A proposito di “migranti” ed “accoglienza”: l’esempio della Libia che non c’è più.

di Enrico Galoppini

Moammar GadhafiDopo l’ennesima ecatombe di sventurati, finiti ad ingrossare il computo delle vittime di una politica scellerata condotta da soggetti uno più criminale dell’altro, tutti si son messi a dire la loro sulla questione dei “barconi”.

C’è chi propone di bombardarli, come se il problema fosse il mero mezzo di trasporto. C’è chi reclama l’apertura di un “corridoio umanitario” (che potrebbe condurre direttamente a casa sua…). C’è chi ci mette la solita “parola buona” (il Papa). E c’è chi chiama in aiuto l’Unione Europa e addirittura l’America.

Gli stessi soggetti, cioè, che hanno voluto e realizzato la fine dello Stato libico, nel quale lavoravano circa due milioni di africani.

Tutti abbiamo visto che fine hanno fatto questi ospiti discretamente integrati una volta eliminato Gheddafi. Discriminati, malmenati e anche uccisi, con la scusa che erano “fedeli al regime”. Anche se la verità è che il famigerato “razzismo” non è esclusiva dell’uomo bianco.

Tanto per dirne una, alcuni giorni fa, in Sud Africa, è accaduto che una folla inferocita di zulu ha dato la caccia a degli immigrati, provocandone la fuga precipitosa dalle loro case.

Ma Gheddafi andava tolto di mezzo perché era un “dittatore”. Un dittatore che avrà anche chiuso un occhio su questo traffico di esseri umani (il problema dei “barconi” non nasce ora), ma che senza ombra di dubbio credeva nelle potenzialità dell’Africa e della sua gente, non solo come riserva di manodopera a buon mercato e, soprattutto, valanga umana per trasformare l’Italia e l’Europa intera in una copia dell’America.

Si vergogni, dunque, chi pretende di fare lezioni di moralità attaccandosi al ritornello del “multiculturalismo”. Ché quello della Jamahiriyya era effettivamente un modello nel quale trovavano posto, essendoci lavoro, le più diverse etnie africane; mentre quello occidentale imposto all’Italia e all’Europa è solo un espediente per trasformare la nostra terra, dove il lavoro è sempre più chimerico, in un caos permanente nel quale l’afflusso di “migranti” svolge una parte decisiva.

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