (lett. “rottura del digiuno”) la colazione, esattamente come fa l’Arabo scegliendo una radice che implica l’idea di “rottura”, “interruzione”, da cui Iftâr (il pasto che al tramonto segna la fine del quotidiano digiuno di Ramadân) e Futûr (“colazione”)? Hilf (“alleanza”), ha a che fare con Hilfen (ted.) e To Help (ing.)? Udhun (orecchio) è completamente estraneo al prefisso oto? La Ka‘ba ricorda poi clamorosamente la parola Cubo, mentre l’arabo Haratha, designando un’attività tra le più antiche volta alla preparazione dei campi, riporta alla mente Arare ed Aratro. Ha qualche relazione poi l’arabo Kafan (“bara”) con l’inglese Coffin? Qarn (anche “secolo”) pare inoltre essere collegato al Greco Kronos, mentre è assai curioso confrontare il tedesco Berg (“montagna”) con l’arabo Burj (“torre”); e sempre per scomodare il tedesco desta un certa sorpresa l’assonanza tra War (“guerra”) e Harb. Cut (“tagliare”, in inglese) potrebbe aver la stessa origine dell’arabo Qata‘a, così come il francese Casser (“rompere”) ricorda straordinariamente l’arabo Kasara, allo stesso modo di Achéter (“acquistare) che fa il pari con l’arabo Ishtarâ. E se l’inglese Cable (“cavo”, “corda”) ricorda ‘arabo Habl (il Corano invita i credenti a tenersi saldi alla “corda di Allâh”), anche Sound (“suono”) potrebbe aver qualche relazione con l’arabo Sawt (“voce”, “volume”).
Ma non è finita qui. L’arabo Rabî‘ (“primavera”), della stessa radice di “quattro” (Arba‘a), potrebbe dirsi così in ragione della dottrina dei cicli cosmici che trova la sua esposizione più chiara nell’Induismo, dove la prima èra, il Krita Yuga, quella di una umanità ancora non corrotta come quella dell’ultima (il Kali Yuga), si chiama così poiché la proporzione tra le quattro ère è appunto quella che intercorre tra 4-3-2-1, col Kali Yuga che dura un quarto rispetto al Krita Yuga, il quale rappresenterebbe la “primavera” delle quattro ‘stagioni’ della presente umanità.
C’è poi la strana faccenda del “coccodrillo”, in Arabo Timsâh, che va sotto una radice tra i cui lemmi troviamo Màssaha e Masîh, rispettivamente “ungere qn.” e “Messia”, cioè “l’Unto del Signore”. Bene, come avveniva l’unzione sacra dei Faraoni d’Egitto? Con un unguento ricavato proprio dal coccodrillo… (e si noti che la forma della parola Timsâh è effettivamente quella di un “nome verbale”, corrispondente al nostro infinito, del verbo arabo Màssaha, pertanto il coccodrillo viene identificato con l’unzione stessa.
Vediamo adesso un’altra di queste ‘inspiegabili’ somiglianze tra vocaboli di lingue assai distanti, secondo la classificazione consolidata; vocaboli, ripeto, esprimenti idee nient’affatto secondarie o accessorie. Prendiamo il concetto di Bar-do, lett. “tra i due”, ovvero lo stato “intermedio” del defunto, prima di una nuova “esistenza”. Tale idea è particolarmente chiara nel cosiddetto “Libro Tibetano dei morti” (Bar-do Thodol), tradotto pressoché in tutte le lingue europee. Bene, la tradizione islamica – e non potrebbe essere diversamente poiché la Tradizione è una – considera un analogo stato “intermedio”, che è quello della Hayât (“vita”) Barzakhiyya, quello dell’anima in attesa del Giudizio. Bàrzakh, in arabo, significa “istmo”, “barriera”, che implicitamente delinea “un di qua” e “un di là”, pertanto è lecito considerare un’origine comune dei due termini che nel Buddismo tibetano e nell’Islam designano questo “stato intermedio”.
Si tratta solo di “prestiti linguistici” (come i più sono indotti a pensare), oppure di semplici, benché notevoli, assonanze? Oppure di qualcos’altro che ci induce a riflettere sull’unità fondamentale non solo dell’origine del linguaggio bensì dell’intera civilizzazione umana?